LA SESSUALITÀ NELL'ANTICA ROMA

Thomas Couture : I Romani della Decadenza
La visione di una Roma libera e sfrenata non corrisponde alla realtà: anche nella sfera più intima non mancavano divieti.

Roma Amor». In latino, come in italiano, le due parole formano un palindromo: due termini che si leggono allo stesso modo da sinistra a destra e da destra a sinistra. È come se la lingua stessa volesse sottolineare fino a che punto la storia di Roma fu contrassegnata dalla passione amorosa: quella che univa un uomo e una donna in matrimonio e quella che si scatenava nell’adulterio, nella prostituzione o nell’omosessualità.

Già nelle origini mitiche della città l’amore ha un ruolo da protagonista. Secondo la leggenda (ripresa dall’Eneide) Venere rimase affascinata da Anchise, un irresistibile pastore che faceva pascolarele sue pecore nei pressi di Troia. Il frutto di questo impeto di passione fu Enea, che fuggì da Troia quando i greci la rasero al suolo e giunse in Italia, dove fondò la città di Lavinio, mentre suo figlio Ascanio fondò quella di Alba Longa.

L’altra lupa

Dalla stirpe di Enea proveniva Rea Silvia, che lo zio, il re di Alba Longa, fece vestale, una carica che obbligava alla castità. In questo modo, il re voleva impedire che, come aveva annunciato un oracolo, i figli di Rea Silvia lo detronizzassero. Il dio Marte, però, non seppe resistere al desiderio quando trovò la giovane da sola, e da questa seconda unione divina nacquero Romolo e Remo. I due gemelli furono abbandonati al loro destino sulle sponde del Tevere per ordine del monarca di Alba Longa, ma una lupa li mise in salvo e li allattò.

Fu così che il racconto mitico diventava qualcosa di più prosaico, giacché l’interpretazione che si diede fu che la lupa era una prostituta (era il secondo significato del termine latino lupa) di nome Acca Larenzia, che prestava i suoi servigi ai pastori del territorio. In questo modo, la prostituzione acquisiva legittimità a Roma prima ancora che Romolo fondasse la città.

Oltre all’amore e alla prostituzione, le leggende della Roma arcaica contemplavano il rapimento. Nelle cerimonie nuziali romane, le nozze nella casa della sposa si concludevano con un finto rapimento nel quale il marito strappava la neosposa dalle braccia della madre. Forse si intendeva evocare il Ratto delle sabine, quando i romani presero con la forza le donne del popolo laziale.

Alla battaglia che i romani ingaggiarono con i padri e i fratelli delle donne rapite e violate seguì un accordo, e le donne sabine furono consegnate ai romani legalmente, in virtù di un’alleanza. In questo modo, la posizione delle donne sabine acquisì un carattere onorevole, come lo era per i romani quello della sposa nel matrimonio.

Fu così che nacque la figura esemplare della donna sposata e rispettabile, la matrona, in contrapposizione alla smisurata brama di conquista del maschio. La prima era definita dalla pudicitia, una miscela di pudore, sottomissione e castità irreprensibile, mentre l’uomo era caratterizzato dalla la virtus, la qualità del vir (l’uomo), definita dal coraggio e dal potere.

L’ideale di matrona romana venne incarnato dalla figura di Lucrezia. Violata dal figlio di Tarquinio il Superbo, invasore etrusco e ultimo re di Roma, non poté sopportare la vergogna di essere stata disonorata, e dopo averlo comunicato al marito e al padre commise suicidio. Dall’indignazione per l’accaduto nacque l’insurrezione che finì per deporre Tarquinio e diede vita alla Repubblica. Era l’anno 509 a.C.

L’esempio di Lucrezia creò un modello di matrona casta, dedita con abnegazione alla filatura e alla tessitura, che governava la vita domestica e faceva il proprio dovere fornendo una discendenza legittima al marito.

Questo ideale si trova riflesso nelle commedie di Plauto, che scriveva a cavallo tra il III e il II secolo a.C. Tramite le sue parole possiamo capire come ci si aspettava che si comportasse una matrona integra e onesta: «Io non considero mia dote quella cui comunemente si dà nome di dote, ma la castità, il pudore, il controllo dei desideri, il timore degli dei, l’amore dei genitori, l’accordo coi congiunti; l’essere condiscendente con mio marito...». Ciò che una donna doveva portare nel matrimonio, dunque, non era tanto la dote economica quanto un modello di virtù.

