LA SCENA ITALIANA NEL MEDIOEVO



Per seguire gli avvenimenti di Napoli e Sicilia, abbiamo fatto un salto di mezzo secolo: quello che va dalla morte del grande Federico e dalla liquidazione dei suoi successori alla rottura del suo vecchio Regno fra Angioini a Napoli e Aragonesi in Sicilia. L’episodio era decisivo, per la storia d’Italia. Segnava l’ultimo tentativo di istaurarvi o restaurarvi un potere imperiale. D’Imperatori ne vedremo ancora scendere nel nostro Paese. Ma saranno tutte figure fatiscenti: i loro conati di restaurazione rimarranno sempre velleitari ed effimeri. E con l’Impero, di cui non rimane che il titolo, è finita la supremazia tedesca in Italia, per cedere momentaneamente il posto a quella francese.

Ecco cos’è avvenuto nel mezzo secolo che segue la morte di Federico. E ora vediamone i riflessi sul resto della Penisola.

Sulla fine del Duecento, l’Italia è irreparabilmente rotta e divisa. Ma nel pulviscolo dei suoi piccoli potentati, alcuni prendono slancio e cominciano a esercitare una certa forza di attrazione sul vicinato.

Nel Piemonte ce ne sono tre che si contendono la supremazia: quello dei Savoia, quello dei Monferrato, e quello dei Saluzzo. Ma la storia delle loro lotte non ha per il momento nessun riflesso su quella nazionale: non tanto per ragioni geografiche, quanto perché si svolge, per così dire, su un altro piano. Questa provincia ha conservato un’impalcatura feudale, che non dice nulla al resto d’Italia, dove essa ha poco attecchito, e quel poco è morto da un pezzo. I Comuni in Piemonte hanno avuto scarsa fioritura, le città sono rimaste rachitiche, e Torino non è che un borgo di montanari. A dominare non sono le borghesie urbane coi loro municipi e magistrature democratiche, ma i signorotti franchi dai loro castelli in cui si respira ancora un profumo di cavalleria. Conti e Marchesi si alleano tra loro, si uniscono in matrimonio, si tradiscono e si combattono per aggiungere una provincia o una fortezza ai loro possessi. Ma tutto ciò resta in un «giro» regionale, perché oltre il Ticino comincia un altro mondo: quello dei liberi Comuni che già da un pezzo hanno sconfitto il castello e sovrapposto una società cittadina e mercantile a quella agraria e militare del Medioevo.

Al centro della ricca piana lombarda, Milano aveva già conquistato una posizione di preminenza con le sue industrie, quando papa Gregorio X, per sottrarla all’influenza angioina, vi nominò Arcivescovo il ghibellino Ottone Visconti. I Visconti erano già una famiglia potentissima, la più potente di Milano insieme con i Della Torre. Quella nomina decise la sorte della rivalità che divideva le due casate, e diede l’avvio a una straordinaria avventura politica e dinastica. Ottone era un grande personaggio cui non resistettero né i Della Torre, ch’egli disinvoltamente imprigionò in gabbie di acciaio, né le istituzioni democratiche, cui i Milanesi erano meno affezionati dei Fiorentini. Essi accettarono il nipote del Cardinale, Matteo, insieme come Vicario dell’imperatore Rodolfo d’Asburgo e delegato del popolo al governo: cioè in parole povere gli conferirono i pieni poteri, avallati dallo zio Ottone, l’Arcivescovo, in nome del Padreterno. Matteo li usò spregiudicatamente non solo per rafforzare il proprio potere su Milano, ma anche quello di Milano sulla Lombardia. Tra la fine del Due e il principio del Trecento si era appena all’inizio di questa impresa espansionistica. Ma essa già si profilava e faceva di Milano una delle capitali d’Italia.

