I GRASSI NON HANNO COLPE
Salute è una tattica controproducente suscitare vergogna nelle persone sovrappeso
Eccessi mediatici Nel caso dell’infanzia i messaggi diventano quasi terroristici, per non parlare dei reality in cui si gareggia a chi dimagrisce di più.
Troppo spesso le campagne contro l’obesità sono intimidatorie. E non funzionano neppure.
Negli Stati Uniti il sovrappeso e l’obesità sono un grave problema sanitario e sociale. In molti Paesi industrializzati la percentuale di persone con problemi di peso aumenta vertiginosamente, con la complicità di uno stile di vita sedentario e frenetico. Non sono secondari il fattore economico e l’accesso a una corretta educazione alimentare: un fast food è più economico di un ristorante e ci vuole meno tempo a comprare un vassoio di cibo preconfezionato che a cucinare, magari tenendo sotto controllo le calorie. Servono solo qualche dollaro e un paio di minuti per acquistare un pasto ipercalorico. Gli effetti collaterali dell’aumento di peso incidono sempre più sui costi sanitari e la diffusione dell’obesità infantile rischia di cronicizzare il fenomeno, rendendo sempre più difficile tornare indietro e arginare le conseguenze di 20 o 30 chili di troppo. Negli Usa quasi il 70% degli adulti e più del 30% dei bambini sono sovrappeso o obesi. Patologie cardiovascolari, diabete, ma anche affaticamento cronico, depressione e vergogna appaiono come metastasi incontrollabili e, a volte, un destino immutabile. Di recente l’American Psychiatric Association ha introdotto 5 nuove categorie diagnostiche tra i disturbi alimentari, tra cui il binge eating: mangiare compulsivamente e velocemente quantità eccessive di cibo. Come invertire la tendenza? Secondo un recente studio condotto da tre ricercatori dello Yale University’s Rudd Center for Food Policy and Obesity, e pubblicato sull’«International Journal of Obesity» pochi giorni fa, il segreto sta nel non nominare l’obesità e nell’evitare minacce e messaggi colpevolizzanti. Lo studio, significativamente intitolato Fighting obesity or obese persons? («Combattere l’obesità o le persone obese? »), analizza la percezione pubblica dei messaggi delle campagne antiobesità. Ci siamo già passati: molte campagne sull’HIV, sul cancro o sulle malattie sessualmente trasmissibili hanno usato l’arma dello stigma. Secondo il Center for Disease Control and Prevention lo stigma impedisce la prevenzione e complica la diagnosi e i trattamenti, incidendo anche sul rapporto con gli operatori sanitari. Insomma tutte le campagne basate sulla colpevolizzazione o la vergogna, tutte quelle che avvertono che essere obeso fa male alla salute e che pesare troppo è una tua responsabilità («è colpa tua»), che non troverai mai lavoro e che passerai una vita da disgraziato, non solo sono inutili, ma rischiano di essere dannose. Hanno maggiore possibilità di successo gli incoraggiamenti che si soffermano sui vantaggi, evitando di calcare sull’eccesso ponderale o sulla tua irresolutezza. Lo stigma verso gli obesi è già alto. Spesso non è nemmeno percepito come tale: secondo un sondaggio dello scorso agosto condotto dalla Harris Interactive/Health Day, il 61% degli americani non considera offensivo rimarcare il peso di qualcuno. Il giudizio è spietato anche verso chi ha perso peso, secondo un recente studio apparso sulla rivista «Obesity». Un rinforzo o un richiamo di questa condanna diffusa peggiora l’autostima e non aiuta le persone a investire sul futuro e sulla propria salute. Non si tratta di confidare semplicisticamente in una ipnosi collettiva, come succede a Jack Black verso la versione oversize di Gwyneth Paltrow nel film Amore a prima svista,ma di scegliere una strategia più efficace e non ridurre le persone al loro peso, giudicato vergognoso e considerato come il risultato di una cattiva volontà. Di campagne intimidatorie e terroriste nella lotta al grasso se ne sono viste molte: per la prima volta la città di New York ha approvato giorni fa il divieto di vendere nei ristoranti e al cinema bibite ipercaloriche di peso superiore alle 16 once (450 grammi). All’inizio di quest’anno il dipartimento per la salute e l’igiene mentale di New York ha lanciato una campagna per invitare a fare attenzione alle porzioni: «Le porzioni sono cresciute», si legge nei manifesti della campagna. Sullo sfondo c’è un ragazzino obeso senza testa oppure una signora che faticosamente sale le scale. In primo piano la riproduzione di tre taglie di una bibita o di un cheeseburger. Da com’erano a come sono oggi, quasi raddoppiate—in effetti la versione small sembra essersi estinta negli Stati Uniti, lasciando il posto a porzioni che sembrano destinate a una intera famiglia. «È cresciuto anche il diabete 2, che può portare all’amputazione. Riduci le tue porzioni, riduci il tuo rischio», è l’avvertimento. Torna inmente la proposta del ministero della Salute italiano di dimezzare le porzioni, che suscitò tante discussioni. Oppure la campagna di Strong4Life, destinata ai bambini della Georgia. Sotto la scritta in stampatello e in rosso warning si aggiunge: «È dura essere una bambina piccola. Soprattutto se non lo sei». Come sfondo una foto di una bambina notevolmente in sovrappeso. Le campagne sull’obesità infantile sono le più criticate e tra i messaggi giudicati come maggiormente stigmatizzanti c’è uno slogan australiano: «L’obesità infantile è un abuso infantile». L’anno scorso un ragazzino obeso dell’Ohio fu tolto temporaneamente alla madre dai servizi sociali. Cadrebbe verosimilmente sotto la scure dei ricercatori di Yale anche la campagna contro l’obesità del ministero italiano della Salute e delle politiche sociali del 2008: «Obesità. Non aspettare, passa all’azione! Mantieni sotto controllo il tuo peso. Guadagnerai salute e benessere», stampato sul viso paffuto di un bambino. Lo studio analizza le intenzioni, perciò non c’è garanzia sulla reale efficacia: in agguato ci sono la debolezza della volontà e la difficoltà di prevedere il proprio e l’altrui comportamento. Varrebbe comunque la pena di tentare una strategia diversa, considerando che quella della stigmatizzazione non funziona. E sarebbe interessante allargare l’analisi ai tanti reality sul genere «famiglie a dieta», «grassi contro magri» o «non aprite quel cassetto». Uno di grande successo si chiama The biggest loser («Il grossissimo perdente») ed è arrivato alla tredicesima stagione: una specie di Giochi senza frontiere per perdere peso, sudando e ansimando. Il rischio è che, invece di perdere peso, si perda solo tempo.
Dal 1929 alla crisi attuale : Corsi e ricorsi della storia
Non tutti vivono la crisi economica come una sciagura. Per esempio Alberto De Nicola, su «Alfabeta2» di settembre, la legge come un'occasione propizia per farla finita con la nefasta utopia neoliberale. Infatti, scrive, «l’esperienza dell’impoverimento rovescia le due figure principali attraverso cui il neoliberismo ha costruito il suo discorso», identificate da De Nicola nell’«individuo proprietario» e nell’«imprenditore di sé». Tali immagini retoriche impedivano di pensare le relazioni sociali «come rapporti di sfruttamento». Ma ora il velo è caduto e la crisi apre prospettive inedite alle lotte proletarie. De Nicola non sta più nella pelle: «Siamo solo all'inizio— conclude elettrizzato — di una nuova stagione e di una nuova grammatica per i conflitti di classe». Torna in mente il modo in cui l'Internazionale Comunista, con la linea «classe contro classe», reagì alla crisi del 1929, vista come il segnale di una nuova ondata rivoluzionaria: invece la sua principale conseguenza in Europa fu l’avvento del Terzo Reich. Aveva ragione Karl Marx: la storia prima si presenta come tragedia, poi si ripete come farsa.
Di Chiara Lalli, estratti dalla rivista "La Lettura ", inserto "Corriere della Sera" 23 de settembro 2012. Compilati, digitati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
Eccessi mediatici Nel caso dell’infanzia i messaggi diventano quasi terroristici, per non parlare dei reality in cui si gareggia a chi dimagrisce di più.
Troppo spesso le campagne contro l’obesità sono intimidatorie. E non funzionano neppure.
Negli Stati Uniti il sovrappeso e l’obesità sono un grave problema sanitario e sociale. In molti Paesi industrializzati la percentuale di persone con problemi di peso aumenta vertiginosamente, con la complicità di uno stile di vita sedentario e frenetico. Non sono secondari il fattore economico e l’accesso a una corretta educazione alimentare: un fast food è più economico di un ristorante e ci vuole meno tempo a comprare un vassoio di cibo preconfezionato che a cucinare, magari tenendo sotto controllo le calorie. Servono solo qualche dollaro e un paio di minuti per acquistare un pasto ipercalorico. Gli effetti collaterali dell’aumento di peso incidono sempre più sui costi sanitari e la diffusione dell’obesità infantile rischia di cronicizzare il fenomeno, rendendo sempre più difficile tornare indietro e arginare le conseguenze di 20 o 30 chili di troppo. Negli Usa quasi il 70% degli adulti e più del 30% dei bambini sono sovrappeso o obesi. Patologie cardiovascolari, diabete, ma anche affaticamento cronico, depressione e vergogna appaiono come metastasi incontrollabili e, a volte, un destino immutabile. Di recente l’American Psychiatric Association ha introdotto 5 nuove categorie diagnostiche tra i disturbi alimentari, tra cui il binge eating: mangiare compulsivamente e velocemente quantità eccessive di cibo. Come invertire la tendenza? Secondo un recente studio condotto da tre ricercatori dello Yale University’s Rudd Center for Food Policy and Obesity, e pubblicato sull’«International Journal of Obesity» pochi giorni fa, il segreto sta nel non nominare l’obesità e nell’evitare minacce e messaggi colpevolizzanti. Lo studio, significativamente intitolato Fighting obesity or obese persons? («Combattere l’obesità o le persone obese? »), analizza la percezione pubblica dei messaggi delle campagne antiobesità. Ci siamo già passati: molte campagne sull’HIV, sul cancro o sulle malattie sessualmente trasmissibili hanno usato l’arma dello stigma. Secondo il Center for Disease Control and Prevention lo stigma impedisce la prevenzione e complica la diagnosi e i trattamenti, incidendo anche sul rapporto con gli operatori sanitari. Insomma tutte le campagne basate sulla colpevolizzazione o la vergogna, tutte quelle che avvertono che essere obeso fa male alla salute e che pesare troppo è una tua responsabilità («è colpa tua»), che non troverai mai lavoro e che passerai una vita da disgraziato, non solo sono inutili, ma rischiano di essere dannose. Hanno maggiore possibilità di successo gli incoraggiamenti che si soffermano sui vantaggi, evitando di calcare sull’eccesso ponderale o sulla tua irresolutezza. Lo stigma verso gli obesi è già alto. Spesso non è nemmeno percepito come tale: secondo un sondaggio dello scorso agosto condotto dalla Harris Interactive/Health Day, il 61% degli americani non considera offensivo rimarcare il peso di qualcuno. Il giudizio è spietato anche verso chi ha perso peso, secondo un recente studio apparso sulla rivista «Obesity». Un rinforzo o un richiamo di questa condanna diffusa peggiora l’autostima e non aiuta le persone a investire sul futuro e sulla propria salute. Non si tratta di confidare semplicisticamente in una ipnosi collettiva, come succede a Jack Black verso la versione oversize di Gwyneth Paltrow nel film Amore a prima svista,ma di scegliere una strategia più efficace e non ridurre le persone al loro peso, giudicato vergognoso e considerato come il risultato di una cattiva volontà. Di campagne intimidatorie e terroriste nella lotta al grasso se ne sono viste molte: per la prima volta la città di New York ha approvato giorni fa il divieto di vendere nei ristoranti e al cinema bibite ipercaloriche di peso superiore alle 16 once (450 grammi). All’inizio di quest’anno il dipartimento per la salute e l’igiene mentale di New York ha lanciato una campagna per invitare a fare attenzione alle porzioni: «Le porzioni sono cresciute», si legge nei manifesti della campagna. Sullo sfondo c’è un ragazzino obeso senza testa oppure una signora che faticosamente sale le scale. In primo piano la riproduzione di tre taglie di una bibita o di un cheeseburger. Da com’erano a come sono oggi, quasi raddoppiate—in effetti la versione small sembra essersi estinta negli Stati Uniti, lasciando il posto a porzioni che sembrano destinate a una intera famiglia. «È cresciuto anche il diabete 2, che può portare all’amputazione. Riduci le tue porzioni, riduci il tuo rischio», è l’avvertimento. Torna inmente la proposta del ministero della Salute italiano di dimezzare le porzioni, che suscitò tante discussioni. Oppure la campagna di Strong4Life, destinata ai bambini della Georgia. Sotto la scritta in stampatello e in rosso warning si aggiunge: «È dura essere una bambina piccola. Soprattutto se non lo sei». Come sfondo una foto di una bambina notevolmente in sovrappeso. Le campagne sull’obesità infantile sono le più criticate e tra i messaggi giudicati come maggiormente stigmatizzanti c’è uno slogan australiano: «L’obesità infantile è un abuso infantile». L’anno scorso un ragazzino obeso dell’Ohio fu tolto temporaneamente alla madre dai servizi sociali. Cadrebbe verosimilmente sotto la scure dei ricercatori di Yale anche la campagna contro l’obesità del ministero italiano della Salute e delle politiche sociali del 2008: «Obesità. Non aspettare, passa all’azione! Mantieni sotto controllo il tuo peso. Guadagnerai salute e benessere», stampato sul viso paffuto di un bambino. Lo studio analizza le intenzioni, perciò non c’è garanzia sulla reale efficacia: in agguato ci sono la debolezza della volontà e la difficoltà di prevedere il proprio e l’altrui comportamento. Varrebbe comunque la pena di tentare una strategia diversa, considerando che quella della stigmatizzazione non funziona. E sarebbe interessante allargare l’analisi ai tanti reality sul genere «famiglie a dieta», «grassi contro magri» o «non aprite quel cassetto». Uno di grande successo si chiama The biggest loser («Il grossissimo perdente») ed è arrivato alla tredicesima stagione: una specie di Giochi senza frontiere per perdere peso, sudando e ansimando. Il rischio è che, invece di perdere peso, si perda solo tempo.
*************************
Dal 1929 alla crisi attuale : Corsi e ricorsi della storia
Non tutti vivono la crisi economica come una sciagura. Per esempio Alberto De Nicola, su «Alfabeta2» di settembre, la legge come un'occasione propizia per farla finita con la nefasta utopia neoliberale. Infatti, scrive, «l’esperienza dell’impoverimento rovescia le due figure principali attraverso cui il neoliberismo ha costruito il suo discorso», identificate da De Nicola nell’«individuo proprietario» e nell’«imprenditore di sé». Tali immagini retoriche impedivano di pensare le relazioni sociali «come rapporti di sfruttamento». Ma ora il velo è caduto e la crisi apre prospettive inedite alle lotte proletarie. De Nicola non sta più nella pelle: «Siamo solo all'inizio— conclude elettrizzato — di una nuova stagione e di una nuova grammatica per i conflitti di classe». Torna in mente il modo in cui l'Internazionale Comunista, con la linea «classe contro classe», reagì alla crisi del 1929, vista come il segnale di una nuova ondata rivoluzionaria: invece la sua principale conseguenza in Europa fu l’avvento del Terzo Reich. Aveva ragione Karl Marx: la storia prima si presenta come tragedia, poi si ripete come farsa.
Di Chiara Lalli, estratti dalla rivista "La Lettura ", inserto "Corriere della Sera" 23 de settembro 2012. Compilati, digitati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
0 Response to "I GRASSI NON HANNO COLPE"
Post a Comment