IL MITO DELLA DIETA - ENERGIA E CALORIE


«Per bruciare le calorie e perdere peso, deve mangiare di meno e fare più esercizio». Come molti medici, anch’io lo ripetevo sempre ai miei pazienti. Gli esperti ci dicono che negli ultimi anni il nostro peso è aumentato in maniera vertiginosa perché siamo diventati più sedentari e perché consumiamo più cibo. In altre parole, la gente ingrassa perché assume più calorie di quante gliene servano. Il ragionamento fila, almeno in teoria.

I principi della termodinamica su cui ci siamo fissati – l’energia in entrata deve essere pari all’energia in uscita – ci hanno distolto dalla questione del come e del perché. Nessuno dice che una persona diventa alcolizzata semplicemente perché beve più alcol di quello che riesce a metabolizzare: il nostro interesse si concentra in primo luogo sui motivi per cui certe persone diventano alcolizzate e altre no. Invece ci accontentiamo di dire che le persone obese sono grasse semplicemente perché assumono più calorie di quelle che consumano, senza chiederci il perché.

Le calorie, un dogma fuorviante

Una caloria è una caloria: è il dogma tautologico su cui si fondano la dieta e i consigli nutrizionali classici. A un livello base, l’affermazione è corretta. Una caloria è definita come la quantità di energia sprigionata quando si brucia un’unità standard di cibo essiccato. Ciò significa che, a prescindere dal tipo di cibo da cui proviene la caloria (proteine, grassi o carboidrati), l’energia necessaria per estrarla è uguale all’energia prodotta. Il conteggio delle calorie si basa su questo principio da decenni. È il fondamento delle etichette dei cibi, a cui molte persone ricorrono per compiere le proprie scelte alimentari. Ma se invece fosse che questo approccio da laboratorio ci ha indotto erroneamente a pensare di sapere tutto di diete e nutrizione?

Uno studio realizzato nella vita reale ha portato alla luce alcune di queste false credenze. Per sei anni quarantadue scimmie sono state nutrite in condizioni controllate con due diete diverse, entrambe con lo stesso apporto calorico. Gli ingredienti erano identici, tranne che per il contenuto di grassi: il 17 per cento delle calorie totali proveniva per il primo gruppo da oli vegetali naturali e per il secondo gruppo da grassi trans artificiali, dannosi per la salute. Le diete erano pianificate in modo tale che il peso corporeo si mantenesse costante, ma le scimmie del secondo gruppo sono ingrassate accumulando il triplo di pericoloso grasso viscerale e sviluppando un profilo insulinico molto peggiore (vale a dire che il glucosio nel sangue non veniva smaltito in fretta).1 Ciò suggerisce che le calorie non sono tutte uguali. Le 2000 calorie del fast food hanno conseguenze energetiche molto diverse rispetto alle 2000 calorie ottenute da cereali integrali, frutta e verdura.

Per troppo tempo abbiamo dato per scontata l’accuratezza delle etichette alimentari, ma le formule a cui si affidano sono vecchie di un secolo. Dipendono dalla combustione dei cibi e da calcoli che cercano di spiegare i diversi gradi di digestione e assorbimento, ma le formule non tengono conto di quando l’uomo cominciò a mangiare quel cibo e nemmeno della modalità di preparazione, che può condizionare l’assorbimento e la velocità con cui il glucosio viene rilasciato nel sangue. Inoltre chi ha l’intestino crasso più lungo riesce a estrarre più calorie dal cibo, e alcuni studi rivelano che tra una popolazione e l’altra la differenza può raggiungere i 50 cm.

Le formule si basano su presunte «medie» in un mondo che delle medie se ne infischia. Per cibi come le mandorle la stima delle calorie supera di oltre il 30 per cento il dato reale, e sulle etichette con i valori nutrizionali la legge concede un margine di errore pari al 20 per cento.2 Viceversa per molti prodotti comuni, come i surgelati, la stima delle calorie è inferiore anche del 70 per cento rispetto al dato reale, e per gli alimenti ad alto contenuto di fibre del 30 per cento. Gli slogan salutistici riportati sulle confezioni vengono esaminati con il massimo scrupolo dagli organi di controllo, ma in molti paesi la vigilanza sulle etichette nutrizionali è incredibilmente trascurata.

Come se non bastasse, c’è ancora più confusione sul fabbisogno calorico giornaliero di uomini e donne. Calcoli recenti hanno innalzato la media di riferimento a 2100 calorie per le donne e 2600 per gli uomini. Troppe, a detta di molti: tanto per cominciare, le linee guida non tengono conto di fattori quali l’età, l’altezza, il peso e il tipo di attività svolta.

È evidente che in una dieta il conteggio delle calorie dipende non solo dall’accuratezza del sistema, ma anche dalla capacità individuale di effettuare una stima corretta delle calorie ingerite. Numerosi studi dimostrano che solo una persona su sette si avvicina a una stima esatta delle calorie di cui ha bisogno. Anche l’idea che la fonte di calorie non sia importante può provocare squilibri significativi nella quantità di proteine, carboidrati e grassi che vengono assunti, ed è noto che livelli troppo alti o troppo bassi di questi nutrienti nuocciono gravemente alla salute. Oggi in America i ristoranti e i cinema sono obbligati a dichiarare il conteggio delle calorie sui menu: non è chiaro come questo possa aiutare i clienti, ma forse indurrà i produttori a ridurre l’apporto calorico delle nuove pietanze proposte.3

Il modo in cui il corpo trae energia dal cibo cambia molto a seconda dell’alimento, del tempo impiegato per masticarlo, della sua digeribilità e degli altri cibi con cui lo si accompagna. Uno studio ha dimostrato che mangiare il riso bianco con le bacchette anziché con il cucchiaio riduce in maniera significativa la velocità con cui il glucosio viene assorbito nel sangue innalzando l’insulina (vale a dire l’indice glicemico, IG).4 Numerosi esperti ritengono che la valutazione dell’IG di ciascun alimento sia fondamentale per regolare il peso corporeo, ma finora i pochi studi clinici controllati svolti sull’uomo non hanno rilevato alcuna differenza fra una dieta a basso IG e una ad alto IG per quanto riguarda il peso e i fattori di rischio cardiaco.5 Tuttavia la risposta alle calorie dipende anche dalla costituzione fisica e genetica di ciascuno e, ultimi ma non per importanza, dai microbi intestinali. Nessuno di questi fattori viene tenuto in considerazione quando il cibo è ridotto al contenuto calorico riportato sull’etichetta. Una caloria sarà anche una caloria, ma dentro l’intestino ciascuna ha un effetto diverso.

Il vitello grasso e la dieta da 3600 calorie

Jerome era uno dei ventiquattro studenti volontari che nel 1988 presero parte a uno studio assai particolare condotto nel Québec. Era il lavoro estivo dei sogni: cibo pressoché illimitato e alloggio gratis per tre mesi. E lo avrebbero pure pagato, tutto in nome della scienza. Il ragazzo aveva superato la selezione dimostrando di non avere una storia famigliare di obesità o diabete ed era di peso e altezza normali. Come gli altri volontari, era il tipico studente sano ma un po’ pigro, che non faceva sport in modo regolare. Una volta firmati i moduli del consenso e la dichiarazione di scarico di responsabilità, si ritrovò prigioniero di un dormitorio del campus appositamente preso in affitto e isolato dal mondo esterno, dove per i successivi 120 giorni avrebbe dovuto mangiare, dormire, giocare ai videogiochi, leggere e guardare la TV. La sorveglianza funzionava ventiquattr’ore su ventiquattro e non erano consentiti alcol, sigarette o attività fisica, se si eccettuava una passeggiata all’aperto di mezz’ora al giorno.

