STORIA DELLA CHIESA

Alla morte di Gesù, nella comunità apostolica gerosolimitana si consolidò il triumvirato rappresentato da Pietro, Giovanni e Giacomo il Giusto, la cui autorevolezza presto si impose sui cristiani della Gentilità. Essi infatti apparvero portavoce del gruppo dei dodici considerati quali capi dei credenti in Cristo. Pietro inoltre, dopo la resurrezione, venne, tra tutti, incaricato dal Maestro di «pascere gli agnelli e le pecore» del futuro gregge.

In occasione della Pentecoste poi, gli apostoli riuniti nel cenacolo sentirono posarsi su di loro lo Spirito Santo. In quello stesso giorno in Gerusalemme convennero persone di diverse nazionalità e circa tremila fedeli entrarono nel tempio. Essi non furono fondatori di Chiese ma missionari e la loro azione gettò poi il seme evangelico nel mondo romano.

Nella Chiesa primitiva gli apostoli furono riconosciuti come testimoni di Cristo, nonché guide spirituali e amministratori della comunità.

I primi nuclei di fedeli formarono subito le assemblee o ecclesiae da cui il nome di chiesa, conferito al luogo ove essi si incontrarono. Durante le assemblee collettive cominciarono a leggersi e a commentarsi i testi sacri, si celebrarono i riti, ma si assisterono pure i più bisognosi, gli infermi e quanti risultavano abbandonati, attingendo a una cassa comune costituita da donazioni e lasciti di defunti.

Crebbero intanto il numero degli aderenti e le necessità dell’organizzazione. Gli apostoli, non potendo dedicare – a detrimento della preghiera, della meditazione e della predicazione – tutto il loro tempo al servizio della comunità, ovviarono a tale carenza, facendo scegliere dal popolo cristiano sette diaconi di origine greca, detti perciò Ellenisti, cui venne dato l’incarico di amministrare i beni comunitari.

Inoltre furono subito designate le diaconesse, le quali furono consacrate alla cura degli ammalati, dei poveri e all’educazione dei bambini. Ai diaconi venne affidata la predicazione e due fra gli altri, Stefano e Filippo, assunsero una parte importante, sebbene la loro attività risultasse subordinata a quella degli apostoli, in quanto non testimoni di Gesù.

Stefano, il primo e il più noto dei sette, si pronunciò presto contro il tempio di Gerusalemme da lui considerato idolatra e accusò i Giudei di disubbidire alla Legge. Pertanto, l’esistenza di un gruppo che, nonostante l’Osservanza delle prescrizioni generali ne ebbe anche delle proprie e finì per distinguersi dagli altri come espositore di autonome e diverse dottrine, destò presto sospetti e ostilità fra le autorità costituite le quali dapprima con minacce, poi con la violenza tentarono di ridurre al silenzio i propagatori della nuova fede, volti ad annunziare la resurrezione di Gesù e il compimento delle profezie.

Questa predicazione però, continuata egualmente e senza sosta, nonostante le proibizioni, suscitò quasi subito l’opposizione più decisa dei sommi sacerdoti e dei sospettosi scribi. Stefano così fu processato e lapidato, divenendo la prima vittima di una persecuzione proseguita fino alla morte di Agrippa.

Tale vessazione ebbe pertanto di mira gli Ellenisti ma minacciò anche gli apostoli ai quali venne imposto di non parlare e di non insegnare nel nome di Gesù, poiché con la loro predicazione suscitavano imbarazzo e perplessità di ordine politico, imbarazzo e perplessità di cui invece i Sadducei credevano di essersi liberati con la morte del Cristo, sacrificato per precostituire in certo modo una base di maggior credibilità alla comunità ebraica.

Le prime persecuzioni, disperdendo nel loro insieme gli Ellenisti, propagarono però, nonostante tutto, egualmente il cristianesimo, tanto che il diacono Filippo poté recarsi a predicare in Samaria e a Cesarea e Pietro battezzò il centurione romanoCornelio. Da allora il cristianesimo fu divulgato oltre la Giudea ove restarono in permanente attività numerosi Ellenisti.

In Antiochia poi i credenti in Cristo furono per la prima volta chiamati cristiani, fatto questo di grande importanza non solo in quanto mostra che essi riconobbero subito in Gesù il Messia, ma anche per la forma stessa di quell’appellativo la cui terminazione latina anziché greca indicò il primo pieno successo della propaganda cristiana, presto diffusasi molto probabilmente in un ambiente in cui si usò e si parlò la lingua latina, ambiente provvisto dunque di ufficialità.

Da allora anzi Antiochia diventò il centro del proselitismo cristiano nel mondo romano-Ellenisti co e San Pietro ne fu fatto vescovo.

La diffusione del Vangelo tra i gentili avvenne poi, pur nella stessa Antiochia, tramite Paolo di Tarso, dapprima fanatico persecutore dei cristiani per conto del Sinedrio, poi eccezionale “seminatore” del Verbo. A lui infatti risalirono i fondamenti della dottrina cristologica e di quella soteriologica: la prima relativa a Cristo e la seconda alla questione della salvezza. L’universalismo cristiano ebbe anzi chiaro inizio con San Paolo e con lui il sacramento dell’Eucarestia e la crocifissione si configurarono quali elementi fondamentali, operanti non solo per gli Ebrei ma per tutti gli uomini di ogni razza, lingua e credo sociale. Perciò Paolo passò alla storia come l’apostolo delle genti.

Egli poi delineò con chiarezza la cosiddetta triade delle funzioni ecclesiastiche maggiori: gli apostoli o messaggeri di Cristo, i profeti, volti a parlare in modo del tutto intelligibile e i didàskaloi, ossia gli insegnanti di religione. Al di là degli apostoli delle Chiese paoline, il primato apostolico di Paolo fu del tutto preciso.

Egli riguardo alla sua comunità svolse il ruolo che i Dodici e Giacomo ebbero in Palestina. Da ogni comunità l’evangelizzatore, dopo averla fondata e inizialmente presieduta, si allontanò per proseguire altrove la propria missione, lasciando al suo posto un incaricato del governo della Chiesa con cui egli restò in contatto. Così il ricordo del “governatore” Filippo e delle figlie profetesse si conservò caro in Frigia; in Efeso, in Antiochia, a Cesarea e a Roma fu sacro quello di Pietro.

In merito ai dirigenti ecclesiastici le fonti parlano di anziani – presbiteri – ispettori o sovrintendenti, vescovi o supervisori.

I presbiteri furono i più anziani e i notabili delle comunità, i ministri delle funzioni liturgiche e gerarchiche, per mezzo delle quali essi conferirono grazie spirituali o carismi.

All’inizio la distinzione non fu del tutto chiara: Luca parlò infatti di presbiteri, laddove Paolo sottolineò la funzione degli episcopi. Finché rimase in vita Paolo non esisté altro vescovo all’infuori di lui e dei suoi personali delegati. Le Chiese paoline e quelle di Gerusalemme furono rette da un consiglio di dignitari, chiamati in modo alternativo presbiteri o episcopi, sotto la solidale sorveglianza del fondatore e dei suoi sostituti, Tito e Timoteo, che ordinarono diaconi e preti.

Lentamente il governo delle Chiese fu affidato a un capo o primus inter pares del collegio presbiteriale coadiuvato dai diaconi, ovvero a un vescovo riconosciuto come il rappresentante di Cristo, il garante dell’ortodossia cui preti e diaconi furono liberamente sottoposti.

Le lettere di sant’Ignazio di Antiochia alle Chiese d’Asia palesarono nelle prime comunità l’esigenza e l’esistenza di un gruppo di presbiteri o diaconi, con alla testa un solo episcopo o vescovo: è questo il punto di partenza dell’episcopato monarchico dalla metà del II secolo diffusosi largamente in Siria e in Asia Minore, poi gradualmente in tutta la cristianità.

All’inizio, il vescovo fu l’unico a celebrare l’Eucarestia, il solo detentore dei veri beni sacerdotali. Con il moltiplicarsi delle comunità una parte delle sue funzioni passò invece ai presbiteri, quindi egli rimase solo nelle comunità importanti e fu designato su proposta del clero della città episcopale. Il popolo poi ne confermò la scelta, mentre la consacrazione avvenne ad opera di un presule già in funzione.

Le sedi episcopali non ebbero tutte eguale autorità e prestigio. Alcune collocate in centri pur meno importanti detennero una precisa preminenza. Particolarmente significativi furono i presuli di Antiochia, di Gerusalemme e di Costantinopoli. Il rango più alto in assoluto fu presto invocato dal vescovo di Roma, in quanto residente nella capitale tradizionale dell’Impero, ma soprattutto perché la Romana Ecclesia, centro del mondo ellenistico-latino, ebbe con sé dagli inizi Pietro e Paolo e fu detta apostolica.

Tuttavia, in principio il primato del capo spirituale dell’Urbe, in quanto successore di Pietro, ebbe solo valore onorifico senza che ciò ledesse la parità dei vari presuli consideratisi successori degli apostoli. Così nel canone niceno del 325, onde mantenere una situazione non squilibrata a favore di Roma, si conferì consistenza anche alle sedi di Gerusalemme, Antiochia e Alessandria.

Fra il I e il III Concilio ecumenico si determinò l’ascesa di Costantinopoli, dal 330 nuova capitale dell’Impero e destinata a diventare la “seconda Roma”. Anche la scelta teodosiana di tenere a Costantinopoli il II Concilio ecumenico ebbe come risultato quello di accrescere il prestigio della sua sede vescovile in rapporto a quelle di Antiochia e di Alessandria. Il III canone conciliare dichiarò infatti che spettava al pastore costantinopolitano il primato d’onore dopo quello di Roma.

Con il sinodo romano del 382 d’altra parte, papa Damaso i approfondì con cura il concetto di primato apostolico dell’Urbe in quanto città prediletta da Pietro e da Paolo e capitale più antica dell’Impero: di qui l’incipiente conflitto fra il metropolita costantinopolitano e quello romano, presto divenuto papa.

Alla fine del IV secolo così, nel centro dell’Occidente, Roma restò la metropoli ecclesiastica dell’Italia e soprattutto il polo preferenziale della cristianità, mentre i “pontefici” romani esercitarono già da allora, anche fuori d’Italia, regolare e tradizionale autorità. Il Concilio di Calcedonia del 451 aggiunse anche a Costantinopoli definita, come già detto, la seconda Roma, la supremazia sulle province d’Asia, Ponto e Tracia. Ma se Roma, come si è detto, alla fine del IV secolo spiccò fra le altre città dell’Occidente e, in qualche modo, pur fra quelle orientali ciò si dovette in buona parte agli sforzi di papa Damaso il quale, con speciale premura ricercò e mise in valore le tombe dei martiri, fra le quali molte giacevano dimenticate e fatiscenti, e si dovette altresì alla sollecitudine con cui egli le arricchì di iscrizioni in versi (per quel papa lavorò l’incisore Furio Dionisio Filocalo). Con pari lena poi Damaso si dette alla raccolta delle lettere e delle testimonianze dei primi papi, da lui ordinate nella prima sede dell’Archivio della Chiesa, situato presso la basilica, ora consacrata con il suo nome e annessa al palazzo della Cancelleria, vicino al Campo dei Fiori.

Agli inizi le riunioni cristiane si tennero in abitazioni private di fedeli benestanti, ma dai primi decenni del III secolo si formarono attraverso acquisti e donazioni le prime proprietà ecclesiastiche comprendenti luoghi di culto e cimiteri o catacombe. Un esemplare di edificio di culto precostantiniano fu la famosa chiesa di Dura Europos sull’Eufrate, collocata all’interno di un’abitazione privata. Alla chiesa-casa poi, gradualmente si sostituì la costruzione di quella a pianta basilicale, di tipo uniforme, modellata sugli schemi dell’architettura romana divenuta peculiare della prima architettura cristiana.

L’arte figurativa procedette parallelamente all’edificazione di chiese e alla sistemazione di necropoli sotterranee. A Roma, per esempio, si ebbero catacombe e cemeteria importanti e ben conservati, quali quello di San Callisto, San Sebastiano, Santa Costanza, Santa Priscilla, Sant’Agnese. Il cemeterium Cornelium, collegato alla basilica petriana, fu poi tra i primi e più autorevoli luoghi di culto mortuario.

Fin verso la fine del III secolo il cristianesimo si diffuse più nelle province imperiali greche che in quelle latine e ciò in quanto le sue origini furono orientali, e di lingua greca risultarono in gran parte i suoi primi missionari. Stessa situazione si riscontrò poi nel IV secolo: infatti si ebbero fin da allora aree come l’italiana e l’africana ove il cristianesimo conobbe vasta e compatta diffusione, mentre terre estese e importanti come la Gallia e la Spagna furono in molte pur importanti città prive di vescovi. In Oriente inoltre l’opposizione pagana non costituì una forza politica ben salda ma, al contrario, apparve male organizzata e poco efficace.

I maggiori esponenti pagani furono spesso professori e roccheforti del paganesimo rimasero solo le istituzioni culturali. In Occidente invece il cristianesimo tentò la diffusione nei ceti più alti, ma incontrò ostacoli poiché le antiche famiglie si mantennero spesso fedeli alla religione tradizionale, sino alla fine del IV secolo. Così, fra la maggior parte dei suoi seguaci figurarono, all’inizio, persone di basso ceto e di scarsa cultura, poiché gli uomini più colti non accettarono con facilità la nuova fede. I senatori, ad esempio, si considerarono depositari dell’antica tradizione pagana e per loro fu difficile rifiutare gli dèi per abbracciare Cristo.

La forza del cristianesimo risiedette dunque in prevalenza nei bassi e medi ceti delle città, fra la grande massa dei derelitti e degli emarginati ben disposti ad accogliere il contenuto rivoluzionario della “buona novella” nonché la sua accattivante dottrina della carità, dell’amore e della fratellanza universale.

Nell’agape fraterna, si disse infatti giustamente, lo schiavo dimenticò le proprie catene, divenne pari al ricco proprietario che lo sfruttava; gli strati dei derelitti trovarono nell’opera assistenziale della Chiesa conforto e alimento. Gli animi più accesi poterono anche intravedere nella comunione dei beni, conquista dell’età apostolica, la promessa e l’avvio di una radicale trasformazione sociale.

Tuttavia il cristianesimo anche in Occidente non fu solo la religione dei poveri e sin dalle origini penetrò anche nelle classi colte e ricche. Un testo tipico del profetismo cristiano, Il pastore di Erma, di non facile datazione ma cronologicamente posto in genere nell’età di Domiziano, attestò in Roma l’esistenza di cristiani anche facoltosi. L’unificazione di buona parte del mondo antico entro il vecchio Impero favorì poi un’ampia circolazione di idee e costituì una sorta di cornice provvidenziale entro cui il nuovo credo si diffuse, preparando regioni e terre fra loro molto lontane ad accogliere la medesima esperienza religiosa.

La “buona novella” corse così per il mondo romanoin un momento favorevole: la restaurazione della tradizionale religione romana voluta da Augusto si pose infatti contro lo spirito dei tempi, più aperti verso le ideologie misteriche, escatologiche e soteriologiche e quindi non passò molto tempo che si intensificò il processo di orientalizzazione della civiltà romana. Tutto ciò dunque rese propizia quell’epoca per la prima diffusione del cristianesimo. Lo spirito di tolleranza tipico di Roma nei confronti delle diverse credenze fece poi sì che la predicazione dei primi cristiani venisse accolta con indifferenza ma senza ostilità, anche perché essa nell’immaginario comune non si distinse in maniera sostanziale, per lo meno in un primo momento, da altri culti medio-orientali come quello di Mitra e dell’ebraismo.

Per quanto particolarmente riguarda la religione mitraica (diffusasi in Oriente nel IV secolo a.C. e giunta in Occidente con il I secolo, ma che conobbe un momento di affermazione nel III -IV secolo d.C., quando Diocleziano dedicò un santuario al Sole in Carnuntum, sul Danubio) bisogna dire che essa ebbe qualche connessione, agli inizi, con il cristianesimo. Infatti templi mitraici e cristiani sotterranei trovarono non di rado pari collocazione.

Tuttavia, dopo un iniziale periodo pacifico, si generò un deterioramento nei rapporti fra cristianesimo e Impero, dovuto a fattori diversi: per Roma infatti la religione fu tradizionale prerogativa dello stato e risultò inconcepibile separare la dimensione sacra dalla politica, formando entrambe una sorta di unicum. Sacrificare agli imperatori fu, ad esempio, per i Quiriti una pratica di religiosità e di obbedienza politica e anzitutto una consuetudine di accettazione dell’autorità costituita; rifiutare tali sacrifici al contrario fu inteso come atto sovversivo nei confronti dell’Impero.

I cristiani invece rivendicarono la completa autonomia della sfera spirituale dalla compagine statale, ma la sottrazione della religione alle competenze imperiali aprì la strada alla possibile disobbedienza civile. La concezione romana e la cristiana furono perciò fra loro inconciliabili e l’ampio spazio lasciato dai cristiani alla coscienza divenne presto motivo di grave attrito.

Il carattere innovativo del messaggio cristiano e il contenuto delle beatitudini determinarono poi una profonda incomprensione con il mondo culturale tradizionale. I temi della predicazione del Cristo, il cui fine apparve quello di far comprendere all’uomo la vera ragione della sua esistenza, ossia la conquista del regno dei cieli, e inoltre la forte rivendicazione egualitaria specialmente nei primi secoli propugnata, nonché l’impegno fortemente solidaristico non si inserirono per nulla negli schemi mentali del tempo e ciò rese quasi impossibile per i pagani intendere lo spirito del nuovo credo, interpretato secondo schemi politico-rivoluzionari e pertanto ritenuto pericolosamente sovvertitore di cuori e di costumi.

Il cristianesimo quindi, percepito dall’Impero in modo ambiguo e confuso, fu visto come un corpo estraneo alla società e poco affidabile. Ad esso ci si riferì allora non come a una semplice religione ma come a una pericolosa superstizione e secondo un imperatore filosofo come Marco Aurelio addirittura come a una sorta di incomprensibile fanatismo.

I cristiani dunque furono accusati di ateismo, in quanto non disponibili ad accettare le divinità riconosciute nell’Impero, e di scarso patriottismo comprovato dal rifiuto di compiere sacrifici in onore dell’imperatore, accusa quest’ultima che in determinati momenti della vita di Roma giustificò precisi provvedimenti repressivi e persecutori.

I contrasti fra Impero e cristiani si accentuarono poi quando gli imperatori, come Nerone e Domiziano, diedero al loro governo un’impronta autocratica. La persecuzione fu altresì esasperata allorché l’Impero medesimo si sentì minacciato da pericoli esterni e nell’intento di neutralizzare ogni tendenza disgregatrice consolidò la compattezza dell’organismo statale: ciò in particolare si verificò verso il 167 con Marco Aurelio, che volle rinvigorire i culti pagani, onde ottenere la protezione divina contro le invasioni dei barbari penetrati fin nella pianura padana.

Già in precedenza però l’imperatore Claudio aveva ordinato l’espulsione degli Ebrei da Roma tuttavia non è sicuro che tal progetto rientrasse nell’ambito delle persecuzioni anticristiane, pur se all’epoca l’autorità non distinse ancora con certezza i cristiani dai Giudei, quindi colpendo questi ultimi si raggiunsero in qualche modo anche i fedeli di Cristo.

Sappiamo inoltre che Claudio – a riferirlo furono Tacito nei suoi Annali, e Suetonio nelle Vite dei Cesari – cacciò i Giudei da Roma in quanto provocarono tumulti impulsore Chresto, ovvero indottivi da Cristo di cui essi non sarebbero stati seguaci, ed è probabile pertanto che la predicazione cristiana provocasse già in quegli anni tra gli Ebrei romani varie intemperanze e che Claudio dunque, pur non distinguendo sino in fondo fra cristiani e Giudei, emanasse un ordine di espulsione nei confronti di tutti coloro che considerò responsabili di turbare la quiete dell’Urbe.

Le prime reazioni anticristiane nacquero dunque più dall’ostilità popolare, probabilmente sorta nel medesimo ambito israelitico, che da una cosciente e organizzata volontà politica.

Problema più complesso invece assunse la persecuzione neroniana seguita all’incendio di Roma del luglio 64, che una perdurante tradizione ha suggellato al ricordo popolare, che aggrega ad essa anche il contemporaneo supplizio degli apostoli Pietro e Paolo.

Le principali fonti cristiane sono in proposito la lettera ai Corinzi di Clemente romanoe un noto passo degli Annali di Tacito, il quale descrisse le rovine dell’incendio che per sei giorni divorò Roma distruggendone gran parte, mentre Nerone si trovava ad Anzio. Nel popolo – scrisse Tacito – si accreditarono presto voci indicanti il responsabile della sciagura nell’imperatore che, per allontanare da sé tali insinuazioni, cercò di gettare la colpa sui cristiani, odiati dal popolo per le scelleratezze che si imputavano loro. Perciò gli aderenti a tale setta furono imprigionati e sottoposti a raffinate torture e, una volta denunciati dai loro compagni di fede o da altri Romani che li odiavano, furono condannati a morire come rei, non tanto per i delitti connessi all’incendio, quanto perché considerati nemici del genere umano.

Come capro espiatorio di quel rovinoso incendio dunque furono scelti i seguaci di Cristo in quanto attorno a loro aleggiavano pericolosi pregiudizi e quindi essi poterono essere facilmente colpevolizzati. L’accusa poi di nemici del genere umano si spiegò con il loro rifiuto di propiziarsi gli dèi con i consueti sacrifici onde por fine alle sventure che avevano colpito la città. Il parere estremamente negativo degli intellettuali contro gli aderenti a gruppi ebraico-cristiani completò l’opera e giustificò la persecuzione.

Tra le violente repressioni postneroniane ricordiamo quella dell’anno 95, dovuta a Domiziano, che fu la prima organizzata esplicitamente contro i cristiani e destinata pertanto a darci la dimostrazione di quanto la loro religione negli ultimi decenni del i secolo fosse penetrata profondamente in Roma.

Tuttavia in tale periodo e durante i primi due secoli, se non si accredita la tradizione dell’Institutum neronianum ovvero di una legge promulgata da Nerone, il cui fine sarebbe stato quello di estirpare la fede cristiana, le repressioni furono locali e si attuarono nel disinteresse dell’Impero nei confronti della nuova religione e sulla base del ricorso al consueto potere di coercitio rivolto contro i violatori dell’ordine pubblico.

In ogni modo, il suddetto instrumentum non doveva ancora esistere, altrimenti all’epoca di Traiano non si sarebbe creata una nuova e apposita legislazione anticristiana come è confermato dal rescritto di Traiano in risposta alle dubbiose richieste di Plinio il Giovane il quale, posto di fronte al problema di quanti aderivano al nuovo credo, decise di chiedere disposizioni all’imperatore.

Plinio domandò se fosse da considerarsi reato il cristianesimo e lo fossero le turpitudini connesse con quel nome. Sottolineò poi di non aver mai assistito a processi contro i cristiani, quindi volle sapere se essi dovessero essere trattati diversamente a seconda dell’età o del sesso, se fosse opportuno perdonare i pentiti, se non dovesse giovare il pentimento a chi un tempo si fosse macchiato di quella colpa o se infine andassero puniti soltanto i reati da loro concretamente commessi.

La risposta di Traiano fu ambigua: non bisognava – sentenziò quest’ultimo – appositamente ricercare i cristiani, ma punirli solo se qualcuno li avesse denunciati. Tuttavia il perdono avrebbe potuto essere concesso a chi avesse abiurato la propria fede, accettando di sacrificare agli dèi. Quanto ai libelli di accusa anonimi essi non dovevano essere presi in considerazione. Ciò stette a significare pertanto che il cristianesimo andava stroncato solo in alcuni casi e Traiano fornì a Plinio, più che una legislazione ancora inesistente, un codice di saggio comportamento.

Con Marco Aurelio invece la condizione cristiana si fece più dura e con l’anno 178 si ebbe a Lione una delle più sanguinose persecuzioni della storia. La situazione si modificò più tardi radicalmente con la prima metà del III secolo, allorché fu chiaro l’intento imperiale di servirsi delle repressioni per sconvolgere e distruggere dalle fondamenta la Chiesa cristiana in quanto tale.

Le persecuzioni successive ebbero quindi il fine precipuo di eliminare del tutto il cristianesimo all’interno dei confini imperiali. Le pressioni dei barbari si fecero allora sempre più forti e gli Augusti ritennero di poterle respingere guadagnandosi il favore degli dèi; di qui il ritorno a un conservatorismo religioso di antico stampo. Tali principi reazionari scatenarono pertanto gravi persecuzioni durate sino agli inizi del IV secolo. Nella prima metà del III secolo inoltre si ebbe un editto di Settimio Severo del 202, inteso a vietare il proselitismo religioso, accomunando in un unico diniego ebrei e cristiani.