Un’altra era Genova. Lo era diventata alla chetichella, come notava un po’ offeso e scandalizzato un suo cronista, Jacopo da Varazze: «Siamo stupiti che mentre vi sono molte città in Italia, delle quali gli antichi storici parlano spesso, di Genova, tanto ìnclita, potente e nobile, poco o quasi nulla si legga». È vero. Ma la colpa è dei Genovesi che delle loro vicende non hanno lasciato traccia nemmeno nei documenti. Di Genova si sa soltanto che all’origine della sua storia ci fu una famiglia nobile, gli Obertenghi, che poi si divise nei rami degli Spinola, degli Embriaci, dei Castello e dei Vento. Incarnavano gli interessi terrieri del contado, mentre il Vescovo rappresentava quelli cittadini dei marinai, pescatori, artigiani e mercanti. Ma il dialogo fra loro non diventò mai o quasi mai lotta di fazione, com’era capitato a Firenze. Anzi, i due elementi si fusero in una «campagna», cioè in una «compagnia» che fu il fondamento del Comune, e poi addirittura lo assorbì come le Arti avevano assorbito quello fiorentino. Ecco perché quella genovese è sempre stata un’aristocrazia mercantile e imprenditoriale: perché fin d’allora assunse i suoi posti di comando in una società di tipo borghese, dove il metro di misura non era il blasone, ma l’efficienza.

La grande fortuna di Genova fu la geografia: e non solo per lo stupendo golfo che le metteva a disposizione, ma anche perché con la sua cerchia di montagne la teneva al di fuori e al riparo dalle lotte fra Imperatori, Papi e Comuni.

E infatti il nome di Genova non compare mai o quasi mai nelle «Leghe» che si formarono via via per combattere gli uni o gli altri. Rincantucciata in quel suo angolo eccentrico fra le Alpi e il mare e non potendo cercare avventure in un entroterra così imperviamente sbarrato, Genova poteva dedicarsi soltanto alla costruzione di un impero marittimo. E fu ciò che fece.

L’unica rivale che le faceva concorrenza in quel momento era Pisa, il grande porto toscano del Medioevo (Livorno non era ancora nata). Era una vecchia città ghibellina, in cui l’Imperatore si faceva rappresentare da un Visconte. Ma anche qui era nata come a Genova una Compagnia in cui, uniti dai comuni interessi marittimi, si erano fusi nobili, armatori e mercanti, e che praticamente governava lo Stato. L’imperatore Enrico IV per garantirsi la fedeltà di Pisa, che gli faceva comodo nella sua lotta contro la Chiesa come contrappeso alla papalina Firenze, le aveva a sua volta garantito l’autonomia.

Insieme a quelle di Genova e di Amalfi, la flotta pisana aveva impedito lo sbarco degli Arabi siciliani nell’Italia continentale, e per un buon secolo era rimasta padrona quasi incontrastata del Tirreno: Corsica e Sardegna furono praticamente colonie di Pisa che vi teneva i suoi Consoli. Ma a differenza di Genova, Pisa aveva da badare anche a un entroterra, che una meno benevola geografia offriva all’ingordigia delle città rivali, Lucca e Firenze, ansiose di uno sbocco al mare. Fu questo che fece la debolezza di Pisa. Essa non seppe decidersi a una politica soltanto marittima perché doveva guardarsi le spalle. E così la rovina le venne contemporaneamente da una parte e dall’altra.

Nel 1283 Genova mosse guerra a Pisa, o per meglio dire trasformò in «calda» la guerra fredda che da decenni imperversava fra le due flotte. La posta erano la Corsica e la Sardegna, dalle quali Genova si sentiva imbottigliata. Pisa allestì settantadue navi, ne diede il comando all’ammiraglio veneziano Morosini e le mandò a saccheggiare Rapallo e Portofino approfittando dell’assenza della squadra genovese guidata da Oberto Doria. Questa fu richiamata in gran fretta e andò ad appostarsi alla Meloria, poche miglia al largo di Pisa. Morosini, che rientrava alla base, fu ingannato dalla scarsa consistenza dell’avversario che aveva nascosto metà delle sue navi dietro gli scogli dell’arcipelago. Attaccò sconsideratamente e ci rimise ventitré galee e alcune migliaia di uomini.