Nelle prime due settimane Jerome fu costretto a pesarsi tutti i giorni, a compilare questionari sul cibo e a immergersi in una grande vasca piena d’acqua per il calcolo del grasso corporeo. Come tutti gli altri soggetti dello studio aveva un fisico asciutto: pesava solo 60 kg con un indice di massa corporea pari a 20, un valore normale e sano. Per i pasti lo accompagnavano in un refettorio dove c’era un buffet con una scelta di pietanze. Ogni singolo pezzo di cibo che metteva nel piatto veniva pesato. Dai calcoli sugli alimenti consumati in quelle due settimane, risultò che in media assumeva 2600 calorie al giorno. Dopo la fase preliminare lui e gli altri volontari furono sovralimentati con 1000 calorie in più al giorno per 100 giorni, con l’obbligo tassativo di non imbrogliare e di non passare il cibo agli altri. La dieta prevedeva il 50 per cento di carboidrati, il 35 per cento di grassi e il 15 per cento di proteine. All’inizio e alla fine dello studio Jerome fu misurato e sottoposto a un check-up completo.

Dopo i cento giorni della dieta da 3600 calorie, in pratica senza fare attività fisica, era aumentato di 5,5 kg. Quando i ricercatori confrontarono i risultati, si stupirono per le profonde differenze nell’aumento di peso tra uno studente e l’altro. In termini di chili guadagnati, Jerome era il penultimo in classifica: nello stesso lasso di tempo alcuni erano ingrassati di ben 13 kg. Il solo studente che aveva subito un aumento di peso pressoché identico al suo era Vincent, che era nato nella sua stessa città, aveva frequentato la stessa scuola e possedeva gli stessi geni: Jerome e Vincent erano gemelli omozigoti. Il dottor Claude Bouchard dell’Université Laval, nel Québec, e i suoi colleghi avevano saggiamente selezionato dodici coppie di gemelli omozigoti. Nonostante il profondo divario nell’aumento di peso, ogni soggetto era ingrassato in modo molto simile al proprio gemello.6 Il peso corporeo e la massa grassa erano aumentati per tutti, ma alcuni dettagli cambiavano. Certe coppie avevano trasformato le calorie non solo in grasso, ma anche in muscolatura aggiuntiva. Inoltre i depositi adiposi sembravano concentrarsi negli stessi punti per entrambi i gemelli: sulla pancia o intorno all’intestino e al fegato, il cosiddetto grasso viscerale, più pericoloso.

Questo studio classico, in cui gli studenti furono sovralimentati come topi di laboratorio, oggi solleverebbe numerose questioni etiche (eppure non tuteliamo in alcun modo gli attori che ingrassano per esigenze di copione, come Bradley Cooper, che per American Sniper ha messo su 20 kg ed è stato pagato milioni di dollari). L’esperimento compiuto sui gemelli è la prova inequivocabile che la velocità con cui bruciamo l’energia o immagazziniamo il grasso, aumentando di peso, dipende in gran parte dai geni. I miei studi su migliaia di gemelli del Regno Unito e altri studi effettuati in tutto il mondo dimostrano che i gemelli omozigoti – i quali, come detto, sono cloni genetici – sono molto più simili fra loro per quanto riguarda il peso e il grasso corporeo rispetto ai gemelli eterozigoti, che condividono solo metà dei geni. È un’ulteriore dimostrazione dell’importanza dei fattori genetici, che determinano il 70 per cento circa delle differenze fra gli individui. Inoltre abbiamo scoperto che le somiglianze si estendono ad altre caratteristiche correlate, come la quantità di massa magra e massa grassa e le parti del corpo in cui si formano i depositi adiposi.7 Non sappiamo ancora, però, da dove partano i segnali che dicono alle cellule adipose di espandersi su pancia e fianchi e non, per esempio, sui gomiti.

Le abitudini alimentari individuali (per esempio, c’è chi tende a spiluccare e chi ad abbuffarsi) non si acquisiscono semplicemente vedendo la famiglia o gli amici mangiare in modo corretto o sbagliato: hanno anche una componente genetica. Componente in cui rientra il fatto che alcuni cibi ci piacciano oppure no, per esempio verdure, snack salati, spezie e aglio. Le nostre ricerche sui gemelli hanno dimostrato che anche la frequenza con cui si fa esercizio fisico ha una forte componente genetica.8 Una combinazione di nuovi studi sperimentali e transnazionali sui gemelli ha evidenziato che le persone con i geni dell’obesità possiedono anche altri geni che li spingono a fare meno esercizio delle persone magre di costituzione, sottolineando così le ulteriori difficoltà a cui vanno incontro gli obesi che tentano di perdere peso. I geni e il corpo cospirano contro di loro non appena cercano di bruciare le calorie.

Geni risparmiatori

Per molto tempo i motivi per cui stavamo ingrassando a vista d’occhio furono spiegati con l’ipotesi del «gene risparmiatore», risalente agli anni sessanta.9 L’idea era che negli ultimi trentamila anni (corrispondenti al nostro passato recente, dopo che i nostri antenati avevano lasciato l’Africa) l’uomo fosse sopravvissuto a una serie di gravi eventi, quali piccole glaciazioni o lunghi viaggi obbligati in cerca di cibo, che avevano ridotto drasticamente le popolazioni facendole morire di fame o di malattia. Un esempio era quello degli abitanti delle isole del Pacifico, che navigarono per migliaia di miglia in oceano aperto alla ricerca di cibo e di terre più ospitali. Senza dubbio molti perirono nella traversata. Secondo questa teoria, chi riusciva ad accumulare più riserve e a trattenere il grasso durante il viaggio aveva maggiori probabilità di sopravvivenza (se necessario nutrendosi dei cadaveri dei magri). Il grasso protegge dalla morte per fame, è un fatto ben documentato.10 Perciò, quando le popolazioni decimate arrivarono infine su quelle isole paradisiache, i magri erano stati eliminati e le generazioni successive furono altamente selezionate per i geni capaci di trattenere il grasso.

Il discorso filava, visto che tra le popolazioni più obese del pianeta rientrano gli abitanti di Nauru, Tonga e Samoa, che tuttavia sono ingrassati solo in tempi recenti a causa dei cambiamenti ambientali e di un’inedita abbondanza di cibo che disincentiva l’esercizio fisico. L’alto tasso di mortalità degli schiavi africani sulle navi negriere che facevano rotta per gli Stati Uniti è un altro esempio citato spesso per spiegare il maggiore rischio di obesità degli afroamericani di oggi. Le differenze nel tasso di obesità tra i vari paesi, dunque, sarebbero determinate dalla fase di sviluppo che ciascun paese ha raggiunto fra i due estremi della penuria e dell’abbondanza di cibo. Di fatto la teoria suggerisce che l’intera popolazione mondiale discenda da poche famiglie, sopravvissute alle carestie e ai cambiamenti climatici. Molti di noi avrebbero quindi ereditato variazioni genetiche che in un dato momento del passato erano un grande vantaggio, ma ora non più.

Tuttavia questa teoria presenta alcuni grossi difetti. In primo luogo presuppone che per la maggior parte della loro esistenza i nostri antenati avessero a disposizione una quantità di cibo a malapena sufficiente per sopravvivere, e che in caso di un surplus guadagnassero peso in fretta. Ma l’idea che il cibo scarseggiasse sempre e che le eccedenze fossero un evento raro è probabilmente inesatta. Gli studi sui cacciatori-raccoglitori di oggi e del passato suggeriscono che in genere i nostri antenati assumevano calorie in abbondanza. La cosa ha un senso, visto che gli uomini vivevano in gruppi nomadi composti da un minimo di cinquanta fino a un massimo di duecento persone, molto eterogenei per dimensioni, età ed esigenze nutrizionali. Se c’era abbastanza cibo per nutrire i gruppi più grandi, con un fabbisogno calorico maggiore, è evidente che gli altri dovevano averne d’avanzo.

In secondo luogo la teoria del gene risparmiatore presuppone che l’evoluzione abbia selezionato i geni soprattutto per evitare all’uomo la morte per inedia. Ma è più probabile che a guidare l’evoluzione siano stati i decessi in tenera età per infezione o diarrea, come avviene oggi nei paesi in via di sviluppo, non la fame. L’aumento del grasso corporeo, tanto nei bambini quanto negli adulti, non risparmia dalle infezioni.

Secondo un altro mito, i nostri antenati non facevano che correre tutto il giorno in cerca di cibo, come tanti maratoneti esaltati. Certo, è possibile che alcuni fossero ottimi corridori, ma dagli studi già citati si evince che i cacciatori-raccoglitori riposavano o dormivano per gran parte della giornata, e nel complesso non consumavano molte più calorie di noi. Altri studi dimostrano che gli animali selvatici tenuti in cattività e riforniti di cibo abbondante non diventano obesi tutto d’un tratto. Infine, ogni gruppo umano studiato presenta eccezioni alla regola, ovvero soggetti magri. Anche nei luoghi dove oggi è «normale» essere obesi e diabetici (come nelle isole del Pacifico e nei paesi del Golfo) almeno una persona su tre riesce a mantenere un fisico asciutto, nonostante sia circondata da cibo calorico, abbondante e poco costoso e da connazionali pigri. Gli individui magri, sempre più rari, potrebbero diventare il gruppo migliore da studiare.

Geni alla deriva

Le falle nella teoria del «gene risparmiatore» hanno indotto il biologo britannico John Speakman a proporre un modello alternativo e meno conosciuto per l’obesità: l’ipotesi del «gene alla deriva».11 Secondo la sua idea, fino a due milioni di anni fa i nostri geni e i meccanismi per trattenere il grasso corporeo erano sottoposti a un rigido controllo, e un soggetto troppo in carne avrebbe avuto parecchi problemi di sopravvivenza. L’analisi degli scheletri di Australopithecus, il nostro antenato preistorico, rivela che molti individui morivano divorati dai predatori. Alcune specie, come il Dinofelis, una varietà di tigre dai denti a sciabola che pesava la bellezza di 120 kg, si erano persino specializzate nel dare la caccia agli ominidi. Un individuo grasso non solo non riusciva a correre veloce, e dunque era una preda più facile, ma aveva anche un sapore migliore di un maratoneta tutto nervi.

Due ottime ragioni perché nel nostro lontano passato la selezione naturale agisse contro i geni dell’obesità ponendo un limite al grasso corporeo.

Tuttavia anche la magrezza eccessiva rappresentava uno svantaggio. Di solito il cibo era abbondante, ma tutti dovevano avere una riserva di grasso per far fronte alle emergenze in un’epoca in cui frigoriferi e congelatori non erano stati ancora inventati. Così, tra i due estremi della grassezza e della magrezza, i nostri geni misero a punto dei meccanismi per riportarci sempre al centro. Evolvendoci in Homo sapiens, con un cervello più sviluppato e una maggiore abilità nella caccia e nell’uso delle armi, il timore dei predatori cessò, mentre rimase la minaccia sporadica delle carestie e dei cambiamenti climatici. Per questo il grasso corporeo continuò a sottostare a un rigido controllo genetico, soprattutto per quanto riguardava gli indispensabili depositi adiposi. Molte donne, in particolare, sanno per esperienza personale quanto sia difficile eliminare gli ultimi rotolini di ciccia dai fianchi o dalle cosce, nonostante mesi di dieta e palestra.

A poco a poco, però, con l’estinzione dei nostri predatori naturali, la necessità di scappare in fretta venne meno. Di conseguenza nell’ultimo milione di anni il controllo genetico sulla soglia massima di grasso corporeo si è allentato. Alcune persone, per puro caso, hanno conservato quei geni; in altre l’effetto genetico si è indebolito e la soglia si è alzata. Ciò significa che alcuni di noi continueranno ad accumulare grasso fino a questa soglia variabile e sempre più alta, mentre altri – un terzo circa della popolazione – resteranno magri anche se circondati dal cibo.12 A chiudere il cerchio, bisogna aggiungere che i geni della magrezza si accompagnano ai geni che stimolano a fare più attività fisica.13

Un’altra idea sbagliata ma assai diffusa è che negli ultimi decenni le persone magre siano diventate grasse. Gli studi sull’andamento dell’obesità hanno confermato che negli ultimi trent’anni dell’epidemia mondiale di obesità quasi tutte le persone magre sono rimaste tali; sono le persone leggermente sovrappeso a essere diventate obese, mentre chi era già obeso lo è diventato ancora di più. Di fatto sembra che una soglia massima esista ancora, sebbene più alta: una volta raggiunto un certo peso, a prescindere dalla quantità di cibo extra consumato, non si ingrassa più.

I rilevamenti effettuati in venticinque paesi fra il 1999 e il 2009 mostrano che finalmente alcuni paesi occidentali (non tutti) hanno cominciato a contrastare l’innalzamento della soglia massima: a quanto pare la curva dell’obesità si sta appiattendo, in particolare nei bambini e negli adolescenti.14 Negli Stati Uniti, da dove è partita l’epidemia, il tasso di obesità degli adulti si è fermato per la prima volta (pur senza scendere).15 Tuttavia, per ovvie ragioni, i dati non vengono pubblicizzati troppo: il fatto che la popolazione clinicamente obesa rimanga ferma a un terzo del totale non è un grande successo. Paradossalmente, è possibile che gli americani godano di una relativa protezione genetica rispetto alle popolazioni asiatiche. A giudicare dalla velocità con cui si stanno mettendo in pari, e dalla loro tendenza ad accumulare grasso negli organi interni, è possibile che gli asiatici abbiano una soglia massima ancora più alta, e potrebbero continuare ad accumulare grasso per molto tempo.

Buon sapore e supergustatori

La capacità di percepire i sapori è stata definita il nostro guardiano nutrizionale. Le persone che perdono del tutto il senso del gusto non ingrassano. Ognuno di noi ha fino a diecimila papille gustative sulla lingua, per cogliere cinque sapori principali: dolce, amaro, aspro, salato e umami (il gusto legato al glutammato monosodico, MSG). È possibile che esista anche un sesto gusto, il kokumi, che conferisce pienezza al cibo. Contrariamente a quanto si pensava, le papille gustative non sono suddivise in zone e ciascun sapore viene percepito su tutta la superficie della lingua. Le papille si rigenerano ogni dieci giorni e sono controllate da geni che ne influenzano la relativa sensibilità. Le differenze genetiche determinano la nostra maggiore o minore sensibilità a certi cibi e la nostra preferenza per il dolce o per l’amaro.

È possibile che i geni del gusto si siano evoluti affinché l’uomo, spostandosi e imbattendosi di continuo in piante sconosciute, potesse distinguere con più facilità quelle commestibili e ricche di nutrienti da quelle tossiche. Forse le notevoli differenze di sensibilità tra un individuo e l’altro comparvero per evitare che intere tribù venissero annientate da un singolo frutto velenoso. Nel 1931 un chimico della Dupont scoprì per caso che il 30 per cento delle persone non era in grado di cogliere il sapore di una sostanza chiamata PROP, mentre il 50 per cento la trovava amara e il 20 per cento molto sgradevole: la prova che le nostre esperienze gustative sono uniche.

Probabilmente i geni del gusto sono centinaia, e ogni anno ne vengono scoperte nuove varianti. Quelli conosciuti appartengono per lo più a due famiglie genetiche (chiamate TAS1R e TAS2R). Esistono almeno tre varianti genetiche per identificare il dolce (la frutta), più di cinque per l’umami (indicatore di proteine) e almeno quaranta per l’amaro (le tossine). Le varianti genetiche possedute da ciascuno di noi influiscono non solo sulle nostre preferenze alimentari, ma anche sulla quantità di grassi, verdure e zuccheri che assumiamo. I recettori dell’amaro e del dolce si trovano anche nel naso e in gola e, per quanto inverosimile, contribuiscono a segnalare al sistema immunitario l’insorgere di un’infezione microbica. Gli stessi recettori funzionano male in presenza di infezioni continue e anomale, come la sinusite, che sovraccaricano il sistema.16

Nell’ambito dei sapori amari, una piccola percentuale della popolazione è costituita dai cosiddetti supergustatori, che hanno varianti insolite di uno dei geni TAS2R e reagiscono con immediato disgusto alla sostanza chimica detta PROP, anche in una soluzione molto diluita. Questi individui sono assai sensibili ai sapori forti e tendono a selezionare il cibo con particolare attenzione. I geni del gusto permettono loro di cogliere differenze minime in numerose verdure, come le brassicacee, di cui fanno parte i cavoli e i broccoli, ma anche in altri vegetali come tè verde, aglio, peperoncini e soia. Di conseguenza tendono a evitare alcuni di questi alimenti, spesso non amano bere birra e altri alcolici e trovano troppo amare le sigarette. Pur perdendosi certe prelibatezze, grazie al loro palato raffinato di solito sono più sani e hanno meno probabilità di ingrassare.17

Poiché il contenuto calorico dei cibi è variabile, e poiché gli onnivori hanno solo l’imbarazzo della scelta, la quantità di energia assunta e il peso corporeo dipendono in gran parte dalle preferenze alimentari. Nel 2007 abbiamo condotto uno studio sui gemelli inglesi e finlandesi per indagare i motivi per cui alcune persone preferiscono i cibi zuccherati agli altri. Abbiamo scoperto che quasi il 50 per cento delle differenze tra chi è goloso di dolci e chi non lo è dipende dai geni, e il resto dalla cultura e dall’ambiente.18

Le varianti genetiche che determinano una maggiore sensibilità al dolce (TAS1R) sono molto più comuni negli europei che negli africani e negli asiatici. Ciò suggerisce che nel corso dell’evoluzione, man mano che si allontanavano dall’ambiente sicuro dell’equatore, gli europei selezionarono quei geni per individuare con più facilità nuove fonti di cibo. La capacità di intuire dal sapore se una nuova radice fosse commestibile e nutriente favoriva la sopravvivenza nel momento in cui si verificavano inconvenienti come una glaciazione. Purtroppo gli stessi geni non ci sono di aiuto nelle corsie di un moderno supermercato: molti studi suggeriscono che l’aumento del grasso corporeo è legato solo in minima parte ai geni del dolce.19 Una volta si pensava che la predilezione per i dolci e quella per i cibi salati si escludessero a vicenda. Almeno per quanto riguarda i bambini questa idea è stata smentita da uno studio recente che ha dimostrato che le due cose vanno di pari passo. Inoltre, dato che nei bambini entrambe le preferenze sono più accentuate che negli adulti, i più piccoli corrono maggiormente il rischio di essere esposti fin dalla tenera età alla dieta moderna fatta di alimenti industriali.20

Esercizio e forza di volontà

Davvero oggi facciamo meno attività fisica? Abbiamo detto che le calorie sono semplici unità di energia prodotte dalla combustione dei cibi, e le calorie assunte ma non bruciate vengono accantonate sotto forma di grasso. Ma che ruolo ha l’esercizio in tutto ciò? Se state cercando di rimettervi in forma, l’attività fisica funziona: non servono complicati studi clinici per dimostrarlo. Anche gli esperti e i nutrizionisti sostengono che fare moto in maniera regolare rafforzi il cuore e i muscoli e allunghi la vita. Non c’è ancora accordo su quanto esercizio sia effettivamente necessario, ma pressappoco si va da novanta minuti a sei ore la settimana di attività moderata, abbastanza per farsi una bella sudata. Altri invece suggeriscono che pochi minuti al giorno di corsa o di bicicletta a tutta velocità siano sufficienti per produrre uno shock breve ma intenso, che induce il corpo a credere di essere tenuto in esercizio.21 I benefici delle camminate a passo tranquillo sono meno evidenti, ma probabilmente sono meglio di niente.

Tuttavia fare esercizio non è una mera questione di volontà. Alcuni anni fa abbiamo condotto una ricerca su un largo campione di gemelli europei e australiani per osservare le abitudini di quasi 40000 gemelli adulti per quanto riguardava l’attività fisica. A partire dai ventun anni, quando l’influenza dei genitori e della famiglia si attenua, la consuetudine di praticare sport più volte a settimana, in tutti i paesi, era ereditaria nel 70 per cento dei casi circa, cioè dipendeva in gran parte dai geni.22 Ciò dimostra che fare esercizio è molto più facile per certe persone che per altre; alcuni lo trovano fisicamente e mentalmente piacevole, altri non sopportano nemmeno lo sport in TV. È chiaro che le persone possono cambiare, e così il loro corpo, ma la situazione di partenza è molto variabile.

Come per i pasti e le diete, le sigarette e l’alcol, quando si tratta dell’esercizio fisico la memoria non è affidabile, e tendiamo a esagerare. Per aggirare il problema è possibile usare i monitor di attività, nuovi strumenti che mettono in correlazione la frequenza cardiaca con i movimenti registrati da appositi sensori. Il calcolo dell’attività fisica quotidiana è molto accurato e rivela che spesso le nostre stime sono in eccesso. Inoltre questi strumenti mostrano le enormi differenze esistenti tra un individuo e l’altro: certe persone non stanno mai ferme anche quando sono a riposo, consumando energia. Alcuni studi suggeriscono che la tendenza a muoversi e giocherellare di continuo sia un’ottima difesa contro l’obesità. Nei topi sono stati individuati alcuni geni responsabili dell’irrequietezza, attivi anche nel cervello umano, per cui una persona particolarmente agitata consuma fino a 300 calorie in più al giorno rispetto a una persona tranquilla.