Amore e matrimonio

Dalla matrona ci si aspettava che generasse una discendenza legittima, senza alcuna ombra di dubbio a proposito di un presunto adulterio. L’amore invece, aveva poco a che vedere con un matrimonio pattuito tra il padre della sposa e il marito. Spesso, quest’ultimo era un cittadino maturo, prossimo alla trentina o che l’aveva superata, che contraeva matrimonio dopo aver ereditato la fortuna di famiglia, mentre la giovane sposa in genere era un’adolescente che da poco aveva raggiunto la pubertà. Logicamente, la differenza di età facilitava la sottomissione della moglie, mentre il marito poteva allacciare liberamente relazioni con schiave o prostitute.

Inoltre, l’antico diritto romano comprendeva anche severe leggi contro l’adulterio che punivano soltanto la donna, come scriveva Catone agli inizi del II secolo a.C.: «Se sorprendi tua moglie in adulterio puoi ucciderla senza essere punito in giudizio; se sei stato tu a commettere adulterio che ella non osi toccarti con un dito, non ne ha diritto». Sebbene non vi siano notizie di condanne a morte, sulla donna pesava la minaccia del ripudio da parte del marito con le temute parole che ci sono state trasmesse da Plauto: «Donna, sei ripudiata, vattene».

È difficile sapere come si sentissero le donne romane davanti a una normativa sessuale che rendeva libero l’uomo mentre incatenava la donna alla castità. La letteratura pare indicare che prevalse la rassegnazione, come dimostra il caso di Emilia Terzia, la moglie di Scipione Africano, che aveva sconfitto Annibale.

Secondo quanto riferisce lo storico Valerio Massimo nei suoi Fatti e detti memorabili, Emilia mostrò «tanta dolcezza e pazienza a riguardo di suo marito, che perfino dissimulò ch’egli amasse una giovane sua serva, affinché il conquistatore dell’Africa non avesse ad essere incolpato di rea passione; e tanto l’animo di lei fu alieno dal vendicarsene, che anzi dopo la morte di Scipione, donò la libertà a questa serva, e la diede in moglie ad un suo liberto ». La concubina, quindi, fu liberata e ricompensata.

Ciononostante, possiamo supporre che in altri casi la convivenza tra le matrone e le concubine o gli efebi dei loro mariti avesse dato origine a conflitti di ogni genere. L’uomo, tuttavia, non godeva di una libertà sessuale assoluta. Plauto riassunse in due versi di una delle sue commedie il codice del lecito e dell’illecito in fatto di sesso per un maschio romano: «Purché tu non tocchi una donna sposata, una vedova, una vergine, i giovani e i bambini liberi, ama chi vuoi».

A prima vista sembra che tutto sia proibito, compresa qualsiasi forma di adulterio e di omosessualità, ma in realtà non è così. La parola chiave nel brano di Plauto è l’aggettivo «liberi»: in sostanza, i cittadini e coloro che sono nati liberi sono intoccabili per un uomo romano.

Nella società schiavista romana gli uomini delle classi privilegiate avevano una vasta scelta per soddisfare tutte le loro pulsioni sessuali. La prostituzione era un modo per fare sesso con donne non libere. Un autore dalla mentalità tradizionalista come Catone il Censore la accettava come un male minore, come un modo per evitare la tentazione verso le donne proibite, quelle libere. In questi stessi termini parlava Orazio: «Né fra i bianchi e verdi gioielli più delicata ha costei [una matrona] la coscia o più dritte le gambe, e spessissimo ancora le ha migliori la meretrice. Aggiungi a questo, che una merce ha senza addobbi; apertamente ti mostra ciò che ha da vendere».

La prostituzione all’ordine del giorno

La prostituzione, come il concubinato con le schiave, divenne un’alternativa per canalizzare le pulsioni sessuali dell’uomo al di fuori del matrimonio. Le prostitute non erano solo schiave, ma anche donne libere con pochi mezzi, che in questa attività trovarono una soluzione ai problemi economici. Anche se al di sopra delle prostitute da strada o da lupanare vi furono ambite cortigiane che si guadagnarono fama e una migliore posizione, nessuna ottenne un reale prestigio sociale.

La distinzione tra liberi e non liberi si riflette anche nella concezione romana dell’immoralità sessuale, lo stuprum. Equivalente ad atti come l’adulterio e la violenza carnale, lo stupro era concepito come un disonore inflitto mediante un atto sessuale a un maschio o a una femmina di condizione libera, compresi i bambini e gli adolescenti. Tutto ciò è legato a un altro aspetto che è fondamentale considerare per comprendere come la sessualità fosse vissuta nell’antica Roma: la distinzione tra il ruolo attivo e quello passivo nelle relazioni sessuali. Il primo era associato alla virilità, alla forza e alla dominazione, mentre il secondo era caratteristico di donne, schiavi e autore dalla mentalità tradizionalista come Catone il Censore la accettava come un male minore, come un modo per evitare la tentazione verso le donne proibite, quelle libere. In questi stessi termini parlava Orazio: «Né fra i bianchi e verdi gioielli più delicata ha costei [una matrona] la coscia o più dritte le gambe, e spessissimo ancora le ha migliori la meretrice. Aggiungi a questo, che una merce ha senza addobbi; apertamente ti mostra ciò che ha da vendere».

La prostituzione all’ordine del giorno

La prostituzione, come il concubinato con le schiave, divenne un’alternativa per canalizzare le pulsioni sessuali dell’uomo al di fuori del matrimonio. Le prostitute non erano solo schiave, ma anche donne libere con pochi mezzi, che in questa attività trovarono una soluzione ai problemi economici. Anche se al di sopra delle prostitute da strada o da lupanare vi furono ambite cortigiane che si guadagnarono fama e una migliore posizione, nessuna ottenne un reale prestigio sociale.

La distinzione tra liberi e non liberi si riflette anche nella concezione romana dell’immoralità sessuale, lo stuprum. Equivalente ad atti come l’adulterio e la violenza carnale, lo stupro era concepito come un disonore inflitto mediante un atto sessuale a un maschio o a una femmina di condizione libera, compresi i bambini e gli adolescenti. Tutto ciò è legato a un altro aspetto che è fondamentale considerare per comprendere come la sessualità fosse vissuta nell’antica Roma: la distinzione tra il ruolo attivo e quello passivo nelle relazioni sessuali. Il primo era associato alla virilità, alla forza e alla dominazione, mentre il secondo era caratteristico di donne, schiavi e dominati. In questo modo, erano considerati delitti di stupro non soltanto la fornicazione (ovvero l’adulterio), ma anche la sodomia e il sesso orale, dal momento che se un uomo libero assumeva un ruolo passivo durante il rapporto sessuale veniva disonorato perché si abbassava a un comportamento proprio di schiavi e liberti.

Ecco come, all’inizio del I secolo d.C., Seneca il Vecchio si esprimeva su questo argomento: «L’impudicitia [la passività sessuale] per un uomo libero è un crimine, una necessità in uno schiavo, un dovere per il liberto».

La morale delle donne

Agli inizi dell’ Impero, quando gli scrittori cominciarono a lamentare sempre più spesso il rilassamento della moralità sessuale delle donne romane, le critiche si concentrarono sull’inversione dei tradizionali ruoli attivo e passivo. In una certa occasione, Seneca ebbe a scrivere che le donne «nella libidine poi non sono da meno dei maschi: destinate per natura a un ruolo passivo, hanno escogitato un genere così perverso di impudicizie da montare gli uomini». Si riferiva all’atto con cui si dava piacere orale a una donna, che agli occhi di Seneca era tanto indegno e inaccettabile per l’uomo quanto la sodomia.

In molte satire, Giovenale parlò dell’adulterio femminile. «La moglie che ti prendi renderà padre il citarista, o il flautista», diceva. «Solo il greco hanno in bocca. E non basta: fanno l’amore in greco», cioè praticano la sodomia per evitare gravidanze. «Vi sono poi donne – prosegue – che illanguidiscono ai baci lascivi di effeminati eunuchi: niente barba che punga, nessun pericolo di aborti. E il piacere è sublime».

Il matrimonio ideale

Se alcuni criticavano il presunto rilassamento morale delle donne, altri continuavano a difendere la figura tradizionale della matrona. All’inizio del II secolo d.C., Plutarco scriveva nei suoi Precetti coniugali: «Questo comportamento, a mio avviso, è proprio della padrona di casa: non deve fuggire né dispiacersi per queste cose se le inizia suo marito, e non deve prendere l’iniziativa; poiché questo è tipico di concubine e svergognate, e quello è arroganza e mancanza d’affetto». E prosegue raccomandando alla sposa: «Se un uomo, licenzioso e dissoluto in fatto di piaceri, commette un errore con una concubina o una giovane serva, la moglie non si deve irritare ma pensare che il marito, che prova rispetto per lei, rende partecipe l’altra della sua ubriachezza, dissolutezza e libertinaggio».

Questo ideale matrimoniale di Roma, tanto lontano dallo stereotipo dell’Impero come un’epoca di lussuria, preparò sotto molti aspetti il modello di condotta coniugale proprio del cristianesimo.