Per quanto grave, la sconfitta non era irreparabile. Ma proprio in quel momento su Pisa si avventavano Lucca e Firenze. La scusa era ideologica: i guelfi fiorentini e lucchesi dicevano di voler abbattere il governo ghibellino di Pisa. Per disarmarli, Pisa mutò regime affidandosi al conte guelfo Ugolino della Gherardesca. Questi riuscì a parare la minaccia. Ma come tutto ringraziamento, nel 1288, quando Carlo d’Angiò morì e il guelfismo sembrava in ribasso, il ghibellino arcivescovo Ruggero degli Ubaldini fece rinchiudere nella torre Ugolino a morire di fame insieme a due figli e tre nipoti. Erano a quei tempi – intendiamoci – fatti di ordinaria amministrazione. Noi li conosciamo e ne inorridiamo solo perché Dante ce li ha raccontati con tutta la veemenza della sua indignazione.

La guerra con Firenze e Lucca riprese, e si concluse nel 1293 con una pace che lasciava le cose com’erano. Ma la grande Repubblica marinara, che aveva battuto la flotta nemica degli Arabi e poi distrutto quella alleata di Amalfi, era finita. Qualcuno dice che Pisa fu tradita dal mare che, come a Ravenna, si ritirava di continuo lasciandosi dietro uno strascico di sabbie. Ma non è così. Per le navi di quei tempi, l’Arno bastava e i porti tanto più erano favoriti, quanto più erano internati. In realtà fu Pisa che, risucchiata dall’entroterra e dai suoi problemi, tradì il mare. Si chiuse in sé e diventò una città di arte e di studio. La sua gloria non fu più la flotta, ma l’Università.

Alla fine del Duecento le grandi potenze marittime italiane sono dunque due: Genova e Venezia, che anticipano di un paio di secoli le grandi fortune imperiali di Spagna, Inghilterra, Portogallo e Olanda. Se, invece di combattersi fra loro, avessero agito di comune accordo, avrebbero assicurato all’Italia un impero mondiale. Ma ciò presupponeva l’Italia, cioè un sentimento di solidarietà nazionale che allora non c’era.

Anche Venezia doveva in parte la sua fortuna al fatto di trovarsi estromessa per ragioni geografiche dalla zona di un conflitto squisitamente terrestre e continentale com’era quello fra Papato e Impero. Se Genova aveva, a difesa del suo isolamento, il bastione delle montagne, Venezia aveva quello delle lagune. Sicure dentro quell’intrico di sabbie di cui solo i suoi Ammiragli conoscevano i fondali, le flotte veneziane si erano impossessate di tutte le coste dàlmate, Parenzo, Umago, Capodistria, e giù giù fino all’Albania e alla Grecia.

Era da qui in poi ch’esse entravano in conflitto con quelle genovesi, lanciate anch’esse alla conquista dei mercati orientali. Venezia se ne era impadronita con le Crociate, in cui non aveva versato una goccia del suo sangue. Dopo essersi arricchita coi noli per il trasporto delle truppe ed essersi assicurata il più grosso «dividendo» nei saccheggi delle varie città, aveva badato soltanto a impiantare case commerciali, fòndachi e banchi. La sua forza erano una moneta stabile, solidamente ancorata all’oro, il «ducato», in concorrenza di pregiatezza col «fiorino» di Firenze, e il più moderno sistema bancario di quei tempi. E così, mentre la banca fiorentina conquistava l’Europa continentale, quella veneziana si annetteva l’Oriente in compartecipazione con quella genovese.