Il nostro esperimento prevedeva che i gemelli indossassero per una settimana un cardiofrequenzimetro, una sorta di orologio ipertecnologico che misura le pulsazioni e l’attività fisica svolta. I risultati hanno confermato ciò che sapevamo già: la pratica sportiva dichiarata ha una componente genetica certa pari al 70 per cento. Tuttavia, con nostra sorpresa, la componente genetica del dispendio effettivo di energia era inferiore al 50 per cento nella maggior parte dei rilevamenti, e intorno al 30 per cento per l’atto di «starsene con le mani in mano». Ciò significa che, per il dispendio reale di energia, l’ambiente è un po’ più importante dei geni.23

Anziché sull’esercizio fisico, alcuni studi si concentrano sulla sedentarietà come fattore di rischio. A prescindere da quanto movimento si faccia (o si dichiari di fare), le ore passate davanti alla TV o al volante aumentano comunque il rischio di malattie cardiache e di mortalità. Ampi studi osservazionali condotti nel Regno Unito e negli Stati Uniti dimostrano che guardare la TV due ore al giorno aumenta il rischio di malattie cardiache e diabete del 20 per cento, anche dopo aver considerato altri fattori.

Mio padre non guardava molta TV, ma per tutta la vita aveva evitato di fare esercizio. Era cresciuto in un’epoca in cui molti pensavano che l’attività fisica facesse male. Era magrissimo di costituzione e quando era ragazzo mia nonna si dannava per fargli mettere su qualche chilo. «Una volta ero uno stecchino di cinquantasette chili, adesso che sono uno stecchino di mezza età peso venti chili in più!» ci diceva sempre quando eravamo piccoli, per scherzare. Odiava la giornata dello sport organizzata dalla scuola, quando gli studenti gareggiavano in coppia con un genitore, e trovava sempre una scusa per non partecipare. Non poteva correre perché aveva i piedi piatti, non pattinava, non sciava e non andava in bicicletta perché gli mancava il senso dell’equilibrio, e non nuotava perché aveva le ossa pesanti. Sosteneva di essere il discendente di una lunga genealogia di ebrei non atletici.

Tendiamo a dimenticare che la mania del fitness e dello sport ha origini molto recenti. Negli anni ottanta quelli che facevano jogging (con una strana tenuta simile a un pigiama) erano considerati tipi strambi e fatti oggetto di scherno. La prima maratona di New York, nel 1970, vide 137 partecipanti. Quella di Londra ebbe un inizio modesto, nel 1981; a oggi sono oltre 850000 i corridori che hanno tagliato il traguardo. Nei primi anni del ventunesimo secolo gli adulti che praticano uno sport o vanno in palestra sono tanti e in continuo aumento. Nel 2014 il 13 per cento degli inglesi adulti erano iscritti a una palestra o a un circolo sportivo e molti altri si allenavano all’aperto, nei parchi, o erano membri di una squadra. E più di un terzo della popolazione britannica con più di cinquant’anni fa giardinaggio con frequenza regolare.

Nel Regno Unito il settore delle palestre vale quasi tre miliardi di sterline l’anno, e negli Stati Uniti gli iscritti a una palestra sono più di cinquantuno milioni, con un giro d’affari che è aumentato di quasi venti volte rispetto agli anni settanta; in molti altri paesi il quadro è simile. Ma se facciamo tutto questo esercizio, non dovremmo diventare più magri, anziché ingrassare? A meno che non andiamo in palestra solo per guardare la TV e starcene seduti nella vasca idromassaggio a bere frullati: un metodo eccellente per ingrassare senza sensi di colpa.

Sarà vero, come si sente dire spesso, che nonostante tutto il movimento che facciamo per svago in realtà siamo molto più sedentari di quanto non fossimo trenta o quarant’anni fa? Grazie alla tecnologia il lavoro è diventato meno pesante, ma nel tempo libero siamo più attivi che in passato. E poi, se una volta la fatica del lavoro preveniva l’obesità, perché i lavoratori manuali sono più obesi degli impiegati d’ufficio, anche se bruciano più calorie? Parte del problema deriva dal fatto che è difficile raccogliere dati accurati sul dispendio di calorie nel corso dei decenni per poi confrontarli, dunque abbiamo pochi elementi su cui basarci.

Uno studio a lungo termine sulle casalinghe del Minnesota ha rivelato che per molte di loro la vita si è semplificata. L’energia quotidiana spesa per le faccende domestiche ha subito una brusca diminuzione, a favore di attività sedentarie come guardare la TV. Rispetto al 1965, oggi i soggetti dello studio consumano 200 calorie in meno al giorno.24 Tuttavia dati statistici più dettagliati e rappresentativi raccolti nei Paesi Bassi tra il 1981 e il 2004 mostrano che con gli anni non solo il grasso corporeo è cresciuto in maniera significativa, ma anche l’esercizio fisico praticato nel tempo libero è leggermente aumentato, a dispetto di quel che si potrebbe pensare.25 L’esame di vari studi condotti negli Stati Uniti e in Europa a partire dagli anni ottanta ha evidenziato che, malgrado la percezione comune, il dispendio quotidiano di energia (anche sul luogo di lavoro) non è cambiato e l’attività fisica non è diminuita.26

L’esercizio e l’attività fisica in generale vengono sempre associati alla forza di ossa e muscoli, che a loro volta sono legati al tasso di fratture osteoporotiche, in particolare quelle dell’anca, che colpiscono una donna su tre. Negli anni ottanta esaminai insieme a due colleghi come era cambiato il tasso di fratture dell’anca negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso di quarant’anni, un periodo per il quale avevamo a disposizione dati accurati. Tenendo conto dell’età e dei cambiamenti demografici, notammo che negli Stati Uniti il tasso aumentava in maniera esponenziale fino alla metà degli anni sessanta, per poi diminuire gradualmente. Anche nel Regno Unito il tasso cresceva dopo il 1950 per stabilizzarsi negli anni ottanta; e secondo i miei colleghi, che svolsero ulteriori analisi, da allora le percentuali non sono aumentate.27 All’epoca i risultati ci sorpresero, ma oggi è chiaro che sono in linea con il nostro livello generale di attività fisica, il quale, contrariamente alle idee invalse, non è cambiato molto dagli anni settanta per gli Stati Uniti o dagli anni ottanta per il Regno Unito.

Davvero fare esercizio aiuta a perdere peso?

Dietologi e istruttori di fitness si affidano a una regola standard: bruciare 3500 calorie extra con l’esercizio fisico significa bruciare mezzo chilo di grasso. «Muoviti e la ciccia se ne andrà» è uno slogan che di certo aiuta a motivare i patiti della palestra. Purtroppo, però, l’energia che la gente normale brucia in palestra una volta alla settimana corrisponde solo alla grossa ciambella con cui si premia una volta uscita da lì.

Per compensare le molte ore passate a scrivere questo libro, seduto immobile a danno della mia salute, nello stesso periodo ho cercato di allenarmi per una gara di triathlon. Avrei bruciato un bel po’ di calorie, pensavo. In congedo sabbatico a Barcellona, mi sono preso il lusso di nuotare in mare per un chilometro e mezzo al giorno e di fare sessanta-cento chilometri in bicicletta sulle colline circostanti nei fine settimana. Tutti i giorni facevo una passeggiata di mezz’ora e di tanto in tanto andavo a correre (tra un infortunio e l’altro). Con l’aiuto del mio orologio GPS ho stimato che in media bruciavo 3500 calorie in più alla settimana, e non mi sembrava di mangiare più del solito. Eppure in dieci settimane sono dimagrito solo di 1 kg, decisamente meno dei favolosi 5 kg che avrei dovuto perdere se la leggendaria formula che lega grasso e calorie fosse stata corretta; ed è chiaro che non è così.28

Anche se la mia esperienza è aneddotica e inattendibile, non si tratta di un caso isolato. Per molti anni uno studio aveva monitorato 12000 appassionati di corsa abbonati alla rivista americana «Runner’s World». Ogni anno i chilometri di corsa settimanale venivano messi in rapporto con il peso degli atleti. Era emersa una correlazione fra la distanza percorsa e la magrezza, ma di anno in anno quasi tutti i soggetti diventavano più grassi, a prescindere da quanto correvano. Secondo i responsabili dello studio, aggiungendo ogni anno 4-6 km in più alla settimana, con un po’ di fortuna i corridori sarebbero riusciti a mantenere lo stesso peso, ma alla fine avrebbero dovuto correre almeno cento chilometri alla settimana.29

Il motivo per cui milioni di noi non perdono peso pur facendo esercizio è che il nostro organismo corre ai ripari. Il corpo è programmato per impedirci di perdere le riserve di grasso, infatti per liberarci del grasso serve cinque volte l’energia necessaria per perdere i muscoli.30 Può darsi che parte del grasso si trasformi in muscoli, ma sulla bilancia non si vede. Da bambini ci dicevano di andare fuori a giocare finché non ci veniva fame, ma la fame veniva anche per un altro motivo; lo stesso motivo per cui il giorno dopo avevamo ancora più fame e il corpo e il metabolismo rallentavano in maniera impercettibile. In uno studio approfondito sull’esercizio fisico, alcuni volontari che conducevano una vita sedentaria si sono sottoposti a un allenamento intensivo per sei mesi. Alla fine non hanno perso i 4,5 kg previsti ma solo 1,5 kg. La fame e il consumo di cibo aumentavano, ma solo di 100 calorie al giorno, non abbastanza per spiegare il mancato dimagrimento.31 Molti altri studi rivelano che il dispendio di energia rimane basso quando si è a riposo e scende anche del 30 per cento se si aumenta la quantità di esercizio. La riduzione si deve soprattutto a un rallentamento del metabolismo basale e dei movimenti inconsci come il giocherellare di continuo, che di solito permette di bruciare altre calorie.

L’attività fisica da sola non porta a un calo di peso significativo. Ma se una persona riesce a dimagrire in qualche mese grazie a una dieta, l’esercizio può aiutarla a restare in linea? La risposta è no. In una recente meta-analisi di sette studi che indagavano l’esercizio da solo o l’esercizio combinato con la dieta contrapposto alla dieta da sola, clamorosamente l’esercizio non ha avuto alcun effetto sui gruppi di controllo. Quasi tutti i soggetti hanno ripreso peso, e senza restrizioni alimentari fare movimento serviva a ben poco.32, 33

Grasso è bello?

Ma allora vale la pena di fare attività fisica, se non aiuta a perdere peso? Oggi ci si chiede se sia meglio essere magri e sedentari o grassi e sportivi. Tutti gli studi sembrano concordare: essere grassi ma sportivi è senz’altro meglio, tanto per le malattie cardiache quanto per la mortalità in generale. I comportamenti legati a uno stile di vita scorretto – il fumo e una dieta povera di frutta e verdura – sono più pericolosi per il cuore del grasso in eccesso. Secondo uno studio che ha monitorato più di 300000 europei, chi non fa alcun tipo di attività fisica corre un rischio di morte precoce doppio rispetto a chi è obeso. Nel caso di una persona completamente sedentaria (ovvero più di un europeo su cinque) basterebbero venti minuti alla settimana di camminata veloce per ridurre di un quarto il rischio di morte prematura.34 Anche se si è sovrappeso, dunque, è molto importante raggiungere il giusto equilibrio per la propria salute. L’eccezione alla regola è il rischio di diabete, notevolmente ridotto nei soggetti più magri, anche se non sono sportivi e non fanno esercizio.35, 36

Mio padre non era grasso e non fumava, ma non era per niente sportivo e a cinquantasette anni è morto di infarto. Ecco una lezione da imparare, per quanto alcuni di noi trovino assai difficile avere la meglio sui propri geni avversi all’attività fisica. In generale, per la maggior parte delle persone l’esercizio è un ottimo modo di investire il proprio tempo: 270 ore di esercizio all’anno allungano la vita di tre anni e ritardano il sopraggiungere di molte malattie.

I nostri microbi sono nati per correre

Di certo i nostri microbi contribuiscono a far sì che l’attività fisica riduca il rischio di malattie e di morte precoce, ma il meccanismo è ancora poco chiaro. L’esercizio stimola in modo benefico il sistema immunitario, il quale a sua volta invia segnali chimici ai microbi intestinali.37 Ma potrebbe anche funzionare al contrario, in quanto l’esercizio fisico è in grado di incidere direttamente sulla composizione del microbiota intestinale.

In un esperimento sui topi, gli animali sono stati divisi in due gabbie, una con una ruota per correre e una senza. In genere i topi sani amano correre. Grazie alla ruota i topi del primo gruppo correvano in media 3,5 km al giorno e, rispetto ai topi sedentari, producevano il doppio di butirrato, un acido grasso a catena corta che fa bene all’intestino.

Il butirrato è una sostanza prodotta dai nostri microbi intestinali con molti effetti benefici sul sistema immunitario, e l’esercizio stimola i microbi a produrne di più.38 Chi ha i microbi intestinali giusti può correre più veloce o nuotare più a lungo, forse per via delle loro proprietà antiossidanti. Gli antiossidanti sono preziose sostanze chimiche che impediscono alle cellule di rilasciare i radicali liberi, i quali provocano una serie di reazioni a catena che accorciano la vita cellulare. Oltre a essere prodotti dai microbi, gli antiossidanti sono contenuti in molti alimenti. Magari alterare i propri microbi diventerà l’ultima tendenza del doping alle Olimpiadi, anche se finora gli unici beccati a imbrogliare sono stati alcuni topi nuotatori.39

Nell’American Gut Project e nel nostro studio sui gemelli, entrambi studi osservazionali trasversali, si è scoperto che per più di tremila persone il fattore che influiva di più sulla ricchezza del microbiota intestinale era la quantità di esercizio dichiarata. Tuttavia negli studi di questo tipo è difficile separare un elemento del genere da altri fattori associati, per esempio una dieta sana. Finora i dati migliori per quanto riguarda l’uomo provengono da uno studio unico che ha evidenziato il crescente interesse per il microbioma nel mondo della nutrizione sportiva. Oggi molti atleti di alto livello si fanno esaminare per ottenere il proprio profilo microbico, chiedendo poi al nutrizionista di modificare la loro dieta di conseguenza.

Lo studio in questione ha raccolto campioni di feci dei giocatori della nazionale irlandese di rugby nel periodo di allenamento intensivo che precede l’inizio del campionato.40 Si trattava di quaranta omaccioni con un peso medio di 101 kg e un indice di massa corporea pari a 29; ne conseguiva, per inciso, che il 40 per cento circa era tecnicamente obeso e il resto sovrappeso (ma sfido chiunque ad andare a dirglielo in faccia). In realtà quei rugbisti non avevano un filo di grasso (in media la massa grassa era pari al 16 per cento, cioè pochissima). Questo dimostra che l’IMC è un valore inaffidabile e poco adatto a misurare l’obesità della popolazione; il rapporto vita-fianchi o persino la taglia delle cinture potrebbero rivelarsi criteri più utili. I ricercatori hanno scandagliato il paese per trovare un gruppo di confronto, ma naturalmente era impossibile. Hanno quindi esaminato ventitré uomini di Cork della stessa età e con lo stesso IMC, anche se nel loro caso l’IMC elevato non era dovuto ai muscoli ma alla massa grassa (33 per cento). Perciò, per un confronto aggiuntivo, hanno preso in considerazione anche un gruppo di irlandesi magri.

Dai risultati sono emerse chiare differenze: la diversità del microbiota intestinale era notevolmente più alta negli atleti che negli altri due gruppi. I giocatori di rugby consumavano più calorie, ma avevano anche marker infiammatori e metabolici più sani e un numero più elevato di microbi di tutti i tipi. La diversità del microbiota era correlata alla maggiore assunzione di proteine e all’esercizio fisico intenso e frequente. Avendo selezionato un gruppo di sportivi di primo livello, lo studio non poteva separare gli effetti dell’esercizio fisico da quelli della dieta, ma suggeriva che le variazioni nella diversità microbica dipendessero da entrambi i fattori. In sostanza, l’esercizio non aiuta a perdere peso né a bruciare i grassi (a meno di essere atleti professionisti), ma fa comunque bene al fisico, al cuore e alla longevità. E questo anche perché garantisce la salute e la diversità dei microbi intestinali.

Cibo per il cervello

Se per motivi genetici o culturali trovate intollerabile l’idea di fare esercizio, potreste bruciare le calorie in un altro modo: spremendovi le meningi. Il nostro cervello usa il 20-25 per cento dell’energia che assumiamo ogni giorno, più di qualsiasi altro animale. Le scimmie, per esempio, hanno un cervello molto più piccolo e meno dispendioso rispetto alle dimensioni del corpo, perché non possono permettersi il lusso di una simile limousine succhiabenzina: per ottenere l’energia necessaria ad alimentare un cervello di proporzioni pari al nostro, dovrebbero mangiare venti ore al giorno. Circa due milioni di anni fa l’uomo compì un passo evolutivo grazie al quale il cervello si ingrandì, mentre l’intestino si ridusse di un terzo, in particolare il colon, che oggi in proporzione è molto più piccolo. Il motivo? La cottura dei cibi.

Fu la semplice idea di usare il fuoco per modificare la composizione dei vegetali e della carne a trasformarci in uomini moderni. D’un tratto, usando il calore per demolire gli amidi complessi di foglie e radici, potevamo estrarre l’energia e i nutrienti in molto meno tempo di prima. Non dovevamo più passare la maggior parte della giornata a masticare il cibo come i ruminanti, e potevamo allontanarci di più per cacciare. Ciò eliminò anche la necessità di un elaborato motore a combustione – il nostro lunghissimo intestino crasso – nato per digerire con calma i vegetali più coriacei. A differenza delle scimmie, non dipendevamo più dall’energia (come gli acidi grassi a catena corta) rilasciata dal cibo sottoposto alla fermentazione microbica.

Ridurre le dimensioni dell’intestino ci permise di investire energia e calorie altrove; la scelta più ovvia fu il cervello. Oggi si pensa che la scoperta della cottura e la conseguente facilità con cui potevamo procurarci le calorie siano state fondamentali per l’ingrandimento del nostro cervello, portando alla nascita dell’uomo moderno e al suo successivo dominio del pianeta. Il cervello umano è avido di calorie e ne consuma circa 300 al giorno, anche quando non lo usiamo granché. Equivale pressappoco all’energia di una lampadina che manda una debole luce, e non possiamo spegnerlo: quando dormiamo, consumiamo quasi la stessa quantità di energia.

La scorta di energia viene soprattutto dal glucosio. Anche quando dormiamo o siamo a digiuno, il cervello si accaparra più della metà del glucosio in circolo nel sangue, per assicurarsi di non avere mai fame. Il cervello è il nostro organo più ingordo e quando siamo a riposo usa un quinto dell’energia totale, pur rappresentando appena il 2 per cento del peso corporeo.41 Solo mandare avanti il nostro corpo a riposo ci costa 1300 calorie circa al giorno. La buona notizia è che consumare energia è molto facile. Per esempio, guardare la TV per un’ora equivale a 60 calorie; leggere questo capitolo ne richiede 80, e anche di più se siete sovrappeso o se l’esperienza vi sta causando angoscia.

Abbiamo visto che affidarsi al conteggio delle calorie per perdere peso è spesso fuorviante e che cercare di dimagrire solo facendo esercizio è inutile. Tuttavia, finché non elaboreremo un sistema migliore, le calorie continueranno a godere del favore generale fornendoci almeno una guida approssimativa al contenuto energetico dei cibi. Gli altri dettagli presenti sulle etichette alimentari mostrano i macronutrienti che l’industria e il governo hanno deciso di farci vedere. Sono stati introdotti affinché potessimo giudicare da soli quali prodotti sono sani e quali dovremmo evitare. Ma quanto sono attendibili gli slogan salutistici che li accompagnano e che molti di noi hanno sempre preso per buoni?

Nei prossimi capitoli seguirò il formato dell’etichetta alimentare classica, non senza ironia, dato che oggi le etichette non sono solo fuorvianti ma anche troppo semplicistiche e riduttive. Tutti i nutrienti – e con ciò intendo i minuscoli componenti del cibo essenziali per tutti i processi corporei – sono ugualmente importanti e si trovano praticamente in tutti i cibi utili, una complessa mescolanza dei diversi gruppi alimentari.