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EROTISMO ISTINTIVO E LIBERO

Lucrezio scrisse: «Chi riceve la ferita dai dardi di Venere, siano essi scagliati dalle femminee membra d’un fanciullo, o di donna che irradi amore da tutto il corpo, si protende verso la creatura da cui è ferito e arde di congiungersi a lei, e di versare in quel corpo l’umore del corpo. Infatti la tacita brama presagisce il piacere». In queste parole, il sesso è presentato come erotismo istintivo in una società in cui non esisteva la linea di demarcazione tra omosessualità e bisessualità, che è un’invenzione che ha poco più di un secolo di storia. In effetti, nell’antica Roma il partner sessuale poteva essere criticabile da un punto di vista sociale o morale non per il suo sesso, ma per altre due ragioni: la sua condizione giuridica (libero, liberto o schiavo) e il ruolo passivo o attivo che assumeva all’interno della relazione.

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TOLLERANZE E TABÙ SESSUALI

La tolleranza sessuale era una norma a Roma; ciononostante, esistevano regole non scritte che stabilivano i tabù che nessun cittadino libero doveva infrangere per nessuna ragione. Sebbene l’adulterio fosse consentito per gli uomini di classe elevata, doveva sempre compiersi con una persona di rango inferiore. Il sesso tra uomini non era particolarmente avversato, però era condizione essenziale che nessun cittadino libero adottasse il ruolo passivo nella relazione, fatto che era considerato una umiliazione; la passività sessuale era ritenuta un crimine per gli uomini, ma era un dovere ineludibile per ogni schiavo.

Il limite più importante da rispettare era quello che concerneva il sesso orale. La profanazione della bocca comportava un discredito personale, poiché si tratta del canale di comunicazione sociale. Per questa ragione, la fellatio era molto mal vista, anche per le donne, e accusare qualcuno di essere un fellator era un insulto gravissimo. Naturalmente, la situazione nella quale un uomo praticava un cunnilingus a una donna era il summum dei tabù: rinunciare all’attitudine dominante in una relazione e allo stesso tempo praticare il sesso orale.

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RELAZIONI TRA UOMINI

La possibilità di relazioni tra uomini fu sempre contemplata, a condizione che nessun uomo libero fosse oggetto di penetrazione. Nel II secolo d.C., lo storico greco Plutarco diceva che «presso gli antichi romani non era mal visto né vergognoso amare i servi di bella presenza, ma dovevano mantenersi scrupolosamente lontani dai giovani uomini liberi». Questo contatto implicava un tipo di rapporto sessuale, il «coito in vaso indebito», che non era contemplato nel matrimonio. Ecco che cosa scriveva nel I secolo d.C. Marziale riferendosi al matrimonio che stava per celebrarsi: la neosposa «permetterà al marito ansioso» di seguire quella via «una sola volta, mentre ancora teme le ferite di un dardo che per lei è nuovo. La nutrice e la madre impediranno che ciò accada nuovamente e diranno: “Questa è tua moglie, non un efebo”».

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IL GABINETTO EROTICO PROIBITO

Durante gli scavi a Pompei ed Ercolano furono portati alla luce numerosi pezzi dallo spiccato carattere sessuale: sculture, pitture, lampade, amuleti, statuine e altro ancora. Questo causò sconcerto tra i primi archeologi, e la ferrea morale dell’epoca spinse a nascondere tali pezzi in una sala speciale del Museo di Napoli che fu chiamata Gabinetto Segreto. Dalla sua chiusura nel 1819, questa sala fu aperta in poche occasioni fino al 2000, quando la riapertura divenne definitiva.

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METODI CONTRACCETTIVI

Il sesso costituiva una parte importante della vita dei cittadini romani, e non soltanto all’interno del matrimonio. Per questo non era strano ricorrere a diversi metodi anticoncezionali per evitare gravidanze nel caso di adulterio o di relazioni con prostitute; a ciò si aggiungeva la paura delle donne riguardo al parto, che era causa di un’elevata mortalità. Era dunque piuttosto diffuso il ricorso a pratiche contraccettive molto diverse, dal coitus interruptus all’uso di tamponi di lana impregnati di sostanze come l’olio rancido d’oliva, il miele, la linfa di balsamo o persino l’allume, applicati sul collo dell’utero per impedire il passaggio del seme.

Le donne, inoltre, per evitare il concepimento assumevano pozioni preparate con diversi elementi sciolti nel vino, come corteccia di salice con miele, solfato di rame o foglie di zucca. Per quanto riguarda gli uomini, il medico, farmacista e botanico greco Dioscoride riferisce dell’utilizzo di prodotti che si potevano assumere sotto forma di bevande o spalmare sul glande, come l’aneto, che aveva l’effetto di debilitare lo sperma; i semi di canapa, che lo eliminavano, o la ninfea gialla, che poteva reprimere i «sogni venerei», ovvero i sogni erotici.


Di Pedro Ángel Fernández, estratti "Storica National Geographic", novembre 2016, n.93, Milano, pp.38-52.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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