Le due città sono praticamente padrone di tutto, dall’Adriatico e dal Tirreno al Mar Nero. Galata sul Corno d’Oro e Caffa in Crimea hanno un Podestà e un Abate del Popolo genovesi che regolano i rapporti e gli scambi coi Tartari, i Russi e i Persiani. Veneziane sono gran parte delle isole greche e interi quartieri di Costantinopoli. «Sono» dice di loro il francese Vitry «uomini potenti, ricchi, bene armati, coraggiosi, con splendide navi che sanno benissimo guidare in tutti i tempi.» Nel 1261 partono da Venezia Niccolò e Matteo Polo. Dopo poco li segue Marco che da solo, a piedi, raggiunge il Giappone, compiendo un’impresa non meno grandiosa di quella di Cristoforo Colombo.

La lotta fra queste due grandi Repubbliche rimane un pezzo nella fase della concorrenza ma condita di episodi da guerra «di corsa». Ogni flottiglia veneta che incontrava un cargo genovese lo catturava, e viceversa. C’erano stati anche degli scontri fra squadre minori a Laiazzo e in Mar Nero. Ma proprio sul finire del secolo, nel 1298, ci fu la prima vera grande battaglia. Settantotto galee genovesi al comando di Lamba Doria, penetrate arditamente in Adriatico, ne affrontarono cento veneziane comandate da Andrea Dandolo presso l’isola di Curzola, ne affondarono sessantacinque e lasciarono quindicimila cadaveri a galleggiare sulle acque. Fra di essi c’era anche quello del Dandolo che, preso prigioniero, si avventò a testa bassa contro l’albero maestro e vi si sfracellò. Ma Venezia non era Pisa: invece di abbandonare la lotta, si preparò a restituire la partita.

La storia delle due città seguitò tuttavia a svolgersi fuor della Penisola, che fu ben poco influenzata dalle loro vicende. Genova e Venezia, agl’inizi del Trecento, non hanno una politica italiana. Si combattono dovunque, fuorché nel loro Paese e per il loro Paese.

Un’altra capitale era Firenze, che proprio in questi anni affermava la propria egemonia sulla Toscana. La sua politica interna era fra le più turbolente per la violenza delle fazioni che s’intitolavano ai due grandi partiti che allora dividevano tutta l’Italia: i guelfi e i ghibellini. Ma ad essa se ne mescolava anche una sociale, resa più acuta dallo stesso progresso industriale ed economico. Quella che si era affermata era la grossa borghesia mercantile e bancaria, padrona delle Arti, che a loro volta erano padrone della città.

Questa borghesia aveva dovuto duramente lottare per liberarsi dalla servitù della vecchia aristocrazia terriera e guerriera che dai suoi castelli disseminati nel contado aveva per secoli dominato il Comune. Sin dal principio Firenze fu guelfa perché i nobili che la circondavano e minacciavano e ch’erano stati investiti dei loro feudi e privilegi dagl’Imperatori, erano ghibellini.

I popolani fiorentini, raccolti sotto i loro «gonfaloni», li avevano attaccati uno alla volta e costretti a venire ad abitare in città almeno per parecchi mesi dell’anno. Solo così potevano controllarli e impedirgli di disturbare le vie di comunicazione e intralciare i commerci come sempre avevano fatto. I Signori dovettero accettare queste condizioni. Ma anche a Firenze avevano portato le loro passioni politiche e il loro spirito di violenza. Vi costruirono palazzi che somigliavano a fortezze, facendo a gara a chi innalzava le torri più alte e meglio guarnite, e vi formarono quelle «consorterie» ch’erano in realtà delle vere e proprie «mafie».

Ideologicamente però si divisero. Alcuni, come i conti Guidi, rimasero ghibellini. Molti altri, per poter intervenire efficacemente nella politica di una città guelfa, si fecero guelfi anche loro e cominciarono a mescolarsi, anche per bisogno di denaro, con la grossa borghesia mercantile. I due partiti si combattevano con tutte le armi, approfittando della debolezza di un governo che era un groviglio d’istituti intenti solo a paralizzarsi l’uno con l’altro. I due più alti magistrati, il Podestà e il Capitano del Popolo, dovevano essere per legge stranieri appunto per impedire che una parte, quando vinceva, esercitasse violenze sull’altra. Ma ciò avveniva ugualmente perché lo Stato non aveva il mezzo per impedirlo e rimaneva esso stesso prigioniero del più forte.

Ogni rivolgimento significava lo sterminio o la proscrizione della parte sconfitta. L’ultimo era avvenuto nel 1260, cioè dopo la battaglia di Montaperti che aveva visto il trionfo delle forze ghibelline di Manfredi, capeggiate da Siena, su quelle guelfe capeggiate da Firenze. Il contraccolpo fu immediato anche all’interno. Gli esuli ghibellini tornarono in città, e a prendere la via dell’esilio furono i guelfi. Ma durò poco. La calata in Italia di Carlo d’Angiò, nuovo Re di Napoli, e le battaglie di Benevento e Tagliacozzo dove morirono i due ultimi Hohenstaufen, Manfredi e Corradino, inflissero un colpo definitivo all’idea ghibellina e ai suoi sostenitori fiorentini.

Nonostante questi travagli interni, Firenze aveva seguitato ad affermare la propria preminenza in Toscana. La rivale più potente, Pisa, non si era più ripresa dopo la disfatta della Meloria. La stella di Siena, che aveva brillato dopo la vittoria di Montaperti, era tramontata insieme alle fortune degli Hohenstaufen e dell’Impero. Con abile diplomazia, Firenze aveva legato al suo carro Lucca e Pistoia. Restava Arezzo, roccaforte della vecchia aristocrazia terriera, dov’erano ghibellini tutti, anche il vescovo Degli Ubertini.

La partita decisiva fu giocata nel 1289, a Campaldino. Alla testa delle forze guelfe del Centro-Italia, i Fiorentini vinsero. E da allora in poi poterono abbandonarsi con più impegno di prima alle loro industrie, alle loro banche e alle loro risse.

Ecco: questo è all’ingrosso, molto all’ingrosso, il panorama dell’Italia al debutto del primo dei suoi secoli d’oro. Genova, Milano, Venezia, Firenze e Napoli ne sono i poli. Roma esiste unicamente in funzione della Corte pontificia, e conta solo in quanto vi risiedono i Papi. Quando costoro si trasferiscono ad Avignone, come sta per succedere, l’Urbe scade a città di seconda categoria, e lo rimane sino alla fine del Trecento. È un borgo squallido, infestato dalla malaria, con venti o trentamila abitanti sudici e affamati, le strade disselciate e i monumenti in rovina, dove non fiorisce che un po’ di retorica aizzata dai grandi ricordi della Roma augustea.

Tuttavia questo mosaico di Stati, divisi e in perpetua lotta tra loro, presenta un fenomeno di cui sono tutti dal più al meno partecipi: la crisi degl’istituti comunali. Sui suoi motivi si è sparso inchiostro a fiumi. Ma essi sono in fondo abbastanza semplici.

Il primo e più immediato è che questi istituti, con le loro magistrature elettive, non sono riusciti ad assicurare la condizione fondamentale di una civile convivenza: l’ordine. Se Firenze ne rappresentava il caso-limite, un po’ dovunque la libertà comunale si era confusa con quella delle fazioni e delle loro risse. E il popolo, stanco, era disposto a barattarla con la sicurezza, anche condita di qualche sopruso.

Il secondo motivo è che, per quanto la democrazia avesse sempre più «aperto a sinistra», come oggi si dice, le masse non c’erano mai realmente entrate con poteri dirigenziali, e quindi vi si sentivano estranee. In una città come Firenze, per esempio, i veri «cittadini» di pieno diritto, cioè che contavano qualcosa, erano cinque o diecimila. Gli altri sessanta o settantamila erano «sudditi».

Un terzo motivo era la dilatazione e la crescente complessità dei rapporti economici. Il Comune era nato nel Medioevo, cioè in una fase di arteriosclerosi della vita italiana ed europea. Era un microcosmo di botteghe artigiane a circuito chiuso o quasi: esse rifornivano di manufatti il contado, che a sua volta le riforniva di materie prime e vettovaglie. Ma poi si era sviluppato il capitalismo ed era venuto il «miracolo economico» con le sue conseguenze: aumento della produzione, quindi necessità di importazioni e di esportazioni, cui l’immediato contado non poteva più sopperire. Il vecchio circuito chiuso era scoppiato, la sua impalcatura autarchica cadeva in pezzi, s’imponeva una «pianificazione» più in grande. Dapprima si era cercato di creare delle federazioni fra Comuni, cioè di formare dei piccoli MEC su piede di parità. Ma il tentativo era fallito. Non restava quindi che la gara a chi sviluppava più forza di attrazione sui Comuni circostanti e meglio si qualificava a una parte di «Stato-guida» nei loro confronti. E per raggiungere questo traguardo, il potere concentrato in una mano ferma, anche se prepotente, si mostrava più idoneo di quello che non riuscivano mai a esercitare le effimere e precarie magistrature elettive.

Ma a questi motivi di sostanza, ne va aggiunto un altro di natura ideologica: la crisi del guelfismo. Esso era stato la bandiera dei liberi Comuni nella lotta contro gl’Imperatori che cercavano di ridurli in loro potere, e contro l’aristocrazia feudale che in nome dell’Impero cercava di tenere i municipi tributari dei castelli. Firenze era stata guelfa non per devozione alla Chiesa, ma perché la Chiesa benediceva i suoi «gonfaloni» quando muovevano all’assalto dei manieri in cui si trinceravano i nobili, investiti dall’Imperatore dei loro feudi e privilegi. Dalla morte di Federico e dei suoi due figli, questa lotta era praticamente risolta: l’Impero, ridotto a un puro titolo onorifico, non rappresentava più una minaccia, e la nobiltà ghibellina era scompaginata e dispersa. Tuttavia il guelfismo restava come mito della rivoluzione comunale che si era svolta tutta sotto il suo segno, ne rappresentava il «sacro principio», come la libertà, fraternità e uguaglianza lo sarebbero state della Rivoluzione francese.

Ma questa situazione si era capovolta con l’arrivo in Italia degli Angiò. Costoro, pur senza avere il titolo imperiale, minacciavano di fare ciò che non era riuscito agl’Imperatori di Germania: cioè d’istaurare su tutta la Penisola quel potere centrale laico contro cui, quando si era incarnato in Enrico IV, Barbarossa e Federico, i Comuni avevano lottato in nome appunto del guelfismo, cioè della Chiesa. Ma gli Angiò invece dalla Chiesa erano stati chiamati. Come si poteva in nome di essa combatterli?

Questo dramma scoppiò proprio nell’anno del Giubileo che inaugurava il nuovo secolo, ed ebbe a protagonisti, come vedremo, due personaggi di eccezione: papa Bonifacio VIII e Dante Alighieri. Ma intanto aveva portato il suo contributo alla liquidazione del regime comunale. Ad esso veniva a mancare la bandiera sotto cui si era formato e sviluppato. E le bandiere hanno la loro importanza.

La trasformazione dei Comuni in Signorie era già avviata alla fine del secolo. Fra Piemonte e Lombardia ben venti città si sottomettono spontaneamente al Marchese di Monferrato. I Visconti sono già padroni di Milano e i Della Scala di Verona. Si affermano i Da Camino a Treviso, i Colleoni a Bergamo, gli Este a Ferrara, i Bonacolsi a Mantova e Modena, i Correggio a Parma, i Malatesta a Rimini, gli Ordelaffi a Forlì.

L’età dei liberi Comuni è al crepuscolo. Albeggia quella dei despoti.

Di Indro Monantelli e Roberto Gervaso, estratti "L’Italia del Medioevo", Bur Rizzoli, Italia, parte terza, capitolo quarto. Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

0 Response to "LA SCENA ITALIANA NEL MEDIOEVO"

Post a Comment

Iklan Atas Artikel

Iklan Tengah Artikel 1

Iklan Tengah Artikel 2

Iklan Bawah Artikel