NOTE

1 K. Kavanagh et al., Trans fat diet induces abdominal obesity and changes in insulin sensitivity in monkeys, in «Obesity», XV, 7 (luglio 2007), pp. 1675-84.
2 J. A. Novotny et al., Discrepancy between the Atwater factor predicted and empirically measured energy values of almonds in human diets, in «American Journal of Clinical Nutrition», XCVI, 2 (1° agosto 2012), pp. 296-301.
3 S. N. Bleich et al., Calorie changes in chain restaurant menu items: implications for obesity and evaluations of menu labelling, in «American Journal of Preventive Medicine», XLVIII, 1 (gennaio 2015), pp. 70-75.
4 L. Sun et al., The impact of eating methods on eating rate and glycemic response in healthy adults, in «Physiology & Behavior», CXXXIX (febbraio 2015), pp. 505-10.
5 F. M. Sacks et al., Effects of high vs low glycemic index of dietary carbohydrate on cardiovascular disease risk factors and insulin sensitivity: the OmniCarb randomized clinical trial, in «JAMA», CCCXII, 23 (17 dicembre 2014), pp. 2531-41.
6 C. Bouchard et al., The response to long-term overfeeding in identical twins, in «New England Journal of Medicine», CCCXXII, 21 (24 maggio 1990), pp. 1477-82.
7 K. Samaras et al., Independent genetic factors determine the amount and distribution of fat in women after the menopause, in «Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism», LXXXII, 3 (marzo 1997), pp. 781-85.
8 J. H. Stubbe et al., Genetic influences on exercise participation in 37,051 twin pairs from seven countries, in «PLoS One», I, 1 (20 dicembre 2006).
9 J. V. Neel, Diabetes mellitus: a “thrifty” genotype rendered detrimental by “progress”?, in «American Journal of Human Genetics», XIV, 4 (dicembre 1962), pp. 353-62.
10 B. Song e D. M. Thomas, Dynamics of starvation in humans, in «Journal of Mathematical Biology», LIV, 1 (gennaio 2007), pp. 27-43.
11 J. R. Speakman, Thrifty genes for obesity, an attractive but flawed idea, and an alternative perspective: the “drifty gene” hypothesis, in «International Journal of Obesity», XXXII, 11 (novembre 2008), pp. 1611-17.
12 J. R. Speakman, If body fatness is under physiological regulation, then how come we have an obesity epidemic?, in «Physiology», XXIX, 2 (marzo 2014), pp. 88-98.
13 L. Mustelin et al., Associations between sports participation, cardiorespiratory fitness, and adiposity in young adult twins, in «Journal of Applied Physiology», CX, 3 (1° marzo 2011), pp. 681-86.
14 C. L. Ogden et al., Prevalence of childhood and adult obesity in the United States, 2011-2012, in «JAMA», CCCXI, 8 (26 febbraio 2014), pp. 806-14.
15 B. Rokholm et al., The levelling off of the obesity epidemic since the year 1999 – a review of evidence and perspectives, in «Obesity Reviews», XI, 12 (dicembre 2010), pp. 835-46.
16 R. J. Lee et al., Bitter and sweet taste receptors regulate human upper respiratory innate immunity, in «Journal of Clinical Investigation», CXXIV, 3 (3 marzo 2014), pp. 1393-405.
17 R. Negri et al., Taste perception and food choices, in «Journal of Pediatric Gastroenterology and Nutrition», LIV, 5 (maggio 2012), pp. 624-29.
18 K. Keskitalo et al., The three-factor eating questionnaire, body mass index, and responses to sweet and salty fatty foods: a twin study of genetic and environmental associations, in «American Journal of Clinical Nutrition», LXXXVIII, 2 (agosto 2008), pp. 263-71.
19 A. A. Fushan et al., Allelic polymorphism within the TAS1R3 promoter is associated with human taste sensitivity to sucrose, in «Current Biology», XIX, 15 (11 agosto 2009), pp. 1288-93.
20 J. A. Mennella et al., Preferences for salty and sweet tastes are elevated and related to each other during childhood, in «PLoS One», IX, 3 (17 marzo 2014).
21 M. Mosley, Fast Exercise, Atria Books, New York 2013 [trad. it. Esercizi Fast, trad. di L. Corradini Caspani, Corbaccio, Milano 2015].
22 J. H. Stubbe et al., Genetic influences on exercise participation in 37,051 twin pairs from seven countries, in «PLoS One», I, 1 (20 dicembre 2006).
23 M. den Hoed et al., Heritability of objectively assessed daily physical activity and sedentary behaviour, in «American Journal of Clinical Nutrition», XCVIII, 5 (18 novembre 2013), pp. 1317-25.
24 E. Archer et al., Maternal inactivity: 45-year trends in mothers’ use of time, in «Mayo Clinic Proceedings», LXXXVIII, 12 (dicembre 2013), pp. 1368-77.
25 G.-C. M. Gast et al., Intra-national variation in trends in overweight and leisure time physical activities in The Netherlands since 1980: stratification according to sex, age and urbanisation degree, in «International Journal of Obesity», XXXI, 3 (marzo 2007), pp. 515-20.
26 K. R. Westerterp e J. R. Speakman, Physical activity energy expenditure has not declined since the 1980s and matches energy expenditures of wild mammals, in «International Journal of Obesity», XXXII, 8 (agosto 2008), pp. 1256-63.
27 T. D. Spector et al., Trends in admissions for hip fracture in England and Wales, 1968-85, in «The BMJ», CCC, 6733 (5 maggio 1990), pp. 1173-74.
28 K. D. Hall et al., Quantification of the effect of energy imbalance on bodyweight, in «The Lancet», CCCLXXVIII, 9793 (27 agosto 2011), pp. 826-37.
29 P. T. Williams e P. D. Wood, The effects of changing exercise levels on weight and age-related weight gain, in «International Journal of Obesity», XXX, 3 (marzo 2006), pp. 543-51.
30 K. D. Hall et al., Quantification of the effect of energy imbalance on bodyweight, in «The Lancet», CCCLXXVIII, 9793 (27 agosto 2011), pp. 826-37.
31 J. E. Turner et al., Nonprescribed physical activity energy expenditure is maintained with structured exercise and implicates a compensatory increase in energy intake, in «American Journal of Clinical Nutrition», XCII, 5 (novembre 2010), pp. 1009-16.
32 B. Strasser, Physical activity in obesity and metabolic syndrome, in «Annals of the New York Academy of Sciences», 1281 (aprile 2013), pp. 141-59.
33 S. U. Dombrowski et al., Long term maintenance of weight loss with non-surgical interventions in obese adults: systematic review and meta-analyses of randomised controlled trials, in «The BMJ», 348 (14 maggio 2014).
34 U. Ekelund et al., Physical activity and all-cause mortality across levels of overall and abdominal adiposity in European men and women: the European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition Study, in «American Journal of Clinical Nutrition» (14 gennaio 2015).
35 V. Hainer et al., Fat or fit: what is more important?, in «Diabetes Care», XXXII, suppl. 2 (novembre 2009), pp. S392-97.
36 M. Fogelholm, Physical activity, fitness and fatness: relations to mortality, morbidity and disease risk factors. A systematic review, in «Obesity Reviews», XI, 3 (marzo 2010), pp. 202-21.
37 M. Viloria et al., Effect of moderate exercise on IgA levels and lymphocyte count in mouse intestine, in «Immunological Investigations», XL, 6 (2011), 640-56.
38 M. Matsumoto et al., Voluntary running exercise alters microbiota composition and increases n-butyrate concentration in the rat cecum, in «Bioscience, Biotechnology & Biochemistry», LXXII, 2 (febbraio 2008), pp. 572-76.
39 Y. J. Hsu et al., Effect of intestinal microbiota on exercise performance in mice, in «Journal of Strength and Conditioning Research», XXIX, 2 (febbraio 2015), pp. 552-58.
40 S. F. Clarke et al., Exercise and associated dietary extremes impact on gut microbial diversity, in «Gut», LXIII, 12 (dicembre 2014), pp. 1913-20.
41 B. Kubera et al., The brain’s supply and demand in obesity, in «Front Neuroenergetics», IV, 4 (8 marzo 2012).

Di Tim Spector, estratti "Il Mito Della Dieta - La Vera Scienza Dietro A Ciò Che Mangiamo" (Titolo originale "The Diet Myth: The Real Science Behind What We Eat" traduzione di Francesca Fe', Bollati Boringhieri Editore, Milano,2015, capitolo 2.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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