Più tardi Massimino il Trace perseguitò i capi della gerarchia ecclesiastica per ostacolare il proselitismo e la predicazione. Decio poi, nel 250, emise il primo editto di persecuzione generale, esteso a tutti i cristiani obbligati a scegliere tra la morte e l’abiura. La breve persecuzione, cessata con la scomparsa di Decio, fu concentrata a Roma, ove fu ucciso il vescovo Fabiano, in Egitto, in Africa, in Asia e fu accompagnata da tumulti popolari, ma non ebbe risultato positivo.

Altri imperatori in diverso contesto la ripresero e particolarmente sanguinosa fu quella di Valeriano (257-258), ispirata dal ministro Macriano, fanatico seguace del misticismo pagano. Sotto i colpi di Valeriano perirono a Roma il vescovo Sisto II , in Africa Cipriano, in Egitto Dionigi Alessandrino e in Spagna il vescovo di Tarragona. La morte dell’imperatore pose fine allo scempio. Gallieno infine restituì ai cristiani i luoghi di culto ed emanò un primo editto di tolleranza che dichiarò il cristianesimo religio licita. Tale editto conferì alla Chiesa un periodo di pace quasi ininterrotto dal 260 sino all’inizio del IV secolo, ossia al 303, periodo denominato della piccola pace della Chiesa.

Vennero allora aperti numerosi templi – cosa che attestò fino a qual punto i cristiani si considerassero usciti dalle persecuzioni – quand’ecco Diocleziano scatenare l’ultima, forse più violenta repressione, poiché i seguaci di Cristo, considerati come uno “stato nello stato” allora rafforzatosi e generalmente estesosi, furono ritenuti in pieno contrasto con la teoria dioclezianea che non tollerò organismi sfuggenti al controllo imperiale. Le violenze anticristiane, come pare, furono considerevoli in Occidente sino al 305, ma soprattutto in Oriente dove governarono più direttamente Diocleziano e Gallieno i quali, soprattutto nel 303-304 e poi sino al 311, portarono a una sistematica soppressione dei nuovi credenti e alla confisca dei loro beni, dei libri sacri e di tutta l’oggettistica di culto.

Soltanto in punto di morte Gallieno emanò un editto di tolleranza valso a certificare il complessivo insuccesso della persecuzione che, seminando paura, lutti e stragi ottenne, contrariamente alle aspettative, il rafforzamento del cristianesimo cementato dal sangue dei martiri.

Ricerche recenti hanno voluto dimostrare che il numero delle vittime delle repressioni, persino delle ultime, fu tutto sommato piuttosto basso in Occidente e di modeste proporzioni anche in Oriente e ciò può avere qualche fondamento, pur se sembra non sino in fondo credibile che in quasi un decennio di stragi attestate specialmente nelle regioni orientali, si siano avute solo poche migliaia di morti. A questo proposito poi si deve precisare che è molto difficile raccogliere in questo senso notizie attendibili poiché mancano certificati di decesso e fonti che comprovino il numero effettivo dei processi e delle esecuzioni.

È prudente pertanto non esagerare in nessun senso le conclusioni, ma ` certo le persecuzioni vi furono e il risultato fu inversamente proporzionale a quanto sperato in ambito imperiale.

Con Costantino, terminate le persecuzioni, il cristianesimo cessò di essere un movimento clan destino e, dapprima riconosciuto ufficialmente – sino ad allora era stato perseguitato o magnanimamente tollerato – venne ben più tardi assunto come religione di stato. A tutto ciò fu legato il nome di questo imperatore i cui rapporti con la Chiesa apparvero complessi e articolati su piani differenti: quello politico e quindi pubblico e quello relativo alle convinzioni personali del sovrano.

Taluni storici considerarono infatti Costantino un politico puro, altri lo videro come un sincretista, altri infine ne fecero un cristiano convinto già dal 313, ovvero dall’anno della battaglia di Ponte Milvio, a Saxa Rubra.

Il suo nome venne comunque connesso all’editto di tolleranza di Milano del 313, con il quale cessarono le persecuzioni.

Secondo la tradizione il vincitore di Ponte Milvio e Licinio, incontratisi in Milano in occasione del matrimonio di quest’ultimo con la sorella di Costantino, avrebbero emanato l’editto per conferire diverso orientamento alle relazioni fra Impero e Chiesa. Il testo del suddetto editto è tramandato dai rescritti liciniani, riportati da Lattanzio e da Eusebio di Cesarea.

In forza di tale ordinanza i cristiani vennero per la prima volta protetti contro le persecuzioni, e respirarono più agevolmente in un clima di libertà. Essi per di più furono risarciti dei danni subiti dai beni della comunità durante gli anni di Diocleziano. Il testo previde altresì la libertà religiosa non solo per i seguaci di Cristo ma anche per quelli che professarono altre dottrine.

Senza dubbio nella politica ecclesiastica costantiniana è difficile scorgere un criterio logico. Egli infatti dapprima seguì il culto di Ercole, poi quello mitraico del sole per divenire infine cristiano. Certo è che nel 337, prima di morire, secondo la conferma della Vita Constantini egli accettò il battesimo, ma ciò non significa che già da prima non fosse almeno avviato sulla strada del cristianesimo. Il periodo nel cui ambito gli storici collocano la sua conversione va comunque fra il 312 e il 324. La tradizione più antica da Eusebio a Lattanzio la volle però fissata nel 312 in occasione della battaglia di Ponte Milvio, della famosa visione e della conseguente decisione di far dipingere il monogramma del Cristo sullo scudo dei suoi soldati.

Accettando la suddetta tesi peraltro, ossia quella dell’accettazione della fede di Cristo nel 312, ci correrebbe l’obbligo di fornire delucidazioni sul silenzio di Eusebio che nella Storia Ecclesiastica non parlò della visione, cadendo in contraddizione sui particolari relativi a Licinio.

Ponendo invece la conversione nel 324, la si connette strettamente alla vittoria dell’imperatore su Licinio, vittoria che avrebbe fatto di quell’Augusto il campione della nuova fede. Comunque l’avvicinamento del sovrano al cristianesimo e alla Chiesa si spiega con il fatto che egli volle conquistarsi il consenso di ampi settori dell’Impero, ponendosi in contrasto con Massenzio, certamente pagano, e con Licinio. Per conciliarsi l’appoggio dei cristiani egli dunque avrebbe dapprincipio accettato di far suo un segno monogrammatico ambiguo che i cristiani poterono riconoscere come proprio e solo dopo, a successo consolidato, ne avrebbe sposato la causa.

Comunque, dopo il 313 Costantino fu contraddistinto da una politica fortemente generosa verso le comunità africane e il vescovo di Cartagine. Somme rilevanti furono da lui assegnate a Roma dove vennero donati ai testimoni della nuova fede e restaurati a spese dello stato immobili tra i quali la sede dei Laterani – trasformata nella basilica di San Giovanni – la prima basilica di San Pietro in Vaticano e quella di San Paolo fuori le Mura.

Ai cristiani, inoltre, vennero assegnate rendite cospicue. Nonostante ciò Costantino ridusse il potere autonomo del successore degli Apostoli. Infatti nell’ambito del Concilio di Arles, convocato per il 314, furono rappresentate unicamente le organizzazioni statali appannaggio di Costantino mentre le decisioni ivi prese furono soltanto dopo notificate a papa Silvestro estraneo all’assemblea, mediante una lettera non sottoposta alla sua approvazione. Nei canoni di Arles quindi non si ritennero empi il servizio dello stato, la militia civilis e quella dell’esercito ritenute lecite dal momento che Cesare era divenuto cristiano. Solo dopo il 324 poi, passato in Oriente, Costantino vi trasferì le ordinanze liberatorie del 313.

L’imperatore adottò inoltre nella legge romana i princìpi cristiani: la domenica fu giorno festivo obbligatorio, vennero abrogate le leggi contro il celibato, si difesero i deboli e gli innocenti contro le violenze, si condannarono come deviazioni pagane, la magia e l’auspicio privato (caratteristica dell’aruspicina o scienza degli aruspici) e, come anticristiane, le eresie e gli scismi. L’orientamento di Costantino dette inizio a un nuovo periodo dei rapporti fra stato e Chiesa e affermò il cesaropapismo , ovvero la pretesa dei Cesari di comportarsi come supremi reggitori delle gerarchie ecclesiastiche.

Gli aspetti positivi assicurati alla Chiesa dalla ottenuta libertà, furono la possibilità di un’ampia evangelizzazione nella società e negli uffici statali. Di qui derivarono l’origine della parrocchia, una nuova struttura ecclesiastica, il culto dei martiri, il monachesimo, la diffusione della letteratura patristica.

Costanzo, successore di Costantino, concesse però credito anche alle cerimonie pagane, nonostante negli ultimi anni del suo impero avesse ripreso la lotta contro gli aruspici, gli astrologi, gli indovini e i maghi. Giuliano l’Apostata invece (360-363) inaugurò un breve periodo di ritorno al passato, professò il paganesimo e capovolse le direttive costantiniane. Egli restituì più libertà ai vari culti, riaprì i templi e consentì i sacrifici. Inoltre pretese dai cristiani la restituzione di oggetti preziosi sottratti ai santuari pagani e ciò provocò sanguinosi torbidi in Siria, Fenicia, Arabia ove il popolo saccheggiò edifici di culto cristiano, suscitando la reazione dei proseliti di Cristo e l’abbattimento degli idoli restaurati.

Tuttavia la riforma pagana fallì soprattutto per l’apatia dei sacerdoti e per l’indifferenza popolare. Con Gioviano, al contrario, la politica imperiale fu improntata da spirito maggiormente tollerante e dopo la sua scomparsa Valentiniano in Occidente e Valente in Oriente si distinsero per un’azione religiosa più equilibrata; Valentiniano in particolare appoggiò la Chiesa che si riconobbe nel Credo approvato a Nicea (325); Valente osteggiò invece l’eresia ariana.

Nel 379 con Teodosio si intervenne però decisamente in pro dell’ortodossia e alla morte dei vescovi ariani di Milano e di Sirmio furono eletti in quelle città due esponenti di indirizzo “romano” fra i quali primeggiò a Milano Ambrogio, irriducibile campione cristiano, e così da quei due centri l’ortodossia si estese alle province italo-illiriche. Graziano poi compì viaggi presso le suddette città, accostandosi ai problemi dogmatici e volgendosi verso Ambrogio di cui si fece discepolo.

Il risultato di tale atteggiamento fu la convocazione del Concilio di Sirmio del 378, nel cui corso vennero deposti i porporati ariani. Si emanarono altresì apposite leggi con cui si proscrisse l’eresia. Nel 379, inoltre, fu promosso il Concilio di Antiochia, importante per l’adesione degli orientali all’insegnamento di papa Damaso e dei vescovi occidentali.

Teodosio il 27 febbraio del 380 emanò l’editto di Tessalonica, con cui proclamò il cristianesimo religione di stato, mentre nel 381 cominciò non solo a rendere concreta la convocazione di un grande Concilio orientale, ma anche a vietare la promozione di riunioni all’interno delle città a quanti, ponendosi in posizione ereticale, non accettarono i decreti di Nicea. Tutte le chiese finite in mano ariana dovettero essere restituite ai cattolici. Il sinodo ebbe luogo a Costantinopoli – maggio 381 –, vi parteciparono 150 vescovi e nel suo corso fu redatta la definizione dogmatica, in cui furono dichiarate la consustanzialità e la distinzione delle tre persone della Trinità. Con il che il paganesimo risultò totalmente proscritto.

Fin dal II secolo il cristianesimo fu intimamente travagliato da divisioni interne sull’interpretazione di punti dottrinali relativi al Cristo, nonché su materie disciplinari, dando quindi luogo alle prime eresie.

Durante il II secolo infatti si sviluppò la cosiddetta Gnosi che pretese di conoscere razionalmente le cose divine e fra i suoi seguaci, denominati Gnostici, i maggiori rappresentanti furono Basilide e suo figlio Isidoro, Valentino, Teodato, Marcione, Saturnino. Essi vollero presentare il cristianesimo in termini accettabili alla cultura Ellenisti ca e forse espressero, amalgamandole alla nuova religione, antiche esperienze orientali. Per gli Gnostici il mondo nacque da una caduta o da un allontanamento da Dio che lasciò negli uomini una scintilla divina, “un Dio prigioniero”. Ravvivare la suddetta scintilla per giungere alla salvezza fu dunque compito della redenzione ma anche di una dottrina salvifica infusa dall’alto sugli eletti. Tale eresia culminò pertanto in un atto di conoscenza, ovvero la Gnosi.

All’origine di tutto secondo tale teorica fu l’antagonismo fra bene e male, fra luce e tenebre e la lotta da combattersi fu eterna e fatale mentre solo agli Gnostici fu dato il dono di distinguere la vera via da seguire.

La diffusione di questa setta, rapida e ampia, previde la negazione del Vecchio Testamento, mentre del Nuovo fu accettato solo il Vangelo di Luca, esclusi i due primi capitoli considerati anch’essi in contrasto con la teologia gnostica. Comunque la predicazione della suddetta dottrina avrebbe potuto salvare solo un ristretto numero di uomini e tutto il resto fu dominato da un dualismo che divise il mondo in due sfere: il mondo invisibile, opera di un Dio supremo, e il mondo visibile e corruttibile, creato dal demiurgo . All’inizio della storia umana il demiurgo divenne re, ma per salvare l’umanità Dio inviò Cristo il quale con i suoi miracoli si rivelò superiore al demiurgo , senza che però venisse denunciata una distinzione fra i due dèi. Dopo la sua morte Gesù scese all’inferno per liberare quelli che il demiurgo aveva condannato.

Altra eresia fu il Montanismo, propugnato da Montano, che attorno al 159 avviò una fortunata predicazione facente capo alla dottrina del Paracleto annunciato nell’ultima cena, un cemento spirituale che doveva riunire i cristiani, isolarli dal mondo e prepararli al regno di Dio, il cui avvento era imminente. La Chiesa poi fu fatta coincidere con una comunità di perfetti ; ai catecumeni più degni doveva essere riserbato il privilegio del battesimo, mentre da esso andavano esclusi tutti quanti fossero caduti ripetutamente nel peccato.

Nel III secolo primeggiò l’eresia Manichea, più che altro da ritenersi alla stregua di una nuova religione di ispirazione iranica e appropriatasi di talune motivazioni cristiane. Il prete persiano Mani (215-277) ebbe a considerarsi l’ultimo e il più significativo degli inviati da Dio sulla terra, Noè, Abramo, Zoroastro, Buddha e Gesù. Anche a Mani il mondo si rivelò sconvolto nell’eterno conflitto fra bene e male, ma egli intravide un barlume di speranza nella vittoria finale del bene e una completa pacificazione cui i seguaci della nuova fede dovevano partecipare, costituendo una legione di “eletti” sottoposti a rigorose e pressanti prescrizioni.

Nonostante il proliferare delle eresie il cristianesimo, dopo l’editto di Milano del 313, ebbe un notevole incremento in Occidente, in Oriente e anche nell’Africa, ove il vescovo ortodosso Ceciliano si contrappose ai Donatisti, altra setta eretica basata sul perseguimento della purezza e volta a escludere tutti quelli che fossero caduti nel peccato, in particolare i preti indegni, considerati a tutti gli effetti come vitandi (la condanna contro il Donatismo giunse con il Concilio di Arles del 314, ma la loro azione continuò almeno fino al 325-326).

Oltre a Ceciliano, il fiorente cristianesimo africano identificò un altro forte esponente in Origène, vigoroso pensatore della scuola di Alessandria. Questi ammise l’esistenza di un mondo di anime libere, suddivise in base alla purezza e alla gravità delle loro colpe in tre categorie: gli angeli, gli uomini e i demoni. La categoria umana in forza dei suoi peccati ricevette un corpo e cadde sulla terra. Tra Dio e le anime in attesa di purificazione giunse il Figlio, l’Unigenito, o Sapienza di Dio considerata ipostasi sussistente e Logos , una sorta di intermediario divino che evitò di porre Dio in contatto diretto con le creature e si incarnò per ottenere la salvezza degli uomini. Origène credette nella salvezza cui si poteva giungere per aiuto della divina provvidenza, ma il trionfo non fu definitivo. Il mondo conobbe infatti nuove cadute e nuove redenzioni in un continuo divenire.

La scuola origeniana provocò consensi e altrettanto forti reazioni: in seguito, verso il 318-320 un grave conflitto nacque tra il vescovo Alessandro e il prete Ario, il quale ritenne Dio, solo e unico non creato. Tutto ciò che era al di fuori di Dio apparteneva alla creazione.

Il Logos quindi non poté essere della stessa natura di Dio e non appartenne alla divinità ma fu una sorta di semidio. Questa dottrina
ebbe i suoi precedenti in Origène e attribuì al Figlio solo una divinità secondaria, subordinando gerarchicamente il Figlio, la cui natura non fu divina ma umana, al Padre. La grave controversia nata fra Ario e Alessandro generò disordini e tensioni che sconvolsero l’Oriente e indussero Costantino a intervenire per riportare ordine nella parte dell’Impero a lui ultimamente sottopostasi, nella quale non volle creare pericolosi turbamenti. Per questo con il già ricordato Concilio di Nicea del 325 l’imperatore condannò ufficialmente l’arianesimo e al simbolo ariano fu contrapposto il cosiddetto simbolo niceno, ovverosia il Credo.

Tale Credo tuttavia, nonostante le speranze dell’imperatore, non pose fine alla crisi e l’arianesimo non scomparve, pur se rimase relegato nella clan destinità. Il Concilio anzi segnò l’inizio di un periodo di controversie prolungatesi sino alla morte di Costanzo (361) e anche oltre. Ci volle così un altro ventennio prima che la fede nicena venisse accettata appieno.

Solo con il Concilio costantinopolitano del 381 fu pertanto debellato l’arianesimo, mentre venne ripristinato il precedente Credo niceno, nuovamente approvato da centocinquanta padri. L’assise poi adottò subito un atteggiamento avverso a chi volle negare la divinità dello Spirito Santo, di cui si stabilì invece la processione dal Padre e dal Figlio, che con il Padre e il Figlio era adorato e aveva parlato per mezzo dei profeti.

Dopo questo sinodo il problema dell’ortodossia si spostò sul rapporto esistente fra l’umanità e la divinità del Cristo; nacquero quindi divisioni sul modo d’intendere l’incarnazione. Lo scontro placatosi a Costantinopoli si ripeté poi con violenza fra Nestorio e Cirillo, richiedendo l’intervento del papa che convocò un’assise a Roma (agosto 430), in cui ingiunse ufficialmente a Nestorio di abiurare i propri insegnamenti nello spazio di dieci giorni, pena la scomunica. Il 19 novembre 430, per venire incontro alle insistenze di Nestorio, Teodosio II indisse un concilio ecumenico da tenersi in Efeso per la Pentecoste dell’anno successivo.

Profittando del ritardo dei vescovi orientali, Cirillo il 22 giugno dello stesso anno convocò poi un sinodo di sessanta vescovi da lui stesso presieduto, nel cui corso Nestorio venne scomunicato e deposto e, allorché i legati papali giunsero ad Efeso il 10 luglio, riconfermarono la rigorosa sentenza. Più tardi, l’8 novembre 448, fu scomunicata l’eresia di Eutiche che rifiutò l’ipotesi della duplice natura del Cristo (eresia monofisita) e sostenne per il Figlio di Dio la sola natura divina, pur riconoscendo che Gesù, nato dalla Vergine, era vero Dio e vero uomo.

Per la risoluzione dei problemi dottrinali importante divenne poi l’impero di Marciano (450-457), un militare che onde assicurare l’unità della Chiesa dispose nel 451 un Concilio a Calcedonia, cui parteciparono più di cinquecento vescovi, mentre il papa fu rappresentato dai suoi legati. Qui vennero ripresi il Credo niceno e il costantinopolitano, si condannò l’eresia monofisita e si raggiunse un grande successo unitario, nonostante anche in quell’occasione non si conseguisse la pace completa e anzi rimanesse viva una reazione ostile, durata ancora per molti secoli.

Altra eresia diffusasi nel V secolo fu la pelagiana, il cui nome derivò da Pelagio (454-527), monaco di un cenobio romano, rifugiatosi in Africa dopo l’assalto alariciano all’Urbe del 410, il quale professò un cristianesimo rigorista e interiore di ispirazione paolina. Insieme al suo seguace Celestino, Pelagio espresse la sua fiducia nell’uomo volto a raggiungere la salvezza solo tramite la forza della buona volontà, quindi negò il peccato originale, limitando anche fortemente l’influenza della Chiesa. La più sostanziosa contestazione ai Pelagiani fu quella di Agostino che contro quel monaco elaborò la dottrina del peccato e della grazia.

Per ottenere poi il ritorno dell’Egitto e dei Monofisiti ivi residenti all’unità della Chiesa, l’imperatore Zenone a sua volta nel 482 pubblicò l’Enotikòn o editto di Unione, con cui fu composto il conflitto fra Ortodossi e Monofisiti con il tentativo di introdurre pure prerogative di carattere particolare per il vescovo di Roma. Da parte sua Giustiniano, sempre indottovi da uno spirito unionista, cercò di assumere una via mediana: ossia senza condannare le risoluzioni di Calcedonia, cercò di rimuovere l’eccessiva autorità di quel concilio, condannando con un editto i cosiddetti “Tre capitoli”. Ma la Chiesa latina si ribellò al tentativo imperiale e papa Vigilio in questa particolare evenienza assunse un atteggiamento non chiaro, in parte quasi favorevole ai Monofisiti, anche incoraggiato in ciò dall’imperatrice Teodora, legata a taluni circoli capeggiati da questi ultimi.

La lotta con Roma fu allora inevitabile ma l’Occidente si mantenne fortemente cattolico, mentre l’Oriente presentò una serie di sottili distinguo che lo posero per la prima volta su una posizione articolata e quasi autonoma dalla romana. Giustiniano invitò allora a Costantinopoli papa Vigilio (537-554). Il pontefice cercò di resistere all’imperatore e solo quando vi fu costretto con la violenza, finì per accettare l’Editto. Fu questo pertanto un drammatico preludio a future, più radicali divisioni fra cattolici e ortodossi.

Nel VII secolo l’imperatore Eraclio, tramite il patriarca Sergio di Costantinopoli, propose, a sua volta, una nuova dottrina, il monotelismo in base al quale, pur ammettendo nel Cristo una duplice natura, si ravvisò in lui un’unica azione – monoenergeia – e di conseguenza un’unica volontà. Anche su tal teoria la Chiesa romana manifestò all’inizio varie incertezze, ma dopo la morte dell’imperatore la condannò come eretica. Comunque l’Oriente promulgò nel 638 l’esposizione della fede – ektèsis – preparata dall’imperatore affinché fosse accolta dai patriarchi. Soprattutto Costante II poi volle imporre universalmente il suo typos monotelita e per questo trascinò a Costantinopoli papa Martino I, ivi processato, torturato e condannato a morte – l’esecuzione fu poi sospesa – quindi costretto all’esilio, onde indurlo ad accettare una visione del cristianesimo che Roma rifiutò.

Il dissidio romano-bizantino continuò fino a che il Concilio di Costantinopoli del 681 non proclamò la duplice volontà del Cristo e la subordinazione di quella umana alla divina. In seguito il Concilio trullano del 692 cercò nuovamente di imporre a Roma i dettami della Chiesa bizantina, ma papa Sergio i resisté e il popolo di Roma, sollevatosi, scacciò dall’Urbe il protospatario Zaccaria.

L’asprezza di tali contese fu dunque grande e sembrò indicare nella tutela dell’ortodossia un compito in realtà troppo gravoso per un Impero travagliato da problemi di difesa militare e di ordine interno.

Eppure, a guardar bene, fu proprio quel compito di difesa che conferì al potere sovrano piena autorità nell’ambito di una società sensibile alle interpretazioni dottrinarie della fede. E se a Costantinopoli – come fu affermato – si discusse di teologia anche nelle piazze e nelle botteghe, tutto ciò consacrò il carattere politicamente supremo e il significato universale di quell’Impero.

Nonostante i contrastanti atteggiamenti assunti nei suoi riguardi nel corso dei primi secoli, la sede apostolica romana ebbe una serie di importanti riconoscimenti. Papa Milziade (311-314) fu chiamato a giudicare i Donatisti; Giulio (337-352) intervenne sull’arianesimo, Damaso (366-384), poi Innocenzo (401-417), Zosimo (417-418) e Celestino i (422-432) presero posizione contro Pelagio e imposero la Chiesa romana sull’africana. Leone Magno, il vincitore di Attila, fece valere le sue decisioni su Calcedonia, aprendo per primo la strada percorsa dopo di lui con maggior sicurezza da Gregorio Magno.

Leone infatti volle inizialmente conferire precise prerogative ai vescovi che, dopo l’approvazione della piattaforma conciliare calcedoniese, ebbero per la prima volta il potere di raccogliere proprietà e lasciti testamentari affidati da fedeli facoltosi alla Chiesa. Nella stessa sede si affermò il principio del celibato ecclesiastico, soprattutto in Occidente, mentre i vescovi ancora eletti dal popolo dovettero ricevere una conferma da un metropolitano ed essere consacrati da almeno tre presuli della provincia in cui avrebbero operato in qualità di nuovi eletti.

In pratica il vescovo di Alessandria assunse poteri sull’Egitto, sulla Pentapoli orientale e conservò diritti pure su Antiochia. Speciale funzione onorifica fu conferita anche al presule di Gerusalemme. A Costantinopoli venne confermata invece l’organizzazione dei patriarcati di Alessandria, Antiochia, Efeso, Cesarea ed Eraclea, e inoltre alla nuova capitale fu dato anche il diritto di consacrare i metropoliti del Ponto, dell’Asia e della Tracia.

A metà del V secolo invece Roma, in virtù della istituzione apostolica scaturita direttamente da Pietro e da Paolo, specialmente per merito di Leone Magno, detenne una posizione di particolare prestigio nell’ambito della penisola italiana e dell’intero Occidente. Cominciò così a delinearsi una geografia ecclesiastica, foriera di futuri equilibri e inevitabili divisioni.

Sempre nel V secolo la Chiesa cercò di consolidare vigenti consuetudini: anzitutto la penitenza venne ancora effettuata dai fedeli che confessarono in pubblico i loro peccati ma cominciò a farsi strada il ruolo dei penitenzieri autorizzati a raccogliere privatamente le prime confessioni dei peccatori. Per diventare vescovi poi non fu più sufficiente essere soltanto catecumeni, ma fu necessario avere una certa età ed esperienza ed essere sottoposti a un cursus propedeutico.

Inoltre, tra la fine del V e la prima metà del VI secolo, venne regolata la questione relativa alla data della Pasqua mantenuta come festa mobile, messa in rapporto con l’equinozio di primavera e altri complessi calcoli cronologici. La festività del Natale invece fu collocata il 25 dicembre e rimase distinta dall’Epifania fissata al 6 gennaio.

Più in particolare, per quanto concerne il calcolo pasquale e le dotte e talora sottili polemiche che lo accompagnarono, non va dimenticato il nome di Dionigi il Piccolo, originario della Dacia e contemporaneo di Cassiodoro (490-540?), di cui fu amico, il quale introdusse il computus che servì anche a precisare la data della nascita del Cristo e a fondare il nuovo calendario. Infatti per altri cinquecento anni dopo la nascita di Cristo, il tempo fu calcolato secondo i vecchi computi e se noi, pur con qualche sfasatura, siamo ormai entrati nel terzo millennio lo dobbiamo a questo straordinario, sapientissimo monaco.

La Chiesa poi, per esercitare la sua autorità assistenziale, cominciò nel V secolo a programmare l’organizzazione delle diaconie e delle domuscultae, una sorta di fattorie modello donde i prodotti agricoli furono avviati sulle mense ecclesiastiche e servirono per sovvenire la povertà più o meno nascosta; inoltre si crearono i primi ospitia: i quali sorsero in Terra Santa, a Cesarea – la cosiddetta Basiliade – e a Roma ove sorsero anche le grandi basiliche paleocristiane dedicate, oltre che al Cristo, ai santi martiri e alla Vergine teotikòs o deipara, oggetto di sempre più consistente culto.

Comune divenne altresì, soprattutto in Occidente, la fede nell’intercessione dei santi, l’attesa del miracolo e il culto delle reliquie. Alle feste pagane si sostituirono gradualmente le cristiane: al posto di quelle dedicate al solstizio d’inverno si pose il Natale, mentre alla licenziosa festa dei Lupercali, ancora in vigore ai tempi di papa Gelasio (492-496), subentrò la cerimonia cristiana della purificazione. Più tardi, invece, si solennizzò l’Epifania, il 6 gennaio, e seguì di poco la celebrazione del primo Anno Santo del 1300. Il 7 gennaio poi si onorarono i Santi Innocentini.

Ma i momenti di incontro religioso e, ad un tempo festoso, in Roma furono numerosi. Anzitutto vanno menzionati i pellegrinaggi moltiplicatisi durante tutto il Medioevo e la cui meta fu vicina e si raggiunse agevolmente quando interessarono templi fra loro contermini. Quando invece ci si recò a San Pietro e San Paolo o a San Giovanni si impiegarono ore di cammino a piedi. Tra i più significativi fra questi cortei vi fu quello denominato delle sette chiese, in quanto comprese sette fra le principali basiliche romane: San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Lorenzo fuori le mura, San Paolo, San Clemente, San Vitale in Via Longa (oggi via Nazionale), per concludersi a San Pietro.

Se difficile e lungo fu il percorso di Germani, Angli, Slavi, Normanni alla ricerca di un contatto con Roma e con quanto rimase del vecchio Impero, ancor più complesso e inizialmente conflittuale si manifestò il rapporto di quelle popolazioni con la Chiesa. E tuttavia affascinante e prodigioso apparve il successo con cui si promosse e realizzò da parte dei pontefici e delle strutture ecclesiastiche una gigantesca opera di evangelizzazione, volta a costituire il primo passo verso la romanizzazione e l’acquisizione della tradizione latina anche fra gruppi e genti da questa stessa tradizione del tutto difformi.

Difatti, erede di Roma, la Chiesa finì, dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, per sostituirlo nelle sue tendenze universali e nella sua tradizionale capacità di adattamento. Così grazie ai papi e alle loro azioni diminuì vistosamente la distanza fra vincitori e vinti e il latino, la lingua di Roma e dei vicari di Cristo, divenne pure appannaggio dei Visigoti, Ostrogoti, Vandali, Longobardi, Britanni.

Dall’estremo Occidente, in occasione del Concilio di Arles del 314 pervennero dalla Britannia già tre vescovi e alla fine del IV secolo di lìgiunse a Roma l’eretico Pelagio. Papa Celestino provvide poi alla prima, sebbene non del tutto fortunata, evangelizzazione della Britannia con la missione dei vescovi Germano di Auxerre e Lupo di Troyes. Assai più felice invece la conversione dell’Irlanda, cominciata nel 432 da san Patrizio e diffusasi lentamente ma con sicurezza e indirizzi autonomi – per esempio quello monastico-celtico lì fiorente prima che si affermasse nel continente – sino a che l’isola non cominciò a trasferire la sua provvida esperienza religiosa e culturale presso altri più o meno vicini popoli.

A metà del IV secolo il vescovo Vulfila, autore della prima completa versione della Bibbia e predicatore presso le terre barbariche germaniche sino al 483, fu il principale artefice della conversione di Visigoti, Ostrogoti, Vandali e l’arianesimo, sconfitto entro i confini dell’Impero, divenne appannaggio di quei barbari attratti da una visione del cristianesimo più rozza ma forse per questo maggiormente adatta alle loro menti.

I Vandali ariani portarono così la loro fede in Spagna e persino in Africa ove perseguitarono i cattolici lì assai numerosi e organizzati, sino alla riconquista giustinianea. Ariani furono Visigoti e Burgundi, e pure gli Ostrogoti di Teoderico il quale, anche confidando, agli inizi almeno, in consiglieri come Cassiodoro e Boezio, non perseguitò l’elemento cattolico con cui seppe invece costruire un fertile contatto. Al contrario in più casi furono i cattolici italiani, per esempio nelle terre del Centro-Sud, forse anche a Napoli, in terra ciociara, e nella stessa Roma, ad avvicinarsi in qualche modo all’arianesimo ostrogoto, poi longobardo.

Comunque, dopo questa prima acquisizione parziale, il cattolicesimo, tra la fine del V e il VI secolo conobbe una stagione di grandi e duraturi successi. Infatti intorno al Natale del 496 Clodoveo, re dei Franchi, anche indottovi dalla consorte, la regina Clotilde, ricevette il battesimo cattolico e il suo popolo ne seguì l’esempio. Le vittorie di Clodoveo divennero quindi da allora in poi successi della Chiesa; e per esempio lo divennero quelle contro l’ariano Teoderico, negli ultimi anni del suo regno divenuto persecutore dei cattolici. Sensibile nella suddetta Chiesa fu l’influenza dei re che procedettero all’elezione dei vescovi considerati dai sovrani, come accadde nell’VIII secolo con Carlo Martello, quasi alla pari con i conti e che alla stregua di questi ultimi ricevettero terre a titolo di “precario”.

L’esempio dei Franchi fu presto seguito dai Burgundi, mentre anche i re visigoti, di religione ariana, in Spagna cessarono di perseguitare la Chiesa cattolica e sin dal 534 Toledo diventò sede metropolitana e molti Visigoti, i sovrani anzitutto, sposatisi con principesse franche, risolsero di scegliere la confessione romana.

Il piccolo regno svevo di Galizia preferì anch’esso il cattolicesimo, seguendo la predicazione e l’insegnamento di san Martino di Braga. Alla fine del VI secolo si ebbe poi l’unificazione religiosa del mondo iberico ad opera del sovrano Recaredo e la Chiesa visigota si organizzò secondo una gerarchia nazionale, la cui importanza oltre che religiosa fu legislativa e si esplicò nei famosi Concili toledani, i cui vescovi presiedettero all’elezione degli altri presuli da loro consacrati e cattolica fu la cultura visigota – si pensi a Isidoro di Siviglia – sino all’arrivo degli Arabi.

Alla fine del VI secolo nelle Gallie sopravvenne un altro elemento di cristianizzazione proveniente dall’isola irlandese le cui fondazioni monastico-celtiche ormai fiorenti si trasferirono sul continente: Luxeuil, Corbie, San Gallo, Nonantola, Bobbio – riconosciuta da Onorio i nel 628 – Lorche, Reichenau, Fulda, diventarono splendide istituzioni volte a propagare in intere regioni la religione di Cristo e a stabilire con intere popolazioni un contatto oltre che di carattere religioso, anche sociale e culturale.

Ricordando le differenti fondazioni monastiche, si deve anzitutto porre l’accento su quelle orientali atteggiate secondo ideali ascetici e contemplativi di fuga dal mondo , realizzatisi in particolare nell’eremitismo. I monaci anacoreti popolarono i deserti della Tebaide e, fra i più noti, menzioneremo sant’Antonio; san Pacomio e san Basilio avviarono poi una prima pratica anacoretica su esperienze di vita comune–cenobitica – tesa a sottrarre i discepoli e i confratelli alle insidie dell’ozio forzato.

Il monachesimo occidentale ebbe il suo fondatore in Benedetto da Norcia (480-543), dapprima ritiratosi a Subiaco, poi attorno al 529 stabilitosi a Cassino ove costruì l’abbazia annoverata tra i centri più importanti della civiltà cristiana durante l’età di mezzo.

A Montecassino infatti fu emanata la Regola presto consolidatasi come la norma destinata a guidare la vita di tutto il monachesimo occidentale. La Regola costituì la summa della saggezza romana e del solidarismo cristiano; essa si basò sulla rinuncia dei beni nonché sulla preghiera e sull’esercizio di concrete attività lavorative, cosicché il suo spirito si consolidò nell’espressione ora et labora.

Fondato su questi princìpi, nacque pertanto l’Ordine benedettino, potente e numeroso, volto a portare la parola del Vangelo e l’impegno del fondatore dell’Ordine in tutto l’Occidente, ove si rivelò presto come strumento di redenzione spirituale e allo stesso tempo di elevazione sociale, impegnato come fu al potenziamento del lavoro nei campi e alla bonifica delle terre troppo a lungo abbandonate e trascurate.

Del tutto significativa fu l’azione ecclesiastico-politica svolta per lo sviluppo della Chiesa e della cristianità dal pontefice Gregorio Magno (590-604), il quale resse il governo papale nel periodo peggiore dell’invasione longobarda nella penisola italiana. Egli pertanto cominciò a proteggere le moltitudini cattoliche dagli avversari ariani, non riuscendo peraltro a giovarsi dell’aiuto di Bisanzio che, sulle orme dei suoi patriarchi consideratisi ecumenici come Giovanni detto il Digiunatore, apparve già in procinto di distaccarsi da Roma.

Gregorio seppe anzitutto organizzare in maniera più salda la Chiesa, potenziando le diocesi rette da vescovi ormai dotati di poteri religiosi e civili in qualche misura autonomi. In seguito procedette a una politica di conversione al cattolicesimo dei popoli barbarici.

Durante il suo pontificato, anche con l’aiuto della regina Teodolinda, cattolica, i Longobardi, con Agilulfo, cominciarono con la loro conversione al cristianesimo ad entrare nell’orbita della civiltà occidentale. Fortunata fu altresì la missione evangelizzatrice di sant’Agostino di Canterbury, iniziatasi attorno al 597 presso i popoli della Britannia anglosassone e destinata a fondare ivi stabilmente la Chiesa insulare, che strettamente legata a Roma, in prosieguo di tempo, diffuse per tutta Europa la cultura – si pensi all’opera e alla gigantesca azione svolta dal venerabile Beda – donde prese corpo la rinascita dell’età carolingia.

Con il VII -VIII secolo pertanto – a Gregorio II (715-731) e a Gregorio III (731-741) spettò in buona sostanza la cristianizzazione della Germania realizzata da san Bonifacio, il quale contribuì anche a riformare la chiesa franca – si può dire completato il processo di evangelizzazione della maggior parte dell’Occidente e anche il controverso rapporto stabilitosi fra Roma e Bisanzio sembrò ritrovare una via meno accidentata, in certo modo ancora sostanzialmente unitaria.

Dopo che, nel 717-718, Leone III l’Isaurico sotto le mura di Costantinopoli riuscì a battere l’impeto delle truppe saracene e risollevò lo scosso prestigio dell’autorità bizantina, scoppiò con Roma una nuova, grave controversia sul culto delle immagini. Leone infatti nel 726 emanò un decreto inteso a proibire il culto delle immagini sacre di cui fu imposta la distruzione. La lotta iconoclastica provocò grave divisione fra Roma e Bisanzio, soprattutto quando con il Concilio di Hieria del 753, Costantino V proclamò il suddetto culto idolatrico e contrario ai dettami della dottrina cristiana. In tal modo si consolidarono ancor più le basi dello scisma costantinopolitano consumatosi poi nell’XI secolo, i cui precedenti riscontrabili sin dalla metà dell’VIII , disposero Roma a voltare le spalle all’Impero, dando con ciò maggior peso alla presenza longobarda in Italia e predisponendo i motivi del futuro incontro fra papato e Carolingi e la creazione del Sacro romano Impero.

Nell’esporre la difficile situazione creatasi fra Occidente cattolico e Oriente volto verso una forma di sempre più separata ortodossia, si deve pur tenere conto che i cristiani delle province imperiali, soprattutto quelli confinanti con le zone di influenza islamica, dovettero sostenere, dal VII secolo in poi, il confronto difficile e continuo con la religione maomettana, rigidamente monoteista e fondata su forme di liturgia altamente spirituali, quindi propensa a considerare la divinità come un fenomeno arcano, invisibile, e irrappresentabile con qualsiasi forma figurativa o pittorica improponibile per qualsivoglia fine iconografico.

Proprio questo confronto quindi fece sentire vivo il bisogno di respingere alcune forme di religiosità che potevano adombrare larvati ritorni al politeismo, come quelle relative al culto dei santi, alla venerazione delle loro immagini in realtà parse talmente ambigue da mettere in forse il rigoroso fondamento monoteista del cristianesimo. La risposta bizantina alla critica maomettana fu pertanto l’iconoclastia che tuttavia si rivelò rimedio peggiore del male, in quanto non salvò il cristianesimo orientale dall’arduo confronto con la religione di Maometto e lo pose in condizioni di progressiva separazione da Roma. Peraltro le terre del Medio Oriente asiatico e dell’Africa del Nord furono egualmente percorse e influenzate dal messaggio islamico che fece perdere al cristianesimo più di una posizione ivi guadagnata nei secoli precedenti.

Tuttavia, le perdite subite nel bacino mediterraneo di fronte all’avanzata dell’Islam furono compensate dalla conquista alla religione del Redentore di altre popolazioni che dall’VIII-IX secolo entrarono a far parte della vita continentale. Anscario predicò fra i Danesi, impiantando ivi le prime chiese e somministrando, dopo la pace di Chippenham dell’878, il battesimo anche al sovrano Guthrum. Ai confini della Germania la cristianizzazione degli Slavi si rivelò un caposaldo della politica ecclesiastica orientale. Nella penisola balcanica Boris i, re dei Bulgari, oscillò alquanto tra Roma e Costantinopoli finché quest’ultima prevalse.

Cirillo e Metodio poi svolsero opera di proselitismo fra i Moravi che Roma seppe tenere stretti a sé e la Germania e i Boemi inviarono i primi missionari fra i Magiari il cui re Stefano II , all’inizio del secondo millennio, nel 1001, ricevette il battesimo e il diadema benedetto dal papa Silvestro II , diadema che divenne la famosa corona di Santo Stefano. Pure Miesco, duca polacco, si convertì al cattolicesimo e poco dopo fu la volta della Russia, in zona ucraina e lituana, avviata a ritrovarsi maggiormente sotto l’influenza romana, mentre nelle terre del Nord essa restò sotto l’influsso bizantino.

A proposito dell’incontro fra i pontefici e i Franchi, sul quale ci siamo dianzi intrattenuti, dobbiamo dire che questi ultimi, proprio durante le vicende iconoclastiche e in presenza dell’arrogante politica longobarda, cominciarono ad apparire a Roma come la punta di diamante di una forza destinata da Dio a proteggere la Chiesa contro la minaccia barbarica.

Furono i Franchi pertanto a consentire sin dall’inizio la formazione di un dominio temporale dei papi. Così, avviata da Zaccaria (741-752), poi da Stefano II (752-757) e da Adriano i (772-795), tre fra i più grandi pontefici del Medioevo , si rafforzò la politica ecclesiastica volta a liberare Roma dai Longobardi per affidarla ai Franchi, politica fatta propria da re Carlo, che, nel giorno di Natale dell’800, coronato primo imperatore del Sacro romano Impero da Leone III (795-816), oltre a proteggere e a reintegrare il papa in dissenso con la nobiltà laica romana, affermò una salda istanza di cesaropapismo con cui si attestò che compito del vicario di Cristo era quello di pregare per la vittoria dell’imperatore, cui spettò la difesa integrale della Chiesa. Carlo poi domò e convertì i Sassoni e batté l’adozionismo spagnolo. Tutto questo mentre con il II Concilio di Nicea del 787 anche l’iconoclastia venne condannata.

Il nuovo Impero fu romano e germanico ma soprattutto cristiano e differì da quello di Augusto in quanto non si sovrappose a uno stato territoriale né ebbe un’amministrazione centralizzata e forse non fu neppure uno stato nel senso che noi diamo a questo termine.

Carlo dopo aver ricevuto la corona fu detto Magno, ma continuò a essere re dei vari regni che da lui dipendevano; aggiunse agli altri il nome di imperatore e la nuova istituzione ebbe carattere politico-religioso, associò l’autorità sacerdotale alla politica per il consolidamento della fede cristiana, una completa difesa della Chiesa, la protezione del popolo cristiano. Chiesa e Impero non furono allora autorità distinte ma si combinarono per realizzare un preciso punto programmatico: la completa vittoria di Cristo e del suo popolo.

Con l’800 dunque l’affermazione del cattolicesimo e della Chiesa romana fu piena, mentre il capo del nuovo Impero contrapposto al bizantino, oltre a preoccuparsi delle strutture ecclesiastiche, promosse nelle scuole l’insegnamento dei testi sacri, del canto, della liturgia, della predicazione che presto fu effettuata in volgare; inoltre si prese cura del clero regolare e di quello secolare, dal momento che i canonici regolari avevano già avuto il loro riconoscimento operato dal vescovo di Metz, durante il regno di Pipino terminato con la morte del sovrano nel 768.

Con la morte di Carlo Magno (814) cominciò tuttavia a sfaldarsi la grande ma fragile compagine imperiale. Fra i successori Ludovico il Pio (814-840) ebbe ancora il concetto di unità dello stato che intese come civitas Dei identificata largamente con la Chiesa di cui l’Impero fu espressione politico-istituzionale.

Esecutore degli ordini divini si sentì anche Lotario i che con la Constitutio romana, pur mantenendo le vecchie autonomie, subordinò Roma e i territori pontifici all’alta sovranità imperiale, conferendosi il potere di vigilare sull’elezione del papa, le cui sanzioni vennero tuttavia ascoltate, tanto che Gregorio IV (827-844), condotto da Lotario (840-855) a Colmar, riuscì a convincere i vescovi ad abbandonare Ludovico il Pio. Con l’occasione Gregorio, su suggerimento del vescovo Agobardo di Lione, riaffermò la superiorità della spiritualis auctoritas su ogni altra mondana potestas.

L’aiuto dell’Impero però si rivelò inizialmente esile e incapace di esercitare una completa difesa della Chiesa, soprattutto allorché, verso la metà del IX secolo, durante il pontificato di Leone IV (847-855) essa venne minacciata direttamente degli Arabi che, stabilitisi presso la foce del Garigliano a centocinquanta chilometri dall’Urbe, nell’846 si spinsero sino a Roma ove sottoposero a saccheggio San Pietro e San Paolo esterne al circuito murario di Aureliano.

Papa Leone allora, onde proteggere la tomba del principe degli Apostoli, circondò la basilica costantiniana e il complesso della cosiddetta portica di San Pietro con la cinta delle mura ancora adesso denominate “leonine”. Leone IV e Sergio II (844-847) tentarono inoltre, ma senza successo, di rinsaldare l’unità imperiale sempre più compromessa.

Neppure Niccolò I (858-867) riuscì a evitare la spartizione dell’Impero. Questi fu forse il più grande pontefice del IX secolo ma non fu in grado di evitare una serie di complicazioni politiche legislative e pur morali, nate dalla pretesa di divorzio avanzata da Lotario II nei confronti della consorte Teuteberga, pretesa che il pontefice respinse, riaffermando in tal modo il potere di legiferare in materia dogmatica e canonica e confermando il prestigio della sede apostolica, nonché la sua superiorità sui re e i vescovi d’Occidente.

Niccolò poi nel Concilio romanodell’867 depose solennemente il patriarca costantinopolitano Fozio, eletto da Michele III al seggio patriarcale costantinopolitano al posto di Ignazio.

Adriano II (867-872) ristabilì Ignazio sul seggio costantinopolitano con l’assenso di Basilio il Macedone che nell’VIII Concilio ecumenico costantinopolitano dell’869-870 condannò definitivamente Fozio. Ma il successo romanofu di breve durata. La fine del IX e il X secolo infatti furono assai travagliati per la Chiesa sottoposta a pressioni e minacce senza pari.

Il X secolo, come si è detto, fu per la Chiesa romana assai agitato. Fin dal tempo di Stefano VI infatti nell’Urbe dominò la famiglia di Teofilatto, arbitro delle vicende papali e cittadine con la moglie Teodora – una delle “fiere” donne altomedievali talvolta impegnate nella politica e negli intrighi ad essa connessi – e dopo con la viziosa figlia Marozia. A causa dei raggiri di tal famiglia i papi furono di volta in volta eletti e deposti e talora uccisi: Marozia ad esempio fece assassinare Giovanni X (914-928), pontefice cui si dovette la cacciata degli Arabi dal Garigliano (915), e ottenne di intronizzare sul soglio di Pietro il proprio figlio Giovanni XI (931-936), un adolescente privo di ogni merito.

A Marozia si volse poi Ugo di Provenza, proponendosi di sposarla, allo scopo di impadronirsi di Roma e del papato. Le nozze ebbero luogo nel 932. Ma mentre erano in corso le solenni cerimonie degli sponsali in Castel Sant’Angelo, il figlio di Marozia, Alberico II , sollevato il popolo romanocontro il patrigno Ugo costrinse il sovrano alla fuga e imprigionò la madre, quindi per un ventennio assunse il potere in Roma (932-954) con il titolo di Senator et princeps Romanorum, diventando arbitro persino delle vicende papali.

Ma proprio Alberico che pure chiamò presso la città degli apostoli un monaco di santa vita come Oddone di Cluny, volle fare del pontificato una sorta di cappellania di famiglia, facendo proclamare pontefice il proprio figlio Giovanni XII (955-963).

Tale papa poi ebbe la ventura di incoronare in Roma l’imperatore Ottone i di Germania, il 2 febbraio 962. Ma poiché Ottone, tramontato definitivamente l’Impero carolingio, con l’inaugurazione dell’Imperium Teutonicum confermò le costituzioni lotariane tese a comprimere il potere del pontefice, Giovanni si mise a tramare contro di lui; il sovrano, avvedutosi di tali insani e bellicosi propositi, depose quel vicario di Cristo e rientrò nell’Urbe dove, da quel momento, si approfondì il contrasto fra l’imperatore e l’aristocrazia, a capo della quale si pose Giovanni Crescenzio, figlio di Teodora Minore, la cui casata considerava la cattedra di Pietro quasi come proprio appannaggio.

Ottone II fece nominare pontefice un suo uomo di fiducia, Pietro di Pavia – il primo papa che istituì ufficialmente la prassi di mutare il proprio nome all’atto dell’ascesa al sacro soglio di Pietro – il quale fu denominato Giovanni XIV ; tuttavia neppure l’espediente di sottrarre il seggio papale alle intriganti famiglie dell’Urbe contribuì a risanare la crisi in cui nel X secolo versò la Chiesa, tanto che sotto Giovanni XV (985-986) Arnolfo di Orléans, nel corso del Concilio di Verzy del 991, proclamò che l’indegnità morale dei papi rendeva del tutto priva di giustificazione ecclesiologica e morale la pretesa della Chiesa di Roma di considerarsi al di sopra delle altre.

La situazione non subì miglioramento durante il governo dei pontefici fatti eleggere da Ottone III , ossia Gregorio V (996-999) che dovette battersi contro l’antipapa Giovanni XVI e Silvestro II , il famoso Gerberto di Aurillac, uomo intelligente e preparato, precettore del giovanissimo imperatore (999-1003), il quale, malvisto dai Romani per il suo stretto collegamento con quest’ultimo, fu insieme con Ottone praticamente cacciato dall’Urbe.

I papi successivi fino a Sergio IV (1009-1012) risultarono scelti dalla nobiltà romana e furono di volta in volta appartenenti ai conti di Tuscolo o ai Crescenziani. Fra i candidati delle due fazioni divenne arbitro Enrico II di Germania che elesse Benedetto VIII (1012-1024) e ottenne da questi la corona imperiale il 14 febbraio 1014.

Come Ottone I, Enrico II , uno dei fautori della riforma ecclesiastica avviata per impulso imperiale, noto per le sue elevate doti morali che dopo la morte lo fecero ritenere santo, cercò di imporre la riforma della Chiesa e dei corrotti costumi ecclesiastici e istituì durante il suo regno numerosi monasteri in Germania e in altre zone dell’Occidente.

Nel 1018 con Benedetto VIII il sovrano sassone indisse un Concilio a Pavia, nell’intento di moralizzare il clero regolare e secolare.

Papa e imperatore tuttavia morirono entrambi nel 1024, nel pieno della loro fattiva azione. Benedetto fu sostituito dal fratello romano, senatore dei Romani , un laico non privo di doti diplomatiche, sebbene non avesse un’adeguata statura morale, divenuto pontefice con il nome di Giovanni XIX, il quale incoronò imperatore Corrado II il Salico.

A Giovanni XIX successe sul soglio di Pietro il nipote Teofilatto, della casata dei Tuscolani al pari di Benedetto IX (1032-1044) che rappresentò uno dei peggiori pontefici della storia, privo di senso morale e disonesto; tanto che minacciato e ricattato dall’antipapa Silvestro III (1033-1044) della famiglia crescenziana, egli finì per abdicare, dopo aver intascato una considerevole somma di danaro.

Anche Silvestro III fu però noto per i suoi non edificanti costumi, tanto che presso ambienti monastici romani, rafforzatisi attorno alla chiesa di San Giovanni a Porta Latina e favorevoli a una riforma della Chiesa effettuata nell’ambito ecclesiastico e non per impulso esterno dell’imperatore, si avanzò una terza candidatura pontificale: ovvero quella di Giovanni Graziano, arciprete della suddetta chiesa di San Giovanni a Porta Latina, il quale ascese al soglio di Pietro con il nome di Gregorio VI (1044-1046).

Con tre pontefici eletti in modo simoniaco, due dei quali di statura morale del tutto inadeguata alla più alta carica della cristianità, e un terzo esponente probo ma ingenuamente caduto anch’egli nel peccato di simonia, la Chiesa toccò il livello più basso e uno stato di inimmaginabile confusione allorché fu eletto imperatore Enrico III (1039-1056).

Il nuovo sovrano, conscio della necessità di intervenire drasticamente sulla grave situazione, indisse un sinodo a Sutri per ovviare al grave scisma. Procedette pertanto alla deposizione dei tre pontefici, e patrocinò l’elezione di un nuovo vescovo di Roma, Clemente II, Suidgero di Bamberga (1046-1047), estraneo ai maneggi della politica romana, il quale conferì la corona imperiale a Corrado, in occasione del Natale del 1046.

Fu questo il primo passo per la riforma ecclesiastica, nata tutto sommato dalla rigeneratrice volontà imperiale.

Se la crisi del cattolicesimo romanoe del pontificato fra il IX e la prima metà dell’XI secolo apparve notevole e di difficile superamento, non meno grave si rivelò la situazione delle campagne, ove sensibile si palesò l’effetto del feudalesimo. Nell’elezione del vescovo infatti sempre minore apparve la partecipazione popolare, mentre i presuli assunsero sempre più l’aspetto di feudatari assai simili ai laici alla cui influenza furono sottoposti.

Nelle campagne soprattutto sorsero le chiese private poste alla mercé dei nobili, nelle quali gli uffici ecclesiastici furono spesso venduti al migliore offerente. Il clero apparve afflitto da gravi disordini morali condensabili soprattutto in due aspetti, la simonia e il nicolaismo.

La simoniaca heresis – così la definì fra gli altri san Pier Damiani, in ricordo anche di Simon Mago che, come riportano gli Atti degli Apostoli , avrebbe voluto acquistare per danaro dagli Apostoli Pietro e Giovanni la virtù di trasmettere lo Spirito Santo –, un peccato considerabile una vera piaga della società ecclesiastica di quei tempi, fu determinata dall’intento di considerare i beni della Chiesa come propri e quindi da vendere e comprare a piacimento del clero e dei suoi familiari, che vi lucrarono sopra vistosi interessi.

Il nicolaismo invece stette a indicare il clero concubinario o incontinente che, in certe diocesi, rappresentò, come disse Raterio di Verona, quasi la maggioranza.

Pure se nel complesso la vita ecclesiastica si trovò in una sensibile crisi, già verso la fine del X secolo e poi nel successivo, si manifestarono i primi bagliori di una luce di rinascita.

In Italia, ove la decadenza ecclesiale assunse aspetti preoccupanti, nacquero i monasteri greci di San Nilo in Calabria e, poco dopo il Mille, risorse l’ascetismo anacoretico in Fonte Avellana, con le fondazioni eremitiche di san Romualdo, da una delle quali, Camaldoli, derivò in seguito il nuovo Ordine camaldolese. Con Vallombrosa, fondata sugli stessi criteri da san Giovanni Gualberto, da cui derivano i vallombrosani , e con la badia di Cava, sorta fra la fine del X e i primi anni dell’XI secolo, meglio nota come Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, si ebbero nuove esemplari abbazie. Nel 910 con la fondazione di Cluny, si aprì un nuovo significativo momento di riforma del potente Ordine benedettino, destinato a influire ancor più sulla ripresa spirituale dell’Occidente.

Anche la vita culturale, sebbene in crisi, non si spense completamente. Agobardo di Lione, Incmaro di Reims, Raterio di Verona, Ratramno di Corbie, Rabano Mauro con la controversia sulla presenza di Cristo nell’Eucarestia, che poi, mutatis mutandis, ritroveremo nell’eresia di Berengario di Tours, segnarono pagine significative della cultura medievale. Pure nel campo del pensiero teologico e della ricerca scientifica Scoto Eriugena e Gerberto di Aurillac – Silvestro II – rappresentarono momenti di indubbia conquista di nuove tappe del sapere nonché di mantenimento di elementi fondamentali della cultura classica. Il diritto romano, raccomandato da Leone IV a Lotario, fu pur riconosciuto come diritto territoriale di Roma dall’imperatore Corrado II . Ad esso attinsero poi le prime collezioni canoniche divenute più numerose alla fine del secolo XI.

L’instabile vita politica, dopo la fine dell’Impero carolingio, contribuì poi vieppiù a rivolgere i fedeli verso la Chiesa che rimase presenza vigile e insostituibile, da secoli indotta a svolgere, soprattutto verso la massa dei più poveri una funzione di supplenza nei riguardi di uno stato che non c’era o che, se esistente, si rivelò fragile e precario.

Con l’allontanamento di Gregorio VI,l’elezione di Clemente II e l’impero di Enrico III , si può dare inizio certo alla riforma della Chiesa divenuta però effettiva, allorché si palesò l’opportunità di svincolare il papato e la sua gerarchia da ogni legame laico, anche e soprattutto imperiale. I pontefici ritennero allora necessario abrogare l’investitura dei vescovi-conti che per mano imperiale o di altri sovrani, pure in zona non imperiale, ricevevano il baculum e l’anulum, ovvero il pastorale e l’anello.

Anche l’elezione del papa designato allora in Roma per clerum et populum – ma il populum finì per essere largamente rappresentato dal patricius romanorum cui spettava la prima designazione, ossia dagli imperatori che detennero il patriziato, cosicché Carlo Magno, Ottone i, Ottone III , Enrico III divennero veri e propri arbitri dell’elezione papale – dovette essere sottratta all’influenza laica e dei sovrani, per venire interamente ricondotta al suo intimo e totale significato religioso.

Le prime esigenze di rinnovamento trovarono espressione in papa Leone IX e in personaggi come Pier Damiani, Umberto di Silvacandida, Federico di Lorena, Bonizone da Sutri, ultimo ma il più importante Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII , tutti affacciatisi in quegli anni alla vita della Chiesa e impegnati a sostenere le ragioni di Roma in ambito interno e soprattutto esterno: sarà infatti durante il pontificato di Leone IX (1049-1054) e durante quello di Vittore II (1055-1057) che Michele Cerulario, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, con Leone arcivescovo di Ochrida, riprese con più violenza le accuse contro la Chiesa latina per l’aggiunta del filioque nel Credo e per numerose, ulteriori osservanze, di cui la più consistente fu quella degli azzimi , relativa alla scelta del pane non fermentato da adoperare per la consacrazione della particola.

Va aggiunto in proposito che Michele lanciò una doppia accusa a Roma, unendo a quella relativa agli azzimi l’altra con cui si bollarono gli esponenti del clero occidentale, a suo avviso, erroneamente disposti a radersi la barba con eccessiva accuratezza e a vestirsi con un’eleganza non consona ai ministri di Dio. La confusione fra le due accuse e la loro denominazione, come pare, dovrebbero poi aver introdotto in italiano l’aggettivo azzimato.

Leone IX da parte sua, colpito dalla vis polemica degli ortodossi, protestò con vigore per sostenere i diritti della Santa Sede e inviò una bolla di scomunica che i legati papali deposero sull’altare della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli il 15 luglio 1054 – è straordinario il fatto che il giorno dell’ufficializzazione dell’anatema lo stesso pontefice venisse a morte, cosa ignorata dai suoi ambasciatori stessi – bolla alla quale Michele Cerulario rispose con un decreto di interdetto contro il pontefice romano, decreto che cinque giorni dopo la scomparsa di Leone IX sanzionò la mai più ricomposta separazione fra la Chiesa orientale e la latina.

Dopo il decesso di Leone, la riforma fu avviata da Stefano IX , da Niccolò II e da Alessandro II . Niccolò II in particolare fu importante; al Concilio da lui indetto nel 1059 si dovette infatti il decretum che regolò l’elezione pontificia, quasi interamente ricondotta nelle mani dei cardinali e del conclave, allora ordinato secondo princìpi in larga parte ancora oggi in vigore.

Non sarà male qui ricordare che i cardinali erano e sono ancora oggi i rettori titolari delle principali chiese romane, ragion per cui vennero detti cardines Ecclesiae. In particolare i titolari dei vescovati più vicini a Roma, dipendenti dall’Urbe e per ciò denominati suburbicarii, vennero chiamati cardinali vescovi; i titolari delle chiese cittadine furono invece detti cardinali preti mentre i rettori delle diaconie, ovvero delle organizzazioni economico-sociali sin dai primi secoli predisposte dalla Chiesa di Roma per sovvenire alle esigenze della popolazione indigente, delle chiese cittadine e in qualche modo alle necessità di tutte le diocesi cristiane, presero il nome di cardinali diaconi. I Cardinalati vescovili furono, e sono ancora, Ostia e Velletri, il cui detentore diviene decano del Sacro Collegio, Albano, Tuscolo, Palestrina, Porto e Santa Rufina, Sabina e Poggio Mirteto e Silva-Candida. Fra i cardinali preti si ricordano quelli di Santa Sabina, San Marco e Santa Maria in Trastevere. Le chiese titolari di cardinalato furono dapprima venticinque, poi ventotto quindi progressivamente aumentarono ancora.

Le sedi di Cardinalato diaconale furono invece sette fra le quali si contarono Santa Maria in Portico, Santa Maria in Via Lata e Sant’Eustachio.

Con lo stesso pontificato la Chiesa si rafforzò, tramite i porporati, nelle parrocchie rurali o pievi (dal latino plebes), in quelle dei villaggi e in quelle cittadine, ovvero nei luoghi di culto sorti nei quartieri situati attorno alla cattedrale. I singoli vescovi vennero sottoposti ai loro metropoliti, mentre l’intervento papale nella loro scelta si fece sempre maggiore.

A questa estensione di poteri si aggiunse il moltiplicarsi delle funzioni e degli uffici della Curia romana. Oltre ai cardinali, si rafforzarono le congregazioni, la cancelleria papale e la datarìa; il camerlengo e l’ufficio della camera apostolica accentrarono nelle loro mani l’amministrazione finanziaria. Inoltre si avviò l’organizzazione della Sacra Rota.

All’affermazione vittoriosa del papato procedette di pari passo lo sviluppo del Diritto canonico, si glossarono le decretali e il diritto della Chiesa si contrappose a quello degli Stati, mentre in prosieguo di tempo i decretalisti e i canonisti interpretarono il Decreto di Graziano.

Alla morte di Niccolò II (1061) Gerardo conte di Galeria e i vescovi lombardi contrari alla riforma s’accordarono con l’imperatore Enrico IV che, il 28 ottobre 1061, a Basilea investì Cadalo di Parma con il nome di Onorio II , mentre il 30 settembre i cardinali vescovi elessero Anselmo da Baggio, Alessandro II , legato alla pataria milanese, che cominciò a operare una precisa distinzione fra la cura delle anime, ufficio esclusivamente ecclesiastico, e il beneficium feudale vero e proprio.

La lotta di Alessandro, fiancheggiato da Ildebrando di Soana il cui ruolo nella Chiesa romana era andato configurandosi fin dai pontificati di Leone IX e di Niccolò II, fu assai dura sia contro l’antipapa sia contro i vescovi del Nord d’Italia, fra cui si distinse Benzone d’Alba. La medesima azione pontificia invece procedette con successo in Inghilterra, ove il papa favorì la conquista normanna di Guglielmo i, detto il Conquistatore (1066), e la riforma prese lì corpo per impulso dell’arcivescovo Lanfranco di Bec. Anche il re di Aragona, Sancio Ramiro, venne personalmente nell’Urbe per assicurare fedeltà e sostegno ad Alessandro.

Negli stessi anni, mentre lo spirito riformatore cominciò a permeare vari strati della società, un movimento di popolo animò l’opposizione al clero simoniaco e concubinario. Soprattutto a Milano e a Firenze si rafforzò il sentimento di condanna del clero indegno, i cui oppositori furono detti Patarini, forse in quanto straccioni, da pathè ovvero straccio in lombardo, volti a trovare proseliti numerosi nei ceti medi e umili. L’opposizione ai simoniaci e ai preti sposati o conviventi con donne degenerò presto in tumulti e a Milano e a Firenze si giunse a una vera caccia all’uomo. Il clero simoniaco fu strappato dagli altari, mentre ai fedeli fu proibito di accettare i sacramenti dai sacerdoti corrotti.

Attorno ai Patarini cominciarono poi a costituirsi i primi movimenti religiosi di carattere popolare, alcuni dei quali degenerarono nell’eresia. In proposito, a lungo si è ritenuto che gli schemi teologici ereticali fossero esemplati sulle dottrine manichee o ariane, ma la critica storica più recente ha stabilito invece che essi non furono nell’XI secolo sola espressione di ambienti colti, come invece accadde per le sette ereticali cristologiche dei primi secoli, fiorite in ambito vescovile, opera in prevalenza di teologi e di filosofi. Gli eretici dell’XI e dei due secoli successivi furono invece sovente sine litteris, gente cioè che non seppe né leggere né scrivere – e pertanto detta idiota – e travisò talvolta il Vangelo, in quanto priva della preparazione necessaria alla lettura e alla comprensione di un testo complesso e capace di indurre a fraintendimenti sconcertanti.

Movimenti ereticali, fra il 1017 e il 1030, comparvero nella Francia meridionale, in Aquitania, ad Arras, a Monforte presso Asti. Un movimento analogo al milanese sorse a Firenze nel 1066, in seguito alla rivolta contro il vescovo Pietro di Pavia, capeggiata dai seguaci di Giovanni Gualberto.

Alla morte di Alessandro II, il 21 aprile 1073, i Romani, in San Pietro in Vincoli, elessero a furor di popolo Ildebrando di Soana, assurto così da fattore di papi al rango di pontefice, ispirato da un forte intento riformatore. Tale elezione verificatasi fuori dei princìpi del Decretum di Niccolò II che contemplavano in qualche modo anche una ratifica imperiale – l’elezione sarebbe dovuta avvenire infatti a opera dei cardinali salvo debito honore domini imperatoris – fu presto regolarizzata ma venne avversata dagli ambienti imperiali e dal giovane Enrico IV, il quale comprese che l’intento gregoriano avrebbe sottratto di fatto la Chiesa a ogni controllo dell’Impero.

Inutile ci sembra qui tornare sui vari momenti della lotta per le investiture vescovili nonché del drammatico scontro fra papato e Impero, ovvero fra Gregorio VII ed Enrico IV , culminato nellnella duplice scomunica dell’imperatore, nella nomina di un antipapa di parte enriciana e nell’assedio di Roma fra il 1081 e il 1084 ove l’imperatore volle prendere la corona contro il papa, accerchiato e di fatto prigioniero nella rocca di Castel Sant’Angelo.

Superfluo ci sembra anche ricordare l’intervento del normanno Roberto il Guiscardo a favore di Gregorio VII , il violento scontro verificatosi in Roma fra Normanni ed enriciani, la liberazione di Gregorio VII , morto nel 1085 a Salerno nell’impossibilità di far ritorno nella sua sede, caduta nelle mani dell’antipapa Clemente III e di Enrico IV.

Quel che importa qui ricordare è che Gregorio ebbe sempre presente tutta la cristianità, estese a ogni popolo la sua azione anzitutto di riformatore del clero indegno e dei costumi ecclesiastici, ma anche di assertore – come attesta il suo Dictatus papae – dei preminenti diritti dell’autorità spirituale sulla civile, cioè della Chiesa sullo stato. In Inghilterra e in Francia, nei regni spagnoli e in Ungheria, in Polonia e in Russia, che il papa avrebbe voluto far diventare un feudo della Santa Sede, nei territori occupati dai musulmani, in specie nel Marocco ove incoraggiò e sostenne l’opera missionaria, in Oriente infine ove animò un primo progetto di lotta comune contro il Turco, ovunque Ildebrando intese riaffermare il primato pontificio e della Chiesa di Roma.

Nel corso del pontificato di Vittore III (1086-1087) i seguaci di Gregorio rimasero piuttosto distaccati dalle vicissitudini della Chiesa, ma dopo la sua morte elessero un esponente del gruppo riformatore, Urbano II (1088-1099) che, in prosieguo di tempo e con il mutamento della situazione, acquisì progressivamente forza politica. Così il legato urbaniano in Francia scomunicò re Filippo i per aver rapito la moglie di Folco d’Angiò, Beatrice. Sant’Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury, affrontò a sua volta Guglielmo il Rosso, figlio di Guglielmo il Conquistatore. Allorché poi Alfonso VI di Castiglia riconquistò il seggio primaziale di Toledo e Ruggero il Gran Conte ebbe ultimato la conquista della Sicilia, riprese il progetto gregoriano di una guerra totale contro i Musulmani.

Durante il sinodo di Piacenza della primavera del 1095, oltre a regolare la questione dell’elezione dei vescovi scismatici, alla presenza degli ambasciatori dell’imperatore bizantino Alessio i Comneno, Urbano prese impegno solenne di promuovere anche con le armi la difesa del Santo Sepolcro. Il 27 novembre 1095 poi, durante il Concilio di Clermont, il papa bandì solennemente la prima crociata accolta con entusiasmo della cristianità e corroborata da una intensa ondata di spiritualità.

Senza rifare a questo punto la storia delle crociate e dei loro risultati gioverà dire, in rapporto alla storia della Chiesa, come dal movimento per la riconquista e la liberazione della Terra Santa il papa abbia ricavato un immenso patrimonio morale, mentre un’accorta politica economicofinanziaria pose a disposizione dei pontefici mezzi e finanziamenti notevoli. I crociati poi, convenuti da paesi e da tradizioni differenti, dopo le incertezze e le deviazioni del primo periodo contrassegnato dagli sforzi generosi ma spesso discutibili e controproducenti di Pietro l’Eremita e di Gualtieri Senza Averi, per la prima volta cominciarono a fondere, al di là delle diverse provenienze, in un crogiuolo di carattere unitario e sovranazionale i destini del continente europeo.

L’accresciuta autorità morale del papato si affermò in più momenti: ad esempio nel sinodo di Bari del 1098 cui partecipò sant’Anselmo che contrastò le asserzioni dei Bizantini. Guglielmo il Rosso poi per la sua insana condotta morale fu scomunicato. Ma Urbano II , che con coraggio intervenne anche contro i re e assunse posizioni rigorose per la Chiesa e la sua unità morale, morì in Roma il 29 luglio 1099, due settimane dopo l’ingresso dei cristiani in Gerusalemme con cui si concluse trionfalmente la prima crociata.

Con il papato di Pasquale II (1099-1111), la situazione venne evolvendosi. In Germania – è vero – a Enrico IV successe il figlio Enrico V, ancor più autoritario del padre, avverso al pontificato romanoe pronto a eleggere un nuovo antipapa, Silvestro IV (1105-1111). Nelle altre parti del continente le cose andarono però diversamente: in Francia, Filippo i, riconciliatosi con Roma, rinunciò a intervenire nelle investiture vescovili e in Inghilterra Enrico I (1107) rinunciò all’investitura con l’anulum e il baculum mentre il papa e sant’Anselmo accettarono che, dopo la consacrazione ecclesiastica, venisse assicurato al sovrano l’homagium vescovile (fu questa in nuce la soluzione qualche anno dopo approvata a Worms).

Anche Enrico V però cercò un accordo con la Chiesa, accordo rivelatosi difficile per l’ostilità di Pasquale II . A quel punto sembrò che Enrico V fosse ancor più determinato del padre nell’azione contro il papato; infatti pervenuto in Roma catturò, sia pure per un brevissimo periodo, Pasquale II (1111) e lo costrinse a sottoscrivere un privilegio, con il quale praticamente si vanificarono decenni di azione riformatrice papale. Appena possibile però Pasquale annullò l’assenso estortogli con la violenza e, prima di morire nel 1118, confermò la tradizionale posizione pontificia.

Tuttavia, Impero e papato ormai stanchi della lunga lotta anelavano entrambi a una conclusione pacifica della vertenza per le investiture. Enrico V e il nuovo pontefice Callisto II (1119-1124) giunsero così nel 1122 a siglare un compromesso noto sotto il nome di Concordato di Worms , in cui si stabilì che l’investitura del potere spirituale del vescovo mediante l’anello e il pastorale fosse di esclusivo appannaggio del papa. All’imperatore però spettò l’investitura feudale. In Germania tuttavia – questo fu l’aspetto centrale del compromesso – l’investitura stessa – ossia quella laica – avrebbe preceduto la consacrazione vescovile, mentre in Italia il vescovo sarebbe stato eletto secondo le norme canoniche: prima avrebbe dunque ricevuto la consacrazione papale poi l’investitura feudale.

Con i pontefici riformatori cominciò quindi la distinzione fra potere spirituale e temporale, fra ambito ecclesiastico e laico, volto ognuno a rivendicare la propria autonomia nel suo campo di competenza e a cercare non di rado un predominio assoluto. Mentre dopo Worms, per alcuni decenni l’Impero giacque in crisi, la Chiesa praticamente vincitrice cominciò a elaborare la concezione della teocrazia papale, secondo cui al vicario di Cristo fu conferito il giudizio supremo su quanto concerneva la societas christiana.

Il primato ecclesiale trionfò in tal modo sui tentativi di instaurare una primazia delle Chiese nazionali e i fedeli rimasero tutti sottoposti ratione peccati per quanto riguardò la fede, la morale e la famiglia alla suprema guida pontificia.

Come negli altri aspetti della vita e della cultura così anche la religiosità del XII secolo ebbe eccezionale rilievo sia nella Chiesa sia nei movimenti che le si levarono contro, presi dalla volontà indomita, ora di riformarla, ora di soppiantarla: vale a dire le eresie. La Chiesa raggiunse in questi decenni un’altezza e un significato eccezionali nella realtà storica del proprio tempo e le sue vicende – si pensi al grave scisma del 1130 e alle imprese di Federico Barbarossa – ebbero sempre portata europea e furono dibattute e discusse in tutta la cristianità occidentale.

I papi di maggior rilievo, come Innocenzo II e Alessandro III (quest’ultimo distintosi nella lotta condotta a fianco dei Comuni contro lo strapotere dell’Impero svevo), furono in molte circostanze veri e propri “segni” di contraddizione fra opposte tendenze. Continuò allora l’opera della riforma monastica con la fondazione di nuovi Ordini o con la trasformazione dei preesistenti: luoghi di anacoresi divennero cenobitici e viceversa, mentre si accrebbero le sedi in cui le due pratiche di vita eremitica e comune si alternarono. Così accadde a Cava, donde gruppi di monaci partirono per fondare Monreale in Sicilia, presto volta alla vita cenobitica su modello benedettino. Allo stesso modo l’ordine francese di Grandmont, fondato a Muret nel 1076 da santo Stefano di Limoges, divenne definitivamente cenobio. Roberto d’Arbrissel, ad esempio, fondò l’Ordine di Fontevrault, per disporre alla preghiera quanti non poterono prendere parte attiva alla crociata militante.

Le personalità più significative della Chiesa sorsero in quel periodo tra i monaci. L’abbazia di Cluny, che nel secolo delle crociate e delle università perse il nitore che l’aveva contraddistinta nel x-xi secolo, riuscì ancora a esprimere la grande figura di Pietro il Venerabile, un interprete intelligente e di grande ingegno vuoi delle vecchie tendenze spirituali, vuoi delle nuove inclinazioni culturali manifestate dalle università e anche dal mondo avventuroso ed estremamente attivo della crociata. Certo si deve dire, però, che seppure tal fondazione monastica non fu corrotta, essa apparve in parte priva della tensione morale dei primi tempi; pertanto si cercò di ovviare a ciò, in ambito benedettino, con la fondazione di Citeaux (1098) per opera di Roberto di Molesmes e con l’impegno di Stefano Harding, l’autore della Cartha caritatis (1119) con cui si intese rendere il tono ascetico iniziale a numerose fondazioni monastiche.

Personalità indiscussa e di eccezionale statura fu poi quella del monaco Bernardo, nato a Fontaines, nei pressi di Digione nel 1090 ed entrato nell’Ordine cistercense preso da una vocazione che lo trascinò alla religione attiva, insieme a un gruppo di suoi congiunti e amici convinti dalla sua incomprimibile fede (1112).

Bernardo nel 1115 fondò l’abbazia di Clairvaux e si dedicò alla diffusione del suo ordinamento monastico, esaltandone il valore pure in contrasto con la più antica abbazia cluniacense, un tempo faro della riforma ecclesiastica, ma di cui quell’intransigente monaco fu giudice severo.

Quel santo può considerarsi senza dubbio l’ultimo dei grandi abati medievali, colui insomma che nella prima metà del suo secolo seppe
suscitare entusiasmi verso la riforma benedettina che propugnò con grande energia, così come sostenne l’importanza, oltre che religiosa, sociale del lavoro nei campi, dell’amministrazione e dell’organizzazione dell’Ordine, esercitando un’influenza anche economica nella vita del suo tempo.

Battagliero e polemico, sempre attento a lottare per le migliori fortune della Chiesa, egli si oppose al rinnovamento dottrinale proposto da Abelardo e del pari fu nemico implacabile di Arnaldo da Brescia, allievo di Abelardo.

D’altronde egli fu apertamente in contrasto con i fermenti ereticali che considerò come elemento disgregatore dell’unità ecclesiastica. Combatté peraltro ogni allentamento nei costumi ecclesiastici anche presso le corti reali e non si peritò di condannare gli eccessi della regina Eleonora d’Aquitania, la moglie di Luigi VII , poi di Enrico II Plantageneto, da lui ripresa, per non parlare di argomenti più scabrosi, per l’eccessivo lusso da lei introdotto nella precedentemente più morigerata corte parigina. Del pari egli rifiutò ogni deviazione nell’ambito della vita monastica e con la sua scrittura efficace e convincente non meno della sua predicazione affascinante, fu una delle personalità di punta della prima metà del secolo, sino alla morte avvenuta nel 1153, sempre pronto a reclutare monaci, a ottenere l’appoggio di vescovi e pontefici, rendendo tutti i suoi confratelli una forza cospicua e disciplinata al servizio d’una Chiesa moralmente più pura, più presente e incisiva nella massa dei fedeli.

Egli infine non si stancò di ammonire gli stessi pontefici, fino a dedicare a un suo confratello, il papa Eugenio III , un’intera opera, il De consideratione, ove si mise in guardia il successore di Pietro contro i pericoli e le insidie della Curia in Roma. L’Ordine cistercense, nato attorno alla fondazione di Citeaux di cui si è detto, alla morte di san Bernardo divenne poi una realtà religiosa ed economica importantissima, il cui peso fu notevole nella lunga lotta che divise Alessandro III , amico e sostenitore dei Comuni, da Federico Barbarossa.

Sebbene con rilevanza minore, suscitarono l’ammirazione e il favore dei fedeli anche altri monaci legati alla spiritualità degli eremiti e alla mistica del deserto, i Certosini, come si dissero dalla loro località di origine – la Grande Chartreuse – collocata non lontano da Grenoble. Al monachesimo si dovette inoltre l’incremento della vita intellettuale, data la decadenza di talune scuole episcopali. Centri come San Gallo, Fulda, Bec, ove sant’Anselmo successe a Lanfranco, divennero abbazie in cui si avviò la più seria discettazione relativa alle basi razionali del dogma. Abelardo ad esempio, dopo aver girovagato di scuola in scuola ed essersi allontanato anche da Parigi, forse per sottrarsi al confronto con l’allievo e collega Guglielmo di Champeaux, nel 1108 decise di ritirarsi a meditare e a studiare presso l’eremo di San Vittore. Ma la vitalità della fede religiosa nei primi decenni del secolo XII e poi a mano a mano che essa in tutta quell’epoca si sviluppò e si svolse, ebbe a concretizzarsi anche in forme varie d’organizzazione e di pietà.

Oltre agli Ordini cavallereschi religiosi, di cui diremo più avanti, la necessità di far conoscere la parola di Dio fra le folle degli umili e dei diseredati ispirò monaci, eremiti o altri semplici fedeli, alla penitenza e alla predicazione.

Nacque così il fenomeno dei predicatori itineranti, caratteristica appunto di molta parte di questo secolo e del successivo. Alcuni più prudenti e accorti fra costoro riuscirono a predicare mantenendosi nell’ambito della Chiesa come i già menzionati Roberto d’Arbrissel e Stefano di Muret. Questi anzi, dopo un lungo periodo di apostolato fra le masse, divennero, come già detto, a loro volta fondatori di monasteri, l’uno a Fontevrault, a Grammont l’altro.

La loro predicazione volta a esaltare la vita povera e derelitta di Cristo e degli apostoli, non s’arrestò quasi mai di fronte a una critica franca e spesso dura del clero stesso cui si rimproverarono l’ignoranza e la scarsa moralità; sebbene con minor virulenza si continuò la lotta contro la Simonia e il Nicolaismo, derivata dalle correnti rigoriste dell’XI secolo, si stigmatizzò la cupidigia di denaro, di oggetti d’oro e di preziosi talvolta usati dagli stessi monaci, i quali non esitarono a vestirsi di indumenti lussuosi, a indossare pellicce, stivali con gli speroni d’oro, anelli e monili di valore e a vivere come cavalieri appartenenti a una stirpe feudale e nobiliare. Non di rado – tuonarono ancora i predicatori – vescovi e arcivescovi parteciparono a partite di caccia, a solenni banchetti, dopo i quali non avevano rossore di recarsi a celebrar Messa e a impartire gli altri sacramenti.

Da questa analisi nacque più volte il confitto fra i predicatori e la gerarchia episcopale e in molte circostanze il trapasso fra la critica costruttiva e l’eresia fu breve, come si verificò nel caso del monaco Enrico in Francia e, in Italia, in quello di Arnaldo da Brescia.

Diremo anzi che il fenomeno ereticale fu, per il momento in cui si diffuse, per il numero delle persone che lo professarono e per le vaste ripercussioni create nell’ambito della società, uno degli eventi salienti del secolo XII e come tale meritevole di un’attenzione tutta particolare.

Nei primi anni del XII secolo non ci troviamo ancora dinanzi a fenomeni ereticali ben determinabili, almeno nei loro aspetti generali: si constatò tuttavia pur sempre l’esistenza di correnti e movimenti religiosi deviati, senza dubbio più ampi di quelli cui ci aveva abituati il secolo XI, sebbene ancora in certo modo piuttosto poveri di seguaci e sprovvisti di veri e coerenti sistemi dottrinali.

Passati pochi anni però quegli stessi movimenti particolari scomparvero e uno solo, sia pure complesso, si manifestò al loro posto: l’eresia catara da allora in poi ben diffusa in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Italia pur con le denominazioni più disparate e più inconsuete.

I suoi seguaci si chiamarono infatti ora Catari, ora Manichei, a volte Albigesi, a volte Publicani, talora Bulgari, talaltra Tessitori e, specie in Italia, Patarini.

Il termine Cataro , dal greco catharòs , puro, entrò nella latinità occidentale molto probabilmente tramite sant’Agostino e del pari al vescovo di Ippona si dovette l’ingresso nel vocabolario ecclesiastico romanodell’altro termine: manicheo.

La denominazione di Albigesi ebbe invece origine soltanto geografica: come si sa Albi, in terra provenzale, fu uno dei più fiorenti centri ereticali nel XII e nei primi anni del XIII secolo.

Publicani furono altresì chiamati dai cronisti della prima crociata gli eretici a sfondo dualista, alleati dei Turchi. La stessa denominazione poi apparve come la trasposizione in bocca occidentale, pure per analogia, dell’appellativo di Publicani, comparso nel Nuovo Testamento, e della parola greca Pavlichianì con la quale i Bizantini usarono riferirsi agli eretici dualisti.

Bulgari fu, a sua volta, un termine di derivazione geografica, mentre i Tessitori o Tisserant sottolinearono l’indicazione di un mestiere, quello per l’appunto dei Tessitori, spesso connaturato all’eresia. Entrambe le parole insomma nacquero dal rapporto stabilitosi fra i Bulgari, i Tessitori e l’eresia.

Speciale attenzione merita per noi che viviamo in Italia il nome di Patari o Patarini : infatti in tal maniera furono chiamati i seguaci rigoristi della riforma ecclesiastica durante l’età gregoriana.

In seguito il pressoché eguale suono dei due vocaboli Pataro e Cataro ingenerò equivoco e sovrapposizione. Ad ogni modo, in fine XII e agli inizi del XIII secolo gli eredi dualisti in Italia furono indistintamente chiamati Patari o Patarini. Manifestazioni ragguardevoli di eresia si registrarono in luoghi diventati quasi subito noti, posti per lo più nel Sud della Francia, divenuta uno dei punti di maggior diffusione del messaggio ereticale.

Anche in Italia però non furono assenti le manifestazioni contrarie all’ortodossia specialmente nei centri abitati, ove il fervore della vita comunale concentrò maggiormente l’attenzione anche verso i problemi religiosi.

Quindi la passione religiosa e l’organizzazione della vita ecclesiale dettero luogo a un pullulare di movimenti inconsueti, a volte quasi incomprensibili e comunque fuori dell’ordinario.

Taluni fra questi poi, esasperarono gli aspetti ascetici del cristianesimo, la gioia per le rinunce e le mortificazioni, la pratica dei digiuni e delle astinenze, nella ricerca di una purezza profonda e totale vista in termini rigoristici talvolta spinti sino al fanatismo.

Una prima, molto seguita opinione volle vedere nelle professioni di eresia influenze di tipo orientale, che si pensò di far risalire al dualismo gnostico-manicheo rimasto in vita sotto mentite spoglie nei territori orientali dell’Impero bizantino; poi le stesse manifestazioni sarebbero transitate in Europa, vuoi per i mai cessati rapporti fra Occidente e Oriente, vuoi per l’attività degli industriosi missionari, perennemente in marcia per diffondere i loro principi, vuoi infine in conseguenza dei ripetuti pellegrinaggi con destinazione orientale, pellegrinaggi che vedevano i fedeli partire con un credo e li vedevano tornare sensibilmente modificati e non di rado macchiati da venature ereticali.

Contro questa teoria in sé e per sé seducente si sono avanzate parecchie obiezioni convergenti verso un’unica ma fondamentale osservazione: i contatti Oriente-Occidente furono, specie per i primi tempi, più ipotetici che coerentemente dimostrati. Inoltre, pur considerando i supposti colloqui che, dati i tempi e i luoghi sono difficilmente dimostrabili e che comunque non poterono essere molto frequenti, nulla impedisce di ritenere che i primi movimenti di carattere eterodosso vennero determinati da pulsioni endogene nate dalla stessa cristianità occidentale.

È certo comunque che tutte le suddette correnti si fusero, si riunirono e presero contatto con l’Oriente. Verso il 1176 a Saint-Felix-de-Caraman, vicino a Tolosa, ebbe luogo un concilio nel quale i capi delle chiese Cataro-occidentali si riunirono sotto la presidenza di Niceta, vescovo eretico di Costantinopoli, denominato nelle fonti papa Niceta, e ne accettarono la supremazia e le idee.

Da allora in poi i rapporti fra Oriente e Occidente si fecero stretti e le influenze orientali sul catarismo divennero sempre più evidenti. Con la seconda metà del XII secolo i Catari si diffusero assai rapidamente in tutto l’Occidente, raggiungendo agli inizi del Duecento il massimo della consistenza.

Le due zone ove però gli eretici e i loro fiancheggiatori più fittamente furono presenti, possono considerarsi le contee di Tolosa e Provenza e l’Italia centro-settentrionale.

Nella Francia del Sud essi cercarono e rinvennero protezione e appoggio dai nobili e dai potenti sotto il cui usbergo diffusero tranquillamente la loro fede tanto che, senza possibilità di errore, il catarismo fu denominato religione nazionale della Provenza. Città come Tolosa, Carcassonne, Bé- ziers, Tarascona, apparvero come punti prediletti di riferimento e di irradiazione, in cui si ritrovarono e da cui si mossero i missionari, predicatori della “vera fede” verso chi ancora non la possedeva e inoltre lì risiedettero quanti dovevano recar consiglio e conforto ai confratelli convertiti, per compiere i riti religiosi richiesti dalla comunità.

Nella penisola italiana invece l’eresia rivestì carattere squisitamente popolare, pur raggiungendo una capacità di penetrazione altrettanto consistente. Non vi fu città, villaggio, piccola o grande borgata priva del suo cenacolo ereticale: da Milano a Fucecchio, da Firenze a Pisa, da Viterbo a Cesena, da Rimini a Orvieto, nella penisola centro-settentrionale fu di sovente tutto un pullulare di eretici.

A ricordarcelo sono le voci perplesse e stupite di cronisti, di polemisti, di predicatori quasi increduli di fronte a una valanga sempre più ingranditasi e divenuta vieppiù minacciosa. Nella Francia del Sud, apprendiamo però, puntualizzando ancor meglio, che le chiese ufficiali erano deserte e che i fedeli non si accostavano più ai sacramenti; di Milano udiamo dire che era diventata crogiolo di tutte le eresie. Dall’Italia meridionale, anch’essa contagiata dal virus ereticale, Gioacchino da Fiore, di cui a suo tempo diremo, ci informa con preoccupazione della diceria che il capo dei Catari fosse alleato dei musulmani e che insieme avrebbero mirato a distruggere la Chiesa di Roma.

Chi sono i Catari? Cosa li caratterizza, offrendo loro connotati precisi in seno al cristianesimo medievale? Se viva e sentita è l’importanza del Vangelo il cui protagonista è il Cristo perseguitato e sofferente, con l’esigenza di una fede vissuta con sincerità e intensità, fu però una questione dottrinale a colpire e a interessare costantemente i contemporanei, ossia il dualismo. Per i Catari infatti l’universo è il campo di una perenne lotta fra due princìpi, quello buono, Dio, quello malvagio, il diavolo; il primo raccolta di energie spirituali, il secondo espressione della materia.

Tuttavia nell’interpretazione di tale dualismo si manifestano divergenze e “distinguo” destinati secolarmente a dividere le comunità catare. Comunque per la maggioranza dei proseliti di tale movimento ereticale i due princìpi, ossia quello del bene e quello del male, furono divisi, opposti e inconciliabili ab aeterno: v’era cioè un autentico dualismo che si manifestò in specie nel Mezzogiorno francese e divenne peculiare degli Albigesi. Dio era il principio supremo del mondo spirituale e materiale, uno degli angeli però – Satana – ribellatosi a un certo punto, aveva foggiato la materia dapprima inerte, inaugurando la lotta contro Dio.

Le notevoli differenze iniziali assunsero tuttavia grandi conseguenze nello sviluppo del catarismo, in modo speciale per la difforme dottrina relativa a Cristo e a sua madre, Maria. Per alcuni infatti Cristo fu puro spirito entrato nel grembo della madre, passando attraverso un orecchio senza essere strettamente unito a un corpo; per altri invece fu essenzialmente un corpo e non ebbe niente in comune con la divinità. Comunque Cristo portò sulla terra il messaggio del Dio dello spirito e indicò la via per liberare dalla schiavitù della materia l’uomo e aiutarlo a ritrovare l’unità delle essenze spirituali, quell’unità dal principio del male spezzata per imprigionare il mondo.

Da una tale concezione della realtà dipesero significative conclusioni: i libri dell’Antico Testamento in quanto attestazione di un Dio creatore dell’universo materiale, manifestatosi mediante i fenomeni della natura, non potevano essere considerati come opera del Dio buono ma ebbero come autore il demonio. Naturalmente rappresentanti del dio malvagio furono i personaggi considerati onorevolmente dal Vecchio Testamento, da Isacco, a Mosè, a Giovanni Battista.

Altre e gravi conseguenze di ordine morale nonché sociale derivarono da tali concezioni. Infatti, se tutti dovevano impegnarsi per liberare lo spirito dalla piovra della materia, bisognava anzitutto astenersi dalla eccessiva nutrizione basata sulle sostanze che avevano in sé prigioniere le particelle dello spirito, particelle destinate a rimaner catturate sia per l’assimilazione nutritiva che per l’assimilazione generativa.

Bisognava pertanto escludere dal cibo ogni sostanza di natura animale – la carne, il latte, le uova, il formaggio – e ogni atto che originasse la nascita di un essere vivente. Scopo finale del catarismo in ogni sua sembianza fu pertanto la totale estinzione della vita, un autentico suicidio cosmico, tradottosi in un rigoroso e disumano ascetismo dai più del tutto impraticabile. Si rese allora necessario un alleggerimento della suddetta precettistica per la massa dei fedeli distinti tra credenti e perfetti.

Veri seguaci del catarismo erano naturalmente solo questi ultimi che, avendo ricevuto il bene del consolamentum, possedevano lo Spirito Santo, ed erano obbligati pertanto ai doveri inerenti a questo stato di perfezione: si nutrivano solo di pesce e verdura conditi con olio e praticavano lunghissimi periodi di digiuno, spesso si salassavano per indebolire il corpo e mantenerlo sottomesso allo spirito, non contraevano matrimonio e nel tempo della libera professione della loro fede vestivano un particolare abito che, nel periodo delle persecuzioni, si ridusse a uno scapolare indossato sotto le vesti.

Durante il loro vagare da una comunità all’altra, essi si muovevano assai spesso in due, accompagnati sovente da donne presentate come mogli, onde sfuggire all’occhiuta vigilanza degli inquisitori che sospettavano di catarismo tutti coloro che sembravano non praticare una normale vita sessuale. Nei loro viaggi essi divenivano – come accennato – di volta in volta missionari intenzionati a far sempre nuovi proseliti al catarismo, oppure visitavano le comunità più deboli, seguendo gli inviti che ricevevano da coloro che si manifestavano bisoGnosi di aiuto spirituale o materiale.

Come è chiaro solo gli eletti – i perfetti – potevano conseguire cariche di responsabilità a livello comunitario e nella gerarchia ecclesiastica. Il maggior numero di fedeli invece era costituito da coloro che con la Chiesa catara avevano stipulato il cosiddetto patto di convenensa. In base a questo, il fedele si impegnava a ricevere in punto di morte il consolamentum, ad aiutare durante la vita i perfetti, quando ve ne fosse stato bisogno, e a prendere parte alle cerimonie comunitarie; per il resto proseguiva la sua vita di ogni giorno.

Ma proprio tal posizione di fiancheggiamento provocò gravi ripercussioni a livello sociale non facilmente quantificabili ma di grande portata soprattutto in Provenza: il credente permaneva in una condizione di vera anarchia morale; su di lui infatti non avevano più presa le norme cattoliche, rifiutate, né le catare, alle quali non era obbligato ad aderire prima di essere perfetto. Aggiungeremo poi che la Chiesa catara rigorosissima verso i perfetti era di un eccezionale lassismo verso i credenti, sempre più deviati da alcune strane e pericolose norme della dottrina ereticale.

Una donna incinta era sempre e comunque considerata in stato demoniaco e ogni nascita doveva essere per principio rifiutata; inoltre, pur di evitarla, qualsiasi forma di congiunzione carnale di carattere deviante veniva considerata legittima. I Catari inoltre ritennero lecita l’usura, altra pratica negata dalla coscienza medievale e vietarono alle gerarchie ecclesiastiche o politiche il diritto di punire, specialmente con la pena di morte, rifiutando ogni aiuto persino in caso di guerra a chi portasse le armi.

Quanto detto fa comprendere quale divenne la concreta realtà del catarismo che si inserì in Occidente come forza socialmente ed economicamente disgregatrice in certo modo persino anticristiana. Di qui nacque allora la lotta antiereticale con le sue asprezze, di qui le repressioni inaudite e disumane che riuscirebbero incomprensibili, se non sapessimo quali furono le conseguenze della diffusione del catarismo.

Quali furono i riti e le celebrazioni della Chiesa catara? Anzitutto dobbiamo ricordare la convenensa, il patto che stabilì un accordo fra credenti e perfetti; cerimonia centrale e caratterizzante fu tuttavia il consolamentum. Dopo un periodo di preparazione detto di abstinentia, si giungeva alla cerimonia. I fedeli, perfetti e credenti , si riunivano in casa di un simpatizzante: in una stanza su un tavolo coperto da un lino bianco veniva collocato il Nuovo Testamento e forse anche il testo contenente il “rituale” della cerimonia.

Dopo le prime formalità preliminari colui che doveva ricevere il consolamentum chiedeva a colui che presiedeva la cerimonia la benedizione subito impartitagli e alla quale faceva seguito una lunga predica, volta a esortare il neofita alla fede.

Il clou dell’assemblea consisteva nella recita del Pater Noster, che in un’altra apposita omelia era definita la preghiera del perfetto, da ripetersi in tutti i momenti importanti della giornata.

Successivo a questa prima parte era il consolamentum: dopo altre preghiere il consolando si inginocchiava ai piedi del presidente della cerimonia che poneva su di lui un libro aperto. Allora tutti i presenti già perfetti ponevano la mano destra sul consolando e continuavano la preghiera, quindi si scambiavano il bacio della pace e baciavano il libro.

Quando invece il consolamentum avveniva in punto di morte, la cerimonia si svolgeva con un rito abbreviato e condizione necessaria e sufficiente era che il consolando fosse ancora in piena coscienza. Connessa poi con tale cerimonia finale fu la terribile usanza catara detta dell’endura, praticata forse solamente negli ultimi tempi dagli Albigesi, in base alla quale i perfetti in punto di morte venivano soffocati, affinché si spegnessero completamente purificati e senza tema di commettere altri peccati.

Si è detto che l’Osservanza integrale del catarismo era impossibile per chi non possedesse volontà ed energia eccezionali. Si verificò così che molti consolandi-consolati, in quanto ritenuti moribondi e poi guariti, erano costretti a osservar pratiche imposte loro dalla nuova religione e, se non erano in grado di farlo, dovevano abbandonare il catarismo. Proprio per evitare ciò allora il neo-consolato, in caso di miglioramento, veniva a volte lasciato morire di fame o, come si accennava, soffocato per esempio con un cuscino o indotto al suicidio.

Se sulle pratiche catare siamo abbastanza bene informati, la stessa cosa non può dirsi per quanto riguarda la loro organizzazione ecclesiastica. Al centro delle comunità erano tuttavia i perfetti , rispetto ai credenti considerati alla stregua dei sacerdoti cattolici. Di questi ultimi almeno due risiedevano stabilmente nella comunità per amministrarla e dare i sacramenti, per esempio il consolamentum; gli altri, come accennato, viaggiavano per la loro attività di proselitismo. Le comunità più grandi venivano presiedute da un vescovo assistito da un filius maior e da un filius minor . In caso di decesso del vescovo lo si sostituiva con il filius maior , oppure con il minor con riti a volte semplici, a volte complessi.

Non vi fu invece un capo supremo che collegasse tutte le Chiese esistenti. Alla metà del XIII secolo, i Catari erano ancor numerosi in Provenza, in Linguadoca, in Francia settentrionale, in Germania, in Austria, poi in Italia ove furono ben presenti al Nord e al Centro, mentre taluni si stabilirono anche in Calabria e Sicilia.

Tale penetrazione capillare spiega la forza con cui la Chiesa attaccò il catarismo, aiutata anche dal potere politico. Sotto tale aspetto il XII e il XIII secolo furono essenziali per la diffusione della suddetta eresia che però, sempre più perseguitata, fu battuta e annientata zona per zona.

In Provenza, ad esempio, e nella contea di Tolosa essa fu colpita a morte dalla crociata antialbigese (iniziata nel 1209) e dall’immissione di una feudalità francese al posto della provenzale con conseguente sparizione dello spirito nazionale provenzale. Inoltre l’attività frenetica di inquisitori abili e decisi a tutto osare, fu determinante per porre in crisi il catarismo, tanto che nel novero di un centinaio di anni dei suoi numerosi proseliti non rimase che il nome.

In Italia invece il regime comunale permise vita meno agitata ai devianti, ma anche nella penisola l’Inquisizione si mosse con pesantezza e decisione. A livello politico nell’ambito della lotta fra papato e Impero i Catari si schierarono con i ghibellini, seguendone le alterne vicissitudini, come attesta la storia fiorentina. La fine del ghibellinismo e il passaggio dal Comune alla Signoria segnarono anche il termine della sensibile presenza catara in Italia.

Al di là dei fattori indicati, nell’elencare i motivi determinanti la sconfitta del catarismo in Italia, sarebbe impossibile dimenticare l’opera svolta dall’Ordine francescano e dal domenicano di cui tratteremo fra breve. A proposito di questi ultimi inoltre non vale la pena tanto di richiamarsi alla più visibile azione degli inquisitori, quanto all’attività capillare ed efficiente dei polemisti, dei predicatori, tutti esemplari viventi di una profonda religiosità. Si pensi infatti all’efficacia di un san Francesco, di un sant’Antonio da Padova o di un san Domenico, per avere la percezione di quanto i due suddetti Ordini fecero onde conseguire il recupero e la conservazione della cristianità occidentale.

Infatti l’innegabile fascino della religiosità dualistica, la spirituale austerità dei perfetti , la folla dei credenti , l’aiuto dei prìncipi posti di fronte alla crisi della gerarchia ecclesiastica, solo per poco evitarono il crollo del cattolicesimo, in parte non esigua salvato da Francescani e Domenicani. E se del catarismo pochi disiecta membra sopravvissero nella cultura occidentale, segnatamente nell’italiana – qualche leggenda, tradizioni o credenze superstiziose – ciò va ascritto a merito dei frati Minori e dei Predicatori.

Accanto al catarismo dianzi preso in esame non dimenticheremo di fare almento un cenno alle eresie minori: ricorderemo i Passagini, inconsueta fusione di ebraismo e cristianesimo per breve periodo comparsi in Lombardia fra XII e XIII secolo, e inoltre gli Speronisti, seguaci di Ugo Speroni, banditore di un cristianesimo spacciato per più ascetico. Ad Arnaldo da Brescia si richiamarono invece gli Arnaldisti. Interessante resta poi il movimento degli Umiliati, ricchi di fermenti mistici e politici e quasi unici nel loro genere per l’intento da essi mostrato di vivere in modo rigidamente comunitario, negli ultimi decenni del XII secolo, specialmente in Lombardia e nella pianura padana.

Particolare attenzione meritano inoltre i Poveri Lombardi e i Poveri di Lione confluiti in seguito nell’eresia solitamente denominata Valdismo. Per comprendere le origini del Valdismo, bisogna riferirsi al grande moto della cristianità medievale da noi in precedenza menzionato e noto come Riforma ecclesiastica del secolo XI , la cui influenza sulla gente qualunque fu sensibile. Sfuggì invece spesso l’influsso spicciolo ma pur profondo e rivoluzionario operato su clero e popolo dalla Riforma ecclesiastica, in un’epoca in cui i rapporti fra il centro e la periferia si intensificarono e furono forti e vivi ma anche tempestosi.

In quel periodo il popolo dei fedeli e il clero si riscossero e cominciarono ad avvertire l’urgenza di un cristianesimo effettivamente trasferito nella vita della società.

Si ebbe allora un risveglio di energie e le stesse popolazioni che dettero vita al Comune, sul piano religioso cercarono la riforma della Chiesa. Di questi fedeli si servirono i pontefici per vanificare la resistenza del clero indegno e per spezzare gli interessi che non erano intenzionati a cedere. Si spiegò così la pataria a Milano e l’attività già menzionata a Firenze di cui Giovanni Gualberto si fece banditore.

Si diffuse d’altronde un più penetrante sentimento religioso, i fedeli bisoGnosi del divino invocarono un cristianesimo evangelico. Alla parola dei sacerdoti s’accoppiò la lettura diretta del Nuovo Testamento e in genere della Bibbia, esaminati tuttavia – come si è già detto e come qui intendiamo ribadire – con entusiasmo, ma con una insufficiente preparazione, mentre una buona cultura sarebbe stata indispensabile per la comprensione di testi che, male interpretati, originarono devianze pericolose. Ma tutto ciò segnò le premesse che spiegano le origini di tanti movimenti di contestazione nei riguardi delle gerarchie e segnatamente la nascita della “devianza” valdese.

È ormai accertato che alle origini del Valdismo viI fu un personaggio ben identificato, ossia il mercante lionese Valdo. Di lui non sappiamo molto: vissuto nella seconda metà del XII secolo, colpito dalla morte di un amico cui si aggiunse l’impressione prodottagli dalla leggenda di sant’Alessio, decise di vivere secondo la precettistica evangelica, si fece tradurre la Bibbia in volgare e dietro consiglio di un sacerdote fece voto di povertà.

Parendogli tuttavia doveroso condurre gli altri verso la salvezza, si dette alla predicazione, radunò un buon numero di seguaci come lui pronti a pronunciare il voto di povertà e a predicare. Venuto in contrasto con l’arcivescovo di Lione, egli fu espulso da quella diocesi. I Valdesi allora ricorsero a Roma ove furono accolti con benevolenza nel 1179 dal pontefice Alessandro III nel corso del III Concilio Lateranense.

Rassicurati da Alessandro ma privi del permesso di predicare – ovvero del munus praedicandi –, essi rientrarono in Lione donde nel 1181 vennero ancora una volta in rotta di collisione con il nuovo arcivescovo, Giovanni di Bellesmains. Il contrasto fu definitivo e irreversibile e da allora in poi i Valdesi rimasero separati dalla Chiesa.

Con la definitiva scissione ebbe luogo lo sviluppo del Valdismo costituitosi come gruppo di chiese vincolate da un momento federativo che tuttavia non evitò fra loro divergenze anche profonde in materia di fede. Taluni punti fondamentali furono però accettati in concordia e all’unanimità: l’ostilità verso la Chiesa di Roma, la povertà volontaria, la predicazione del Vangelo e la diffusione della Bibbia in volgare.

Al di là di queste dottrine vi furono gravi divergenze, per esempio tra i Poveri di Lione o Valdesi propriamente detti e Poveri Lombardi o Valdesi di origine italiana. Per i francesi si contraddistinsero con grande importanza l’escatologismo, l’attesa della fine dei tempi e il prossimo ritorno del Signore, tutti elementi che comportarono persino l’astensione dal lavoro e l’impegno per una palingenesi globale della società. Meno acre fu però in questi ultimi l’opposizione alla Chiesa ufficiale. Sugli italiani invece influì l’aspetto Patarini co e arnaldistico che li condusse a una radicale opposizione alla Chiesa di Roma e alla gerarchia ecclesiastica, a negare validità ai sacramenti impartiti dai sacerdoti indegni e a escludere di poter vivere di elemosine: la loro povertà doveva infatti andare di pari passo con il lavoro, limitato al minimo indispensabile per la sopravvivenza.

Condannati dal Concilio di Verona del 1184, i Valdesi furono in seguito soggetti a inquisizione, più mite nei loro riguardi di quella esperita contro i Catari di Provenza, sia in quanto meno numerosi, quindi meno pericolosi, sia perché la Chiesa non li sentì come totali oppositori e sia infine per il fatto che i contrasti interni ripetuti e sofferti impedirono alla nuova eresia di raggiungere ufficialmente strati più ampi di popolazione.

Tuttavia pur non definitivamente rafforzatosi, il Valdismo rimase in vita nel corso dei secoli specialmente per l’accortezza e il sagace senso del limite dei dirigenti e dei seguaci, spesso riusciti a sopravvivere senza dar troppo nell’occhio alle autorità romane.

Si annoverarono così fra quei gruppi di eterodossi le comunità francesi, le valdostane, le lombarde, le provenzali. Non trascurabili poi le correnti di Calabria e Boemia. Naturalmente seppur meno virulente le persecuzioni produssero il loro effetto, così talune comunità sparirono – per esempio la lombarda – mentre altre si fusero a diverse eresie, come accadde per i Valdesi di Boemia, collegatisi al movimento hussita.

Gli anni fra il 1124 e il 1154 furono in parte dominati nella Chiesa dal grande e già ampiamente ricordato esempio di san Bernardo di Clairvaux. Bernardo, fra l’altro, riuscì ad aver ragione dello scisma che alla morte di Onorio II (1124-1130) divise la cristianità fra due pontefici, ossia Pietro Pierleone, Anacleto II, e il protetto dei Frangipane, Innocenzo II (1130- 1143), e rafforzò quindi l’alleanza fra il papa e Lotario di Supplimburgo contro Anacleto, i Normanni, Ruggiero II e il competitore di Lotario, Federico di Svevia. In seguito alla suddetta azione, Lotario assunse la corona imperiale il 4 giugno 1133 dietro la rinuncia di fatto a intromettersi nella elezione dei vescovi e in tal modo venne concretamente sanzionata la scelta operata a Worms.

Importante fu poi l’accostamento a Innocenzo II , dopo la scomparsa di papa Anacleto, di Ruggiero II , accostamento operato anch’esso dalla sagace politica di san Bernardo che in tal modo aprì, con importanti conseguenze ecclesiologico-organizzative all’Ordine cistercense l’Italia meridionale.

Tuttavia una battuta d’arresto tal politica subì a causa della turbolenta situazione romana. In un Concilio romanodel 1159 era stato infatti condannato “post mortem” il dianzi citato Arnaldo da Brescia che, venuto dalla Francia nell’Urbe, si pose alla testa del movimento comunale cittadino, assumendo con la sua violenta predicazione, non soltanto volta alla critica della corruzione del clero, una posizione di contrasto anche politico e in qualche misura sociale con il papa e con san Bernardo. Con Eugenio III, destinato a succedere sulla cattedra di Pietro (1145-1153) a Celestino II e a Lucio II , si può dire che fu lo stesso Ordine cistercense a salire sul soglio di Pietro, rafforzando vieppiù la posizione di san Bernardo. Eugenio III rientrò così nella sua città che tuttavia dovette presto abbandonare nuovamente.

Gli avvenimenti romani passarono comunque in secondo piano, mentre la generale attenzione si spostò verso la seconda crociata predicata pure essa da san Bernardo (1147-1149), il cui risultato fu tuttavia nel complesso assai modesto e in parte differente dal travolgente risultato della precedente.

Nel frattempo, l’imperatore Corrado III di Hohenstaufen successo a Lotario di Supplimburgo nel 1138 si preparò a scendere in Italia, per assumere la mediazione fra gruppi politicamente rivali volti a generare pericolose confusioni in numerosi centri cittadini; ma il 15 febbraio 1152 Corrado morì a Bamberga, mentre venne eletto Federico I Barbarossa. Con lui il pontefice stipulò presto a Costanza stessa nel 1153, un trattato che previde un aiuto per risolvere la situazione di Roma praticamente egemonizzata da Arnaldo da Brescia e ovviare agli inconvenienti di un inasprimento della posizione dell’Urbe contro i Normanni del Sud. Ma Eugenio morì subito dopo a Tivoli l’8 luglio 1153 e nell’agosto successivo si spense pure san Bernardo e con lui tramontò l’epoca della grande diffusione dell’Ordine cistercense caratterizzata anche della nascita degli Ordini militari ovvero dei cavalieri di San Giovanni (1114), dei Templari (1128) e dell’Ordine di Calatrava (1147), le cui esperienze più che in Terra Santa, come accadde per Giovanniti e Templari, si avvertirono nel continente, ove essi parteciparono alla presa di Lisbona.

All’inizio l’imperatore Federico, pur avendo l’intenzione di riaffermare il prestigio dell’Impero anche nei riguardi della Chiesa, prese le parti del papa Adriano IV , un inglese, estraneo ai contrasti romani e gli offrì il suo sostegno in cambio della corona imperiale. Pertanto, come dianzi accennato, caduto in suo potere Arnaldo da Brescia, Federico lo consegnò al papa che ebbe libera la via di Roma e che in cambio della vita di quel pericoloso eretico, nel 1155 conferì la corona imperiale allo svevo.

Comunque, una volta rafforzatosi sul trono pontificio, Adriano non commise l’errore di porsi nelle mani del Barbarossa, della cui abilità e determinazione egli diffidò ben presto. Roma rafforzò quindi l’intesa con Guglielmo di Sicilia, consolidando in Curia il partito siciliano contro quello imperiale, capeggiato dal cardinale Ottaviano di Santa Cecilia. Con il che l’Impero ritenne leso l’accordo del 1153. La disputa accesasi attorno ai Beneficia si chiuse quindi con una conciliazione apparente. Infatti di lì a poco, durante la dieta di Roncaglia del 1158 Federico fece sostenere dai legisti imperiali, Martino Gosia, Bulgaro, Jacopo e Bernardo, la pretesa della assoluta autorità dell’Impero in merito ai diritti di regalia.

S’iniziò così il periodo più travagliato della lotta tra Regnum e Sacerdotium, lotta dalla quale i Comuni lombardi cercarono di trarre il massimo beneficio, in quanto si trovarono a occupare la classica posizione di chi tra i due litiganti si giova di una sua apparente neutralità. La situazione tuttavia si complicò ancor più, allorché all’interno stesso della Chiesa si profilarono su questa problematica tesi contrapposte: a sostenere l’indipendenza della parte imperiale fu infatti il cardinale Ottaviano, destinato a diventare antipapa con il nome di Vittore IV. Le ragioni di Roma divennero invece appannaggio di Rolando Bandinelli, canonista e discepolo di Abelardo, che nel 1159 fu eletto pontefice con il nome di Alessandro III .

Come intermediario di tanto complesso e profondo scisma si pose Federico I, il quale convocò un Concilio in Pavia in cui – era prevedibile – venne riconosciuta come legittima l’elezione dell’antipapa.

Lo scisma così si presentò senza limiti e senza esclusione di colpi; si incrociarono le scomuniche e l’imperatore procedette alla distruzione di Milano, per fiaccare la resistenza dei Comuni appoggiati da papa Bandinelli. Nel 1164 morì il filoimperiale Vittore IV, ma lungi dall’esaurirsi, la magna dissentio si arricchì di nuovi motivi e Federico nominò un altro antipapa: Pasquale III.

Alessandro III dapprincipio trovò rifugio presso il re di Francia Luigi VII, ma scarso appoggio egli ebbe in realtà da quel sovrano, e ancor meno ne ricevette in seguito dal re d’Inghilterra, Enrico II Plantageneto, con cui si trovò a lottare per il grave contrasto sorto tra quest’ultimo e l’arcivescovo di Canterbury, Tommaso Becket, drammaticamente risoltosi – quasi per attestare le difficoltà di fronte alle quali si trovò la Chiesa nel momento in cui i regni nazionali andarono rafforzandosi – con l’uccisione dell’alto prelato, ovvero con l’evento che fu più tardi denominato l’assassinio nella cattedrale (1170).

Alessandro tornò allora a Roma che sentì quale sua sede naturale, anche se lì, in sua assenza, l’antipapa dietro pressante richiesta federiciana aveva fatto canonizzare Carlo Magno. In Italia, frattanto, Alessandro strinse un accordo antistaufico con i Normanni di Sicilia e con Venezia, nel momento in cui, tramite quest’ultima, Michele Comneno fece intravedere al papa il miraggio di una riconciliazione fra la confessione bizantina e la romana nonché con le città lombardo-padane divenute il punto più forte della nevralgica resistenza  antifedericiana.

Alessandro e le città della lega, in quella situazione che le vide rinsaldate in una organica alleanza, raddoppiarono gli incontri diplomatici, mentre il nuovo antipapa Callisto III (1168-1178) poté giovarsi di uno scarso seguito e nella difficile situazione non riuscì a operare a fondo in sostegno delle ragioni imperiali.

A quel punto il destino del Barbarossa apparve segnato: mentre Enrico il Leone si pose apertamente contro Federico (1174), si strinse saldamente l’alleanza lombardo-padana e romana contro l’Hohenstaufen.

Il Barbarossa tornò allora nella penisola nel 1174 e fu quello il momento dello scontro frontale fra papato e Impero ad Alessandria, la città così chiamata dal nome del papa, sorta alla confluenza della Bormida con il Tanaro e soprattutto fu quello il momento della battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 e della sconfitta di Federico.

Tornare alla pace dopo cotanto scontro, fu impresa ardua che si iniziò con i preliminari di Anagni e con la tregua di Venezia (1177) per concludersi sei anni più tardi, nel 1183, con la pace di Costanza destinata a sanzionare la vittoria della Chiesa romana e la sostanziale indipendenza dei Comuni. Al colmo del successo Alessandro III convocò il III Concilio ecumenico Lateranense del marzo 1179 nel quale, fra gli altri punti, fu deciso di considerare eletto un papa soltanto se in possesso dei due terzi dei voti dei cardinali elettori.

Con Innocenzo III (1198-1216) la Chiesa romana raggiunse forse il culmine della sua potenza. Il grande pontefice riprese infatti i temi della teorica gregoriana contenuti nel Dictatus Papae e in ogni parte del continente fece sentire la forza delle sue idee e del suo programma teocratico. Per quanto poi riguardò la politica imperiale egli cercò di mantenere separata la corona siciliana dalla imperiale, di fatto riunite con il matrimonio di Costanza d’Altavilla e di Enrico VI figlio del Barbarossa.

Dopo l’urto con Ottone IV di Brunswick, Innocenzo si contrappose al re inglese Giovanni Senzaterra che non intendeva riconoscere l’arcivescovo di Canterbury, Stefano Langton, consacrato dal papa. Nel primo frontale scontro fra le più importanti potenze europee Giovanni Senzaterra si alleò con Ottone IV , mentre Innocenzo III parteggiò per Filippo II e per il giovane Federico di Svevia.

Il 27 luglio 1214 si svolse la grande battaglia di Bouvines, da considerarsi la prima in cui l’Occidente si divise nei due suddetti blocchi, e fu destinata a concludersi con la vittoria franco-sveva e la sconfitta anglo-guelfa. Così fu spianata la strada alla successione di Federico II, ancora sotto la tutela del papa dopo la morte del padre Enrico VI e della madre Costanza di Altavilla. La incoronazione del nuovo imperatore Hohenstaufen avvenne in Roma nel 1220.

Due questioni fra le altre tenne presenti Innocenzo III : la crociata e la lotta contro l’eresia. Egli infatti fu il promotore principale della quarta crociata svoltasi fra il 1202 e il 1204. Quella volta i crociati stabilirono di recarsi in Terra Santa per mare e fecero un contratto con la repubblica di Venezia per il trasporto di uomini e armi; essi però non si trovarono in condizioni economiche tali da poter onorare il patto sottoscritto e, onde non rinunciare alla spedizione, furono costretti a farsi strumento della sete di potere dei veneziani sulle terre orientali.

Infatti il doge Enrico Dandolo indusse i crucesignati , prima che si dirigessero verso Oriente, a compiere una variante di rotta alla volta di Zara. Così, prima che avesse luogo la Crociata, fu espugnata la città dalmata. Quindi con l’argomentazione capziosa ma non priva di verità che, per battersi contro i Turchi, bisognava avere il controllo dell’Impero bizantino allora squassato da sommosse, i milites Christi furono successivamente portati a Costantinopoli con il disegno primario di rimettere sul trono l’imperatore spodestato, Isacco l’Angelo. Poi però ebbe luogo la eliminazione dei legittimi sovrani e la fondazione dell’Impero latino d’Oriente; di tal nuova compagine fu eletto imperatore Baldovino di Fiandra (1204) che costituì un propugnacolo cristiano, orientato contro gli infedeli.

Con la costituzione del nuovo stato cristiano Venezia raggiunse un’immensa potenza estesa sino al mar di Marmara mentre nello stesso tempo cominciarono le trattative per unire la Chiesa latina alla greca.

Per quel che concerne le crociate ricordiamo che Innocenzo III nel 1208-1209 promosse pure quella contro i già menzionati Albigesi di Provenza, volta alla totale estirpazione dell’eresia da quella regione che ne era completamente infettata e la sua fu un’azione talmente incisiva, che finì quasi con lo spegnere la civiltà stessa di cui il Sud della Francia era stato fiorente sede.

Con ciò il concetto di crociata mostrò d’essersi sensibilmente modificato dall’ispirazione originaria, diventando addirittura un fattore di conquista francese delle terre del Mezzogiorno occitanico, oltre che il mezzo per sradicare la mala pianta ereticale.

I crociati, condotti da Simone di Monfort e corroborati dalla predicazione di Domenico di Guzmán, invasero la Provenza e gli eretici furono stanati e sterminati con inaudita ferocia. Anche i vassalli del re di Francia presero però parte all’impresa contro il prospero stato dei conti di Tolosa.

Gli Albigesi vennero così strappati dai loro territori elettivi, ma con ciò l’eresia non si estinse del tutto, rimanendo in vita della medesima taluni focolai come i Poveri Lombardi e i Poveri di Lione. Anche in Italia, nei Comuni della Lombardia, della Toscana e dell’Umbria – soprattutto a Orvieto – si manifestarono fermenti ereticali antiromani.

Allorché nel 1215 Innocenzo III inaugurò il IV Concilio ecumenico lateranense in Roma, oltre a ribadire la funzione della crociata, emanò una serie di disposizioni, per porre gli eretici al bando della società. Onorio III, cinque anni più tardi, chiese addirittura che quelle norme, all’atto dell’incoronazione, fossero assunte da Federico II come norme dell’Impero. L’eresia dunque divenne un reato alla stregua di altri, perseguito penalmente oltre che canonicamente. Nel Concilio, Innocenzo raccolse poi una serie di trionfi che ristabilirono al meglio l’autorità della Chiesa di Roma e ridimensionarono gli Arabi – nel 1212 i re iberici vinsero con le armi cristiane gli infedeli a Las Navas de Tolosa – e videro all’azione nuovi Ordini religiosi: fra questi oltre ai Francescani e Domenicani prevalsero gli Ospedalieri e i Lazzaristi, impegnati nella cura degli infermi, i Trinitari, dediti al riscatto dei cristiani schiavi dei musulmani, i Carmelitani e gli Eremitani, più dappresso dedicatisi alla vita contemplativa.

Comunque nel 1215 Innocenzo III poté considerarsi quasi in tutto vincitore: Inghilterra, Aragona, León, Portogallo, Ungheria si dichiararono vassalli del papa e ne rispettarono l’autorità, mentre il cristianesimo si diffuse sempre più nelle terre del Nord Europa e anche nella penisola iberica gli Arabi conobbero le prime vere sconfitte.

Così, allorché nel novembre 1215 si celebrò il già ricordato IV Concilio Lateranense, Innocenzo procedette alla rinnovata condanna delle eresie e segnò l’ordine dei patriarcati – Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme – da porre sotto il primato morale e apostolico di Roma. Nel corso del Concilio si legiferò altresì sull’istituzione dei tribunali ecclesiastici e sulla disciplina degli Ordini monastici, soggetti alle regole benedettina e agostiniana. Fu inoltre sancito l’obbligo della confessione individuale per la remissione dei peccati e si impose ai cristiani di ricevere la Comunione almeno una volta l’anno, a Pasqua. Infine Innocenzo bandì una nuova crociata che avrebbe dovuto essere capeggiata da Federico II.

Per concludere, papa Innocenzo, esperto di teologia e di diritto fu allo stesso tempo eccezionale organizzatore e amministratore ecclesiastico nonché interprete delle più autentiche esigenze della società del tempo. Egli fu peraltro uno dei più significativi rappresentanti dei pontefici colti e diplomatici, ebbe precisa coscienza dell’arduo compito affidatogli e dell’ampiezza del suo potere. Egli infine compì una precisa formulazione del principio teocratico, ossia della teoria secondo la quale al papato spettò l’assoluto dominio su tutti i poteri e i potenti della terra.

Fra la morte di Innocenzo III (1216) e la fine dell’Impero di Federico II, nel 1250, si successero i pontificati del debole Onorio III, del forte Gregorio IX , di Celestino IV e di Innocenzo IV, tutti variamente impegnati, nel corso dell’annosa, profonda polemica fra papato e Impero a far rispettare al sovrano l’impegno preso e non mantenuto di intraprendere la crociata. Colpito dalla scomunica agli inizi del pontificato di Gregorio IX, Federico venne costretto a partire per l’Oriente, ove ebbe luogo una crociata secondo conclusioni e svolgimento diversi dal previsto.

Difatti Federico, onde abbreviare le ostilità, concluse un patto politicoeconomico con alcuni principi musulmani d’Egitto e di Siria, in base ai quali ricostituì il regno di Gerusalemme di cui fu re dopo il suo matrimonio con Iolanda di Brienne, ultima erede di quella corona. A questo atto senza precedenti successe una negativa reazione papale che stigmatizzò lo svevo per l’accordo concluso con gli infedeli, accordo con il quale si interruppe la guerra, mentre si accreditò in qualche modo la posizione dei Saraceni (1230).

Non è questo il luogo per ricostruire compiutamente vicende che esulano dai più diretti interessi della storia della Chiesa, ma va sottolineato come l’atteggiamento dell’imperatore mise in luce in qual misura, verso la metà del Duecento, si fosse modificato il punto di vista della cristianità sulla guerra santa, un tempo fermamente perseguita e poi, soprattutto in seguito alle sconfitte cristiane – le ultime due crociate di Luigi IX di Francia del 1248 in Egitto e del 1270 in Tunisia furono in questo senso del tutto illuminanti – non più accettata, anzi fermamente respinta dai fedeli e pure dal clero. Si cominciò dunque a ritenere, sebbene i pontefici apparissero di parere diverso, che per convertire gli infedeli e riportarli alla fede di Cristo, la guerra e la violenza non fossero i mezzi più adeguati.

Passando dalla crociata all’eresia – ma i due concetti in qualche modo finirono per coincidere per esempio ad Albi – il fatto che quest’ultima fu considerata come un reato punibile con la pena di morte per il peccatore ostinato e inoltre l’istituzione del Tribunale della Santa Inquisizione, esplicarono forme di rigoroso controllo che tuttavia non servirono a estirpare del tutto le manifestazioni di eterodossia.

Furono invece due i movimenti religiosi che riuscirono a infondere nuova forza alla spiritualità della Chiesa: quelli animati rispettivamente da san Domenico di Guzmán e da san Francesco d’Assisi.

Castigliano di Calaruega (1170-1221), il primo comprese la pericolosa situazione del Sud della Francia visitata allorché, al seguito di Diego di Osma, l’attraversò per recarsi in Italia. Domenico ebbe presto numerosi confratelli riuniti sotto la Regola approvata da Onorio III nel 1216, con cui si istituì l’Ordine dei Frati Predicatori, i quali rifiutarono le ricchezze e il possesso dei beni, per impegnarsi nella discettazione teologica a livello altamente culturale (fondamentale fu il loro apporto alla vita delle Università: si pensi in proposito a san Tommaso d’Aquino) e nella lotta contro l’eresia concretatasi mediante l’istituzione del Tribunale della Santa Inquisizione.

Più a fondo nella societas christiana penetrò tuttavia san Francesco d’Assisi (1182-1226), il quale, più che affermarsi sul piano della polemica antiereticale, volle propugnare la piena validità del messaggio evangelico e perciò scelse un modello di vita consumata a contatto della natura di cui esaltò la bellezza e la santità, una vita vissuta nella povertà di Cristo, spogliandosi di ogni bene e rinunciando persino alla proprietà collettiva sino ad allora consentita ai monaci. Pertanto ai Catari insegnò che si poteva amare la natura senza inquinarsi e ai Valdesi che si poteva prediligere la povertà, abitare in poverissime case, senza abbandonare la Chiesa di Roma.

Il successo dei Minoriti, la regola dei quali fu approvata oralmente nel 1210 da Innocenzo III cui seguì l’approvazione scritta e definitiva della Regula bullata accordata a Francesco da Onorio III nel 1223, fu travolgente. Sorsero centinaia di conventi che i successori di Francesco dopo il 1226 dovettero in qualche modo disciplinare e “governare”. Così nella prima metà del Duecento l’Ordine oscillò fra l’ambizione del generale Elia da Cortona e l’umile rigorismo di Giovanni da Parma e presto ne nacquero contrasti tra i frati distintisi in Spirituali e Conventuali.

La divisione si fece più profonda allorché il Francescanesimo s’incontrò con il profetismo escatologico di Gioacchino da Fiore. Alla fine del Duecento poi Francescanesimo e Gioachimismo si saldarono nel pensiero di Pietro di Giovanni Olivi il quale, postosi sulla strada un tempo appannaggio di Tommaso da Celano, Alessandro da Brema, Gerardo di Borgo San Donnino, san Bonaventura da Bagnoregio, Giovanni da Parma, Salimbene de Adam, presentò il Francescanesimo come il momento più compiuto della vicenda ecclesiastica e quindi come la quintessenza della purezza volta a redimere i fedeli, laddove l’alto clero e i pontefici misero in evidenza il declino di un tipo di organizzazione ecclesiastica che aveva fatto il suo tempo.

Contro le opere dell’Olivi si scatenarono pertanto gli inquisitori e numerosi seguaci finirono sul rogo, ma non si spense il suo pensiero che, influendo successivamente persino sull’Alighieri, riemerse in pieno Trecento nelle Epistulae sine nomine del Petrarca. Per via sotterranea e silenziosa, quasi come un limpido e puro fiume carsico, esso sfociò poi, sbocciando nuovamente alla luce, nella Riforma protestante del XVI secolo.

Abbiamo dianzi accennato appena ai contatti stabilitisi tra gruppi francescani devianti e il profetismo di Gioacchino da Fiore. Parleremo qui allora, tornando per qualche momento alle vicende del XII secolo, di quest’ultimo personaggio.

Gioacchino nacque intorno al 1145 a Celico, nella diocesi di Cosenza, e fu figlio di un notaio: appartenne quindi a quello che con parola moderna potremmo definire ceto medio. Dopo i suoi studi perciò, allorché raggiunse i venti anni o poco più, va collocato un pellegrinaggio in Terra Santa, da lui compiuto secondo l’itinerario consueto a quanti non facevano il viaggio interamente per mare: da Bari passò in Albania; di là, traversando la Tracia, raggiunse Costantinopoli, ove dopo una breve permanenza, ebbe la consapevolezza della sua vocazione monastica.

Da Costantinopoli Gioacchino andò in Siria, poi in Palestina, attraversando il deserto e visitando il lago di Genezaret e il Mar Morto.

A Gerusalemme, con precisione sul monte Tabor, si trattenne per 40 giorni in preghiera e meditazione. Quindi da uno dei porti palestinesi tornò per mare in Italia e sbarcò in Sicilia, donde, rientrato in Calabria senza toccare la casa paterna e la città natia, chiese asilo al chiostro calabrese cistercense di Sanbucina. Passò inoltre per vari centri monastici fino a che fu consacrato monaco a Corazzo, ove in seguito fu scelto come abate.

Tale nomina però costituì un pesante ostacolo per Gioacchino che, preferendo dedicarsi agli studi, il 29 agosto 1181 chiese e ottenne da papa Lucio III in Veroli il permesso di abbandonare altre incombenze di carattere amministrativo per attendere in prevalenza alla composizione delle sue opere.

Solo qualche anno dopo, però, nel 1187, da papa Clemente III fu autorizzato a dedicarsi interamente ai suoi lavori e con ciò implicitamente venne liberato dalla carica abbaziale e dalle numerose occupazioni che distruggevano la sua pace interiore.

Nel 1189 poi, il luogo dove si era ritirato e lo avevano seguito altri confratelli, al pari di lui desiderosi di solitudine e di meditazione, fu trasformato nell’abbazia di San Giovanni in Fiore: e ivi sorse in seguito l’Ordine Florense presto dotato di una Regola approvata da Celestino III con apposita bolla del 1196.

Ma questa fondazione e il suo riconoscimento coinvolsero Gioacchino in contrasti superati grazie al sostegno della regina Costanza d’Altavilla e di suo marito Enrico VI di Hohenstaufen. Tra queste vicende e l’impegno della stesura delle sue opere Gioacchino si spense nel 1202.

Naturalmente l’Ordine Florense non finì con lui: tuttavia, dopo un periodo di promettente espansione coincisa con la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, si iniziò una sua lenta decadenza, sino a che nel 1570 i Florensi superstiti rientrarono nell’Ordine cistercense.

Il fulcro del pensiero di Gioacchino è l’unità e trinità di Dio, da lui però non tanto considerata nell’interiorità del processo divino, quanto nel suo attuarsi sul piano storico. Egli vide perciò lo sviluppo dell’umanità come il manifestarsi progressivo della Provvidenza, in cui Dio si rivela nella Trinità delle Persone e nell’unità della sostanza: «Il Padre ci impose il peso della legge perché è timore; il Figlio ci impose il peso della disciplina perché è sapienza; lo Spirito Santo ci dà la libertà perché è amore. Dove infatti è il timore è la servitù, dove è il magistero è la disciplina, dove è amore è libertà. Ma poiché una è la volontà e l’operazione delle Tre persone, dal Padre è stata data all’uomo la Libertà perché è Padre e dal figlio è stata data perché è fratello e, diversamente, dallo Spirito Santo è stata imposta la servitù della buona azione perché è timore e sapienza».

Questa triplice azione di Dio ha un’esatta rispondenza nella Sacra Scrittura, «poiché vi sono due persone, di cui l’una è ingenerata e l’altra generata, sono stati due i Testamenti, di cui il primo è pertinente specialmente al Padre, il secondo al Figlio, perché è altro da altro; invero poi l’intelletto spirituale procede da tutti e due e in modo più speciale è pertinente allo Spirito Santo».

Scendendo sempre più sul piano concreto della storia, Gioacchino precisò ancora meglio: «bisogna sapere poi che la lettera del Vecchio Testamento fu affidata al popolo dei Giudei; la lettera del Nuovo al popolo romano; agli uomini spirituali invece fu affidata l’intelligenza spirituale procedente da entrambe».

Dopo le generazioni del Vecchio Testamento – gli Ebrei – e quelle del Nuovo – la Chiesa – verrà dunque un’età dello Spirito: cioè la terza età. E se nelle prime due età vi furono, come guida dei fedeli, prima il Vecchio e poi il Nuovo Testamento, così nella terza età, sempre mediante l’intelligenza spirituale, raggiungeremo l’Evangelo eterno, centro dell’umanità rinnovata, punto di riferimento dei cristiani scismatici, degli Ebrei e dei pagani.

Ma prima di giungere alla nuova età, si dovrà passare attraverso perigliose avversità; queste si concluderanno con la venuta di un primo Anticristo che metterà alla prova tutti i veri fedeli.

Una volta terminate tali sofferenze, si giungerà alla pace della terza età, in cui l’Ordine monastico – Gioacchino pensò forse al suo Ordine Florense – stenderà il suo potere salvifico su tutto il genere umano, ovunque introducendo serenità e quiete dello spirito. Anche questa pace però verrà turbata dal secondo Anticristo, il quale perseguiterà crudelmente i fedeli, per essere finalmente anch’egli travolto dall’ira sterminatrice di Dio.

Parlando dell’incontro tra Gioachimismo e Francescanesimo, deve in primo luogo considerarsi che un contatto fra i due movimenti non potrebbe aprioristicamente escludersi: basti pensare che gli ultimi anni della vita di Gioacchino coincisero con quelli della giovinezza di Francesco.

Non mancano poi altri punti di adesione: alla concezione gioachimita di una società globalmente cristiana, in cui tutto cospira all’unità della vita monasticamente intesa, fa da contrappunto l’ideale francescano di un giocondo senso di pietà, che permea tutto e tutti come un lievito riformatore: gli eletti non saranno pertanto solo quanti fuggono il mondo, ma anche i tanti rimastivi, volti a innalzare sempre più la loro vita sul piano soprannaturale, mediante l’adesione al “terzo ordine”.

Così alla rinuncia di tipo monastico facente capo a una sostanziale comunione di beni come la volle Gioacchino da Fiore, fa riscontro nel Francescanesimo l’esaltazione della perfetta povertà evangelica.

Un ulteriore punto di sutura rinveniamo poi nell’ostilità dei due movimenti verso le crociate, divenute alla fine del Duecento spedizioni quasi sempre armate, sotto la guida di capi militari privi non di rado di una vera spiritualità cristiana e spinti da interessi in prevalenza materiali.

Una sola divergenza di eccezionale portata distingue Francescani e Gioachimiti: non troviamo in san Francesco il senso dell’imminente fine dei tempi, costituente uno dei momenti peculiari della teorica gioachimita. Siamo pertanto indotti a ritenere che fra i due non fu possibile ipotizzare un rapporto di dipendenza concreto e alcun legame; le analogie pertanto vanno spiegate con circostanze similari di tempo, in cui si formarono e maturarono ambedue quelle esperienze storiche.

Tuttavia il Gioachimismo esercitò presto ragguardevoli influenze nell’ambito del Francescanesimo. Sfiorato ne fu indubbiamente Tommaso da Celano che vide in san Francesco un personaggio tipico di un’epoca ormai giunta alla fine.

Simili influenze si rinvengono nel commento all’Apocalisse di Alessandro di Brema e se ne rintracciano molteplici nella grande opera di Gerardo di Borgo San Donnino, l’Introductorius in Evangelium aeternum, che introdusse un’accesa lotta tra i professori laici e regolari dell’università parigina, lotta a cui parteciparono san Bonaventura di Bagnoregio e san Tommaso.

Alla fine del Duecento Pietro di Giovanni Olivi suggellò l’incontro tra Gioachimismo e Francescanesimo. Di Serignan, presso Béziers, nella Francia meridionale, allievo di san Bonaventura, fu una delle personalità più complesse e interessanti del suo tempo. Filosofo, teologo, esegeta, influì sui contemporanei, suscitandone l’amore e l’odio.

Nel Francescanesimo egli individuò il momento più caratteristico della storia della Chiesa e dell’umanità. L’Ordine infatti, allorché la gerarchia ecclesiastica era in decadenza e anche i papi cedevano all’ambizione mondana, rappresenta in toto la purezza capace di salvare i fedeli.

La sua concezione conobbe vasta eco in Provenza e quando l’Olivi venne a Firenze a insegnare ai giovani della città influì sull’idea che poi lo stesso Dante Alighieri ebbe a formarsi sulla Chiesa. Avverso l’Olivi, le sue opere e la stessa sua memoria, si scagliarono teologi ed inquisitori. Furono perseguitati i suoi seguaci, molti dei quali vennero bruciati sul rogo. Non morì però quel pensiero attraverso il quale la storia ecclesiastica del Duecento si ricongiunge a quella dell’età moderna.

Inoltre, uno stesso tipo di profetismo si trovò nell’Arbor vitae crucifixi Jesu di Ubertino da Casale, anch’egli in attesa di una rigenerazione della Chiesa. Importanti poi furono le profezie relative al papa angelico, applicate a Celestino V dallo spirituale Roberto di Uzès (1295-1296) uscite probabilmente dalla Comunità della Marca d’Ancona. A tali ambienti infatti si attribuirono numerosi vaticini che costituirono la traduzione del greco di altre consimili divinazioni trasmesse sotto il nome dell’imperatore Leone il Saggio. Molte di tali predizioni finirono poi nel Liber de Flore ove si sviluppò l’idea del papa angelico incarnato da quattro persone successive; una tradizione eguale fu conosciuta, ad esempio, a metà Trecento, da Cola di Rienzo che ne ebbe certezza attraverso i monaci di Santo Spirito a Maiella. Simili pronostici tornarono in seguito in Nostradamus e, alla fine del Cinquecento, nello Pseudo-Malachia.

La Chiesa della seconda metà del Duecento, rafforzata dai nuovi Ordini dei Predicatori e dei Minori, liberata dalla pesante tutela rappresentata dalla potenza sveva, avrebbe dovuto conoscere un periodo di pace e di equilibrio che le consentisse di riprendere le fila del programma non attuato. Invece essa apparve turbata, oltre che dalle perduranti eresie, dalla crisi che divise il Sacro Collegio dei cardinali, ridotto a pochi membri – giunse persino a dieci e raramente superò i venti – spesso usciti dalle nobili famiglie romane degli Orsini, Colonna, Annibaldi, Savelli, tra loro concorrenti e nemici. Ciò tuttavia non volle dire che i pontefici non avessero acquisito sempre maggior potere, alla pari con i sovrani temporali, cosicché la sicurezza dei loro domini divenne condizione necessaria all’autonomo esercizio della sovranità spirituale.

I papi allora imposero l’elezione canonica dei vescovi e una maggiore moralità al clero, respinsero gli eretici, mirando a comporre un equilibrio politico atto ad assicurare l’indipendenza dello stato papale, staccando il regno del Sud Italia dall’Impero. Gregorio IX poi organizzò la cultura giuridica e fu dotto codificatore di decretali, ammise un aristotelismo mitigato, emendato e corretto al servizio della teologia e organizzò un modello di regolare tipologia inquisitoria.

Innocenzo IV a sua volta si propose di liberare la Chiesa dall’ipoteca politica imperiale; ma fu Gregorio X (1271-1276), Tedaldo Visconti da Piacenza, che cercò per primo, durante il suo pontificato, di attuare il programma più intenso di riforme ecclesiastiche. In lui il pensiero della inattuata crociata che egli tornò a proclamare e la ricerca di capi che la guidassero, andò di pari passo con una sua nuova, positiva valutazione dell’ideale imperiale, vincolo morale e politico tra i popoli occidentali.

Oltre al reperimento di un candidato all’Impero che garantisse con l’unità e la pacificazione dell’Occidente il progetto di conquista della Terra Santa, Gregorio si propose di ridurre il potere dilagante degli Angioini nel Mediterraneo, un potere destinato sempre più a scontrarsi con quello degli imperatori bizantini, compromettendo in tal modo la pace.

Nel Concilio di Lione del 1274 papa Visconti seppe inoltre riunire sia pure per breve tempo, le due Chiese d’Oriente e d’Occidente. Nella sessione del 6 luglio infatti fu proclamato il ritorno della Chiesa di Costantinopoli all’unità cattolica e all’obbedienza del pontefice. I Greci si associarono al canto del Credo con il Filioque. Nelle sessioni precedenti poi si trattò di materie disciplinari intese a sottrarre i sacerdoti alla corruzione rafforzando Domenicani, Francescani e Benedettini. Inoltre Gregorio procedette a una riforma del Conclave nell’intento di segregare i cardinali durante il periodo della elezione, onde costringerli a una più rapida conclusione dei troppo lunghi tempi di vacanza papale.

Tutto ciò comunque non riuscì a sanare completamente la crisi; i conclavi furono sempre lunghi e difficili come a Viterbo (1268-1271), durarono anni e terminarono con elezioni di compromesso di estranei al Sacro Collegio, quale lo stesso Gregorio X, arcidiacono della Chiesa di Liegi. Dopo il quasi interminabile Conclave di Roma e di Perugia (1292-1294) fu scelto Celestino V (1294), considerato il papa degli spirituali – fra questi ricorderemo anche Jacopone da Todi – in contrasto con la Chiesa carnale. Presto però il nuovo papa si avvide dell’impossibilità di realizzare il rinnovamento della Chiesa e si rivolse ai giuristi di Curia per sapere se un pontefice potesse temporaneamente interrompere il suo mandato. Ottenuta una risposta negativa, dopo appena quattro mesi abbandonò ugualmente e definitivamente il pontificato, dando luogo al cosiddetto gran rifiuto, in seguito al quale tornò alla vita eremitica.

Immediatamente gli successe Benedetto Caetani, Bonifacio VIII (1295-1303), che lo fece catturare e languire fino alla morte (1296) nella fortezza di Fumone. Questi, oggetto delle accese critiche degli Spirituali specialmente in seguito alla cattura di Celestino e alla revoca delle decisioni da quegli assunte nel breve periodo del suo governo, riprese in pieno il programma teocratico di Gregorio VII , di Innocenzo III e di Gregorio IX , con energia pari alla difficoltà dei suoi tempi.

Memorabile fra gli eventi del suo papato rimane l’attuazione del primo Giubileo del 1300, con cui fu concessa la remissione totale delle pene temporali alla moltitudine dei pellegrini convenuti a Roma, i quali negli ultimi anni del secolo si erano moltiplicati per compiere un viaggio missionario, il cui fine fu quello di comunicarsi e confessarsi nell’Urbe sulle tombe degli apostoli.

La complessa situazione della Chiesa romana e del pontificato, il succedersi dei lunghi conclavi, le elezioni di compromesso non preclusero tuttavia il progresso degli studi. Guardato agli inizi con sospetto e osteggiato, l’aristotelismo fece il suo ingresso in tutte le università al servizio della teologia, modificandone in parte l’esposizione. Negli studi teologici allora in gran voga prevalsero Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Alessandro di Hales e Bonaventura di Bagnoregio, Ruggero Bacone e Giovanni Duns Scoto. Certo non è qui possibile rendere, sia pure per sommi capi, il senso dell’immane sforzo compiuto dalla cultura medievale per dare una sistemazione alle scienze e una risposta ai massimi problemi della conoscenza. Ma grande fu l’impegno complessivo e altrettanto lo furono i risultati conseguiti.

Fiorì allora fra l’altro in Germania la mistica speculativa di Maestro Eckhart, del quale Giovanni XXII avrebbe condannato ben ventotto proposizioni, riconoscendo nello stesso tempo la sua sottomissione al papato. Ricorderemo altresì gli studi mistici del Taulero, del beato Suso di Ruysbruck, mentre per l’Italia menzioneremo gli slanci mistici di Angela da Foligno e del beato Giovanni Colombini.

In Italia soprattutto vantò risultati positivi la letteratura ascetica con le opere di Giordano da Ripalta, Jacopo Passavanti e Domenico Cavalca. Nelle strade cittadine e nelle campagne risuonarono i canti segnati dal profondo spirito escatologico del movimento dei Flagellanti degli anni intorno al 1260, l’anno del preteso passaggio dall’età del Figlio a quella dello Spirito, il momento in cui predicarono Gerardo Segarelli, fra Dolcino e alcuni dei loro discepoli. Il popolo dei fedeli accorse allora sempre più numeroso ad ascoltare le prediche, le letture commentate della Bibbia, le sacre rappresentazioni, celebrate nelle ampie e solenni cattedrali gotiche.

Alla liturgia fattasi sempre più ricca ed espressiva recarono il loro alto contributo di idee dotti teologi come i già nominati Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Tutto ciò non potrà farci dimenticare però la pari affermazione di una letteratura e di una poesia sviluppatesi presso le corti come, per esempio, quella della scuola poetica siciliana fiorita presso Federico II e il suo cenacolo di poeti e letterati.

Dopo la scomparsa di Bonifacio VIII, da mettersi anche in rapporto alla sua annosa contesa con Filippo IV il Bello di Francia e con la famiglia Colonna – l’uno e l’altra fecero assalire in Anagni il pontefice, provocando alla Chiesa un vulnus che impressionò profondamente tutta la cristianità e, fra l’altro, Dante Alighieri che ricordò nella Divina Commedia il tragico episodio del preteso “schiaffo” di Anagni –, per la istituzione ecclesiastica si inaugurò un periodo di regresso. In seguito al lungo conclave di Perugia (1304-1305) durante il quale si acuirono ancor più le divisioni fra i cardinali italiani, si determinò la situazione che fece prevalere i porporati francesi, i quali decisero di scegliere ancora una volta un pontefice estraneo al Sacro Collegio, ovvero l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, Clemente V (1305-1314).

Il nuovo papa ricevette la consacrazione in Francia, cosa inconsueta, e l’incoronazione avvenne alla presenza di Filippo il Bello e Carlo di Valois. Dopo un primo periodo il papa si trasferì stabilmente ad Avignone, un possesso degli Angioini circondato dal Contado Venassino più tardi venduto alla Chiesa, ove Clemente pose la sua residenza, presto ivi raggiunto dai cardinali e dagli uffici di Curia.

Ebbe pertanto inizio il periodo del papato avignonese detto pure “Cattività avignonese” (1305-1377) in ricordo della prigionia degli Ebrei in Babilonia la cui durata fu pressappoco la stessa.

Di solito, soprattutto in passato, tal settantennio venne definito di grave regresso per la Chiesa e le sue istituzioni, mentre la critica storica più recente ha rilevato come il papato, collocato durante il periodo suddetto nel cuore dell’Europa, meglio influì sulle scelte dei regni nazionali e dell’Impero sempre meno propenso a subire il volere del pontificato. Certo la vicinanza con la Francia accostò inizialmente in modo considerevole gli interessi ecclesiastici a quelli di Filippo IV. Per compiacerlo difatti, Clemente istituì un processo alla memoria di Bonifacio VIII e soppresse l’Ordine dei Templari delle cui sostanze entrò in possesso la corona francese.

Rimasto deserto durante le more di un interminabile conclave (1314-1316), il papato fu poi assunto da Giovanni XXII (1316-1334). Giunse poi la volta di Benedetto XII, Clemente VI,Innocenzo VI,Urbano V e Gregorio XI.

Anche durante gli anni di assenza del papa, Roma riuscì, sebbene in crisi, a rimanere punto di riferimento di numerosi pellegrini che vennero a visitare le tombe degli apostoli in occasione del II Giubileo celebrato nel 1350. Tuttavia l’assenza del papa che lasciò l’Urbe “vedova” e “sola”, creò una condizione negativa presto riflessasi in tutte le diocesi del Patrimonium Sancti Petri e dell’Italia centrale. Per risollevare l’autorità ecclesiastica scossa dalla lunga assenza, i pontefici avignonesi inviarono a Roma appositi legati papali – fra i quali si distinsero in particolare il cardinale Bertrando del Poggetto ed Egidio Albornoz – con l’incarico di riportare all’obbedienza e all’Osservanza i domini papali suddivisi nelle sette province – Romagna, Marca di Ancona, Ducato di Spoleto, Tuscia, Sabina, Marittima e Campagna – nel loro insieme presiedute da un rettore dotato di poteri assoluti, ma durante il papato avignonese non di rado esautorato dai nobili e dagli amministratori locali.

Peraltro i riflessi negativi della lunga assenza non potevano essere cancellati se non dal papa. Perciò Urbano V (1362-1370) tornò una prima volta a Roma nel 1368, ma nonostante le preghiere dei Romani e di Santa Brigida di Svezia che predisse la morte del pontefice, poi puntualmente verificatasi, se egli avesse abbandonato la sede degli apostoli per rientrare ad Avignone, Urbano lasciò l’Urbe dopo meno di tre anni per riguadagnare la sua sede transalpina. Gregorio XI , francese anch’egli (1370-1378), dopo tre ambascerie dei Romani e le pressanti istanze di Caterina da Siena, attuò finalmente il proposito manifestato all’atto della sua elezione e il 17 gennaio 1377 riapparì definitivamente nella sua sede naturale.

L’assenza dei pontefici da Roma aveva portato con sé anche un accresciuto disordine nella vita degli Ordini religiosi, in particolare di quello francescano, al cui interno si aggravarono i contrasti fra Spirituali e Conventuali , lodevolmente portati alla difesa del contenuto di povertà e di purezza della Regola, ma forse non sufficientemente consapevoli del precetto fondamentale di Francesco che nel suo Testamento aveva proclamato quale bene supremo l’unità della Chiesa. Si affermarono invece nell’Ordine Minore i Fraticelli, poi condannati nel Concilio di Vienne nel Delfinato (1324), concilio nel cui svolgimento si evidenziarono taluni errori dogmatici di tali religiosi, in forza dei quali essi sostennero che il battesimo cancellava il peccato originale ma non infondeva la grazia e inoltre affermarono che ogni uomo era costituito da un principio di attività – o forma vegetativa e sensitiva – e da un unico intelletto o anima ragionevolmente volta, secondo la teoria averroista, a informare il genere umano.

Gli Spirituali ribelli – fra cui Guglielmo di Occam, un fiero polemista fautore della sottrazione dell’autorità statale al papato, negatore fra l’altro della teoria dell’infallibilità pontificia tesa a riguardare, secondo il suo parere, solo la Scrittura e i dogmi accettati dai fedeli – trovarono sostegno presso l’imperatore Ludovico il Bavaro che nel 1328 fece eleggere in Roma, ove prese la corona imperiale, l’antipapa Niccolò V, Pietro da Corvara.

Tra i fautori di Ludovico il Bavaro va ricordato fra l’altro anzitutto Marsilio da Padova, l’autore del Defensor pacis , opera in cui si esaltarono i diritti dello stato, si criticò il criterio secondo cui il papa, per reperire risorse, moltiplicò l’imposizione di decime, all’inizio pagate per organizzare la crociata e poi mantenute per il finanziamento della politica generale del papato, e, all’interno della Chiesa, si cominciò a far strada il concetto della superiorità del Concilio sul pontefice. Sui princìpi di affermazione dello stato nazionale si soffermarono poi Pietro di Blois, Pierre Flotte e Guglielmo di Nogaret.

Urbano VI,Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari (1378-1389), va ricordato per più motivi: fu il primo Vicario di Cristo eletto dopo il periodo avignonese, il primo italiano dopo sette francesi e l’ultimo pontefice preso al di fuori del collegio dei cardinali. Disposto al rafforzamento dell’elemento italiano, nel conclave fu subito bloccato dai porporati francesi che, riunitisi poco dopo nel Concilio di Fondi, gli contrapposero un antipapa, Roberto di Ginevra, con il nome di Clemente VII (1378-1394). Cominciò in tal modo un lungo periodo di divisione nell’ambito della Chiesa occidentale.

Ebbe pertanto inizio il lungo periodo del grande scisma, durante il quale si elessero contemporaneamente papi di Osservanza romana e avignonese.

La situazione ecclesiastica in tal modo si cristallizzò e i due collegi cardinalizi, allorché uno dei due pontefici venne a mancare, procedettero con ulteriori distinte nomine ritenute regolari. Senza proporre un elenco di papi e antipapi alla lunga non utile, basterà qui dire che nel 1406, dopo un trentennio risultarono intronizzati Gregorio XII (1406-1409) a Roma e Benedetto XIII (1394-1409) ad Avignone. Nel 1409 poi si convocò il cosiddetto conciliabolo di Pisa, nel cui corso le divisioni si rivelarono tanto profonde che vennero deposti sia Gregorio XII sia Benedetto XIII, mentre si elesse un terzo pontefice denominato della “Riconciliazione” nella persona dell’arcivescovo di Milano che prese il nome di Alessandro V (1409-1410) e fissò una terza residenza pontificia a Bologna.

L’iniziativa però non fu vista positivamente, ma ciononostante alla già esistente doppia via avignonese e romana se ne aggiunse ugualmente una terza: la pisana-bolognese, con il che la cristianità toccò il massimo della confusione. Un risultato si ottenne tuttavia nell’assise toscana: il nuovo papa, chiunque esso fosse, avrebbe dovuto convocare un Concilio ecumenico per chiarire la situazione, sino in fondo.

Si fece così strada l’idea della proclamazione di un Concilio con la partecipazione di esponenti di tutte le diocesi nonché degli abbaziati dell’intera cattolicità. A dar corpo a questa tendenza furono Giovanni XXII i, antipapa pisano, e l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. La prima riunione dei padri conciliari ebbe luogo nella sede di Costanza (1414-1418) in Germania, scelta da Sigismondo per controllare meglio la situazione.

Il sinodo si inaugurò il 5 novembre 1414 con la partecipazione di esponenti delle case regnanti, di teologi e canonisti e di una ragguardevole rappresentanza di diocesi e abbazie. L’innovazione più importante introdotta in Costanza fu la deliberazione del 6 aprile 1414 con cui il Concilio universale venne dichiarato diretto rappresentante ed emanazione della Chiesa militante mentre il suo potere derivava direttamente da Cristo.

All’imponente assise intervenne però solo Giovanni XXII i che si ritenne il più forte, ma inauguratasi l’assemblea egli ne constatò l’ostilità. Disdisse allora la riunione e fuggì; ma la macchina organizzativa conciliare già operante non si fermò, depose i tre pontefici ed elesse nuovo papa Martino V Colonna (1417), il quale indisse una nuova riunione ecumenica a Basilea nel 1431 cui tuttavia non poté partecipare per la sopravvenuta morte.

Il grave compito fu allora assolto dal veneziano Gabriele Condulmer – Eugenio IV – il quale nella sede basileese (1431-1439) resse all’urto della maggioranza dei vescovi, in prevalenza paga della forza del conciliarismo e quindi della necessità di sottrarre l’autorità universale al papa. Per timore della minaccia turca e per evitare l’assalto dei novatori Eugenio spostò la sede conciliare prima a Ferrara, poi a Firenze (1439).

I prelati più autorevoli obbedirono al successore di Pietro, i più sfrenati invece deposero Eugenio IV ed elessero Amedeo VIII di Savoia con il nome di Felice V , l’ultimo antipapa della storia. Ma le divisioni nell’ambito dei conciliaristi e soprattutto la riconciliazione della Chiesa latina con la greca, ottenuta da Eugenio IV per allontanare il pericolo turco, rialzarono il prestigio ecclesiastico romano. Con la rinuncia di Felice V si concluse lo scisma e si restaurò l’unità dei cattolici.

Una peculiarità distinse tuttavia questo periodo, ossia quella consistente nel fatto che anche princìpi giuridici, posti fuori dell’ortodossia cattolica, vennero ritenuti legittimi, mentre personalità orientate verso il pastore ultramontano, furono riconosciute incolpevoli – necessitate impellente – e anche fautori degli antipapi come Vincenzo Ferrer risultarono elevati agli onori degli altari.

In questo periodo si giustificò poi il principio secondo il quale il concilio ecumenico fu considerato l’organo supremo della Chiesa. Teologi come Corrado di Gelnhausen, autore della Epistula concordantiae, Pietro di Ailly e Giovanni Gerson si confermarono nel parere che l’imperitura costituzione ecclesiastica poggiasse sull’insieme dei fedeli, rappresentati dalle assise ecumeniche, mentre la subordinazione della Chiesa al papa rappresentasse un fatto contingente. Tali teorie crearono però controversie. D’Ailly ritenne il Concilio non infallibile, mentre di differente parere fu il Gerson che avrebbe voluto estendere l’assise anche ai parroci e postulò la divisione della Chiesa universale in un insieme di chiese nazionali.

Tutti poi furono dell’avviso che si ponesse l’imprescindibile esigenza di una radicale riforma della Chiesa, da riportare il più vicino possibile agli insegnamenti e agli intendimenti di Cristo. Per tutto il Quattrocento si consolidò pertanto la formula della reformatio in capite et in membris destinata a venire incontro a diffuse esigenze della società.

Oltre alle giuste riforme, però, l’opinione pubblica dei fedeli fu contraria alle polemiche dei canonisti e alle divisioni che volle vedere ricomposte e superate. Comunque, si deve dire che la crisi, forte ai vertici della cristianità non si ripercosse che debolmente sulla compagine sana della Chiesa che continuò ad amministrare i sacramenti, a dare assistenza ai fedeli che continuarono a ricorrere a parroci, vescovi, abati e monaci, senza preoccuparsi troppo di quanto accadeva in alto loco. Questo non vuol dire però che lo scisma non turbò la coscienza di molti esponenti del clero e non conferì vigore alle correnti ereticali.

Una sana reazione alle divisioni intestine dei pontefici venne tuttavia dai Paesi Bassi, ove trovò diffusione presto estesasi in altre parti dell’Occidente il cosiddetto movimento della Devotio moderna, basato su pratiche ed esami di coscienza individuali, nonché su esperienze legate al singolo fedele, esperienze che rifuggirono dalle pratiche collettive – pentimenti, penitenze, perdonanze – destinate a contrassegnare la concezione cristiana medievale, mentre proprio la nuova Devotio intese realizzare nell’ambito della vita quotidiana l’imitazione di Cristo.

L’intervento a Costanza dell’imperatore Sigismondo, utile per assicurare regolarità al Concilio, aprì tuttavia una grave crisi teologica, in quanto uno dei teologi partecipanti all’assise, il boemo Giovanni Hus, forse indottovi dalla presenza del suo sovrano, assunse una posizione estremistica che finì per comprometterlo e perderlo definitivamente. Hus in Praga aveva ricevuto una soddisfacente formazione teologica, poi era lì rimasto come professore, quindi come rettore dell’università praghese, unendo il magistero scientifico con quello pastorale, predicando in lingua boema e non in latino, ottenendo grande successo pur essendosi discostato sensibilmente dall’ortodossia.

Influenzato dalla dottrina di Giovanni Wycliffe (1324-1384), banditore della riforma religiosa in Inghilterra, quindi perseguitato come i suoi seguaci – i Lollardi –, e altresì suggestionato da una fiorente e autonoma tradizione teologica boema, affinata dal confronto con la cultura di un’agguerrita Chiesa rabbinica, Giovanni si propose la riforma della Chiesa, la diminuzione dei poteri del pontefice e inoltre l’autorità esclusiva della Sacra Scrittura, superiore a ogni altra, anche a quella del clero.

Anzi – sostenne Hus – se il predominio pontificio andava respinto, altrettanto doveva esserlo quello degli ecclesiastici di origine quasi interamente feudale, chiuso e privo di aperture verso la società e le sue esigenze pubbliche e nazionali. Così alla sottovalutazione del papato egli aggiungeva quella dei religiosi regolari e secolari. Nella protesta hussita si accoppiarono poi princìpi e finalità di carattere squisitamente politico ed economico. Egli infatti esaltò il predominio ceco e la difesa dei deboli, degli oppressi, segnatamente dei contadini sistematicamente soffocati da un clero amico dei mercanti, avido di benefici e danaro, quindi corrotto.

Chiamato a discolparsi di fronte all’assise conciliare che non apprezzava per nulla posizioni volte a screditare anche il Conciliarismo, in nome di princìpi politici serpeggianti a Costanza e in parte ascoltati dalle delegazioni nazionali, il teologo boemo fu violentemente accusato da Pietro di Ailly che ne definì la posizione come pericolosa eresia. L’estremismo di Ailly indusse però Hus ad assumere atteggiamenti altrettanto oltranzisti e polemici che in certo modo egli si sentì autorizzato a ostentare, data la presenza già ricordata dell’imperatore Sigismondo. Questi infatti, allorché il boemo si rifiutò di ritrattare le sue argomentazioni, gli concesse un salvacondotto, che però non servì a salvare la vittima dal rogo (1415).

Il processo e la morte del riformatore, seguiti a Praga con attenzione a un tempo stesso politica e religiosa, produssero costernazione e rabbia, e pertanto si creò in quella terra un moto che per decenni sconvolse il mondo boemo e lo allontanò dall’Europa. La reazione immediata alla morte di Hus fu il drammatico coinvolgimento nella vicenda hussita del discepolo del teologo ucciso, Gerolamo da Praga, il quale riassunse e ribadì davanti al Concilio le posizioni dello sventurato maestro, con il risultato di finire anch’egli condannato alle fiamme nel 1416.

I drammatici eventi di Costanza e la passione nazionale ceca trasformarono in seguito un moto di protesta religiosa in un movimento rivoluzionario. Gli Hussiti divennero forti nelle città e più ancora nelle campagne, dove difficilmente poterono essere colpiti dai fulmini della giustizia. Le loro riunioni quindi furono piuttosto libere e si tennero in luoghi chiamati con nomi biblici. Per esempio la città di Hradista diventò Tabor, di qui il movimento detto dei Taboriti , il cui capo Giovanni Ziska con un agguerrito esercito entrò nella città di Praga il 31 luglio 1419.

La morte dell’imperatore Venceslao (1419) aggravò la situazione e il successore Sigismondo che voleva accedere alla corona boema fu respinto. Ne nacque la grande rivoluzione nazionale boema di carattere unitario sul piano politico, ma pericolosamente divisa su quello della fede. Gli Hussiti infatti si frazionarono in due correnti, una moderata e l’altra oltranzista.

I moderati rifiutarono di farsi passare per scismatici o eretici, manifestarono un intimo rispetto per la fede che essi intesero mettere in salvo con il controllo di un collegio di maestri e di teologi dell’Università di Praga, e si prefissero in sostanza di battersi per il ritorno al Vangelo, per una maggiore morigeratezza del clero, soprattutto di quello trasformatosi in un’accolta di ricchi proprietari terrieri a contatto con i contadini.

Per quanto concerne la liturgia poi la loro più importante riforma consistette nella comunione sotto le due specie del pane e del vino – sub utraque specie, e per questo furono chiamati Utraquisti – secondo un rito tradizionalmente seguito nelle terre orientali e dell’Est, in particolare dai cristiani di confessione ortodossa.

Gli oltranzisti invece, detti anche Taboriti dalla località dianzi ricordata o adepti della Chiesa dell’Anticristo , rifiutarono qualsiasi gerarchia e si limitarono soprattutto a far proseliti fra i contadini dei quali vollero preservare le terre, anche quelle da loro requisite con la violenza al clero di campagna, e proclamarono la rivoluzione nelle città in nome della natio dei Cechi, da sottrarre a ogni tendenza e presenza germanica.

Sul piano liturgico essi proclamarono l’abolizione dei sacramenti, meno quelli del Battesimo e dell’Eucarestia nella quale rifiutarono la presenza reale del Cristo, considerata solo un fatto di natura spirituale e simbolica. Vennero respinte le pratiche ascetiche, i digiuni, le penitenze, i voti, i pellegrinaggi, le preghiere per i defunti e la più moderna concezione del Purgatorio di cui, non trovandosi menzione alcuna nei testi sacri, fu richiesto il completo e radicale allontanamento, mentre l’aldilà venne ridotto alla più tradizionale dottrina legata ai novissima, ossia all’Inferno e al Paradiso.

Unico mediatore tra Dio e l’uomo fu ritenuto Gesù, mentre ogni altro elemento soprannaturale o naturale – compreso il culto della Vergine e dei santi – venne svalutato e accantonato. Sul piano politico i Taboriti propugnarono l’uguaglianza e la lotta contro i poteri feudali, mentre si batterono per l’acquisizione di forme di libertà ancora inattuali per la società ceca e in genere per quella occidentale. Così contro Hussiti e Taboriti furono scatenate quattro crociate che annegarono nel sangue e nelle repressioni più crudeli un movimento a carattere nazionale, nel quale però era assai vivo il sentimento di rinnovamento della Chiesa secondo tendenze e accenti, che si ritroveranno nel secolo successivo in ambito protestante.

La lotta tra cattolici Hussiti e Taboriti, data anche l’impossibilità di giungere a un accordo invano richiesto da Eugenio IV al Concilio basileese, durò per decenni e si rivelò di una violenza inaudita. Momento importante e drammatico di tale sommossa fu la battaglia di Domàzlice dell’agosto 1420 in cui Utraquisti , Chiesa dell’Anticristo e Hussiti vinsero i Tedeschi. Negli anni successivi si radicò pertanto la convinzione che non sarebbe stato possibile annientare un movimento che comunque sconvolse e distrusse economicamente la ricca Boemia e allontanò pericolosamente una civile popolazione dall’Occidente e dalla sua tradizione culturale.

Quanto sin qui rappresentato mette in evidenza come il Quattrocento sia un secolo di grandi fermenti religiosi, vuoi da parte degli osservanti, vuoi da parte dei riformatori, in ogni terra del continente fermamente convinti dell’opportunità di un cambiamento radicale ancora in gran parte ritenuto praticabile all’interno del vecchio tessuto connettivo ecclesiastico, ma che non si volle più procrastinare in forza di argomenti ormai superati e divenuti oggetto di forti tensioni religiose e di carattere sociale.

I riformatori poi a loro volta si divisero fra quanti con la trasformazione della Chiesa intesero proporre una diversa gestione dei rapporti fra governanti e governati – fra questi primeggiarono gli Hussiti – e quanti invece, per i loro atteggiamenti spirituali più che ispirati a mutamenti politici o a dottrine ereticali, si ricollegarono a precedenti aspetti di rigorismo morale che in seguito non trovarono accoglienza e influenza se non nella società riformata del xvi secolo.

Fra i “novatori” si contraddistinguerà alla fine del Quattrocento il domenicano Girolamo Savonarola. Questi era venuto a Firenze nel 1490, per stabilirsi nel convento di San Marco e quasi subito aveva conseguito nomea di grande fustigatore della corruzione dilagante, affermatasi con il consolidarsi degli ideali del primo Rinascimento. Più rigoroso di ogni altro predicatore del XV secolo, egli intese ricondurre la città di Lorenzo il Magnifico e di Giuliano de’ Medici all’austera vita di comunità monastica e, nella certezza di esser stato investito di una profetica missione, prevedeva per i Fiorentini l’addensarsi di nere nuvole e tremendi castighi, se essi non si fossero ravveduti e convertiti. La Chiesa si sarebbe rinnovata – egli profetava – ma prima sarebbe stata flagellata e tali vicende avrebbero dovuto concludersi con tutta velocità. Un nuovo Ciro sarebbe poi giunto a punire l’Italia e la Chiesa per aver smarrito la legge di Dio al pari dello stesso Ciro, con una sorta di flagello, che avrebbe raffigurato la mano vendicatrice di Dio nei riguardi degli Ebrei che si erano allontanati dalla giustizia. I tempi nuovi di cui si aspettava l’annuncio sarebbero dunque finalmente giunti e dovevano attendersi nel dolore e nella penitenza.

Il sincero travaglio delle coscienze, consono alle età di passaggio, e il conturbante spettacolo della dilagante corruzione che durante il pontificato di Alessandro VI,papa Borgia, investì la stessa Curia, conferirono all’attività predicatoria del riformatore fiorentino una pregnanza invero particolare.

Poi, allorché alle porte della città del fiore si appressò l’esercito di Carlo VIII di Francia che a molti parve incarnare il vaticinato, novello Ciro mandato dal cielo a colpire l’Italia e la Chiesa per le loro trasgressioni, crebbero in misura eccezionale l’autorevolezza del frate e la fiducia nelle sue virtù divinatorie. Una folla immensa sul far del giorno si appressava a Santa Maria del Fiore per udire l’ispirata parola del Savonarola, i cui seguaci, volti a piangere per la tristezza dei tempi e a profetare sempre nuove, terribili sventure, vennero denominati Piagnoni.

Nella parola e nell’esempio del frate è facile pertanto rinvenire atteggiamenti consoni al tempo in cui più forte si accese il contrasto fra Ecclesia spiritualis ed Ecclesia carnalis, fra quanti condannarono la vita mondana del clero e invocarono il suo ritorno all’esaltazione degli ideali monastici e quanti invece ritennero superati i termini di un’ascesi ormai non più proponibile come modello di vita.

L’impresa di Carlo VIII in Italia travolse più tardi i Medici e Firenze scelse, fra l’altro, un governo democratico guidato dallo stesso Savonarola. La sua Signoria fu costituita da un Gonfaloniere, da otto Priori assistiti da due Consigli popolari, il Consiglio degli Ottanta e il Consiglio maggiore.

Sul suddetto governo il Savonarola esercitò un’influenza profonda. Nel 1496 Cristo fu proclamato re di Firenze e nello stesso tempo schiere di giovani proseliti del Domenicano girarono per le strade, entrarono nelle case per spiare e denunciare i bestemmiatori, i giocatori, per requisire specchi, libri proibiti, oggetti atti a incoraggiare l’immoralità, abiti lussuosi, materiale per il trucco, profumi, e tutte queste Vanità, ammucchiate nelle vie e nelle piazze, vennero date alle fiamme, mentre i canti e le invocazioni religiose dei Piagnoni accompagnarono quella triste attività. Naturalmente i seguaci dei Medici – i Palleschi denominati così dallo stemma mediceo formato da sei palle – e gli Arrabbiati, i sostenitori della vecchia oligarchia fiorentina, ostacolarono l’opera savonaroliana, mettendo in evidenza i pericoli del fanatismo e del nuovo assolutismo in continua ascesa.

A questo punto Savonarola cominciò a prendere la parola contro Alessandro VI e si ribellò ai messi papali che gli intimarono di sospendere la predicazione. Lo stesso governo fiorentino, minacciato di interdetto, non poté più sostenere il nuovo signore di Firenze che, caduto nelle mani dei Palleschi e degli Arrabbiati unitisi per por fine all’inconsueto esperimento, fu portato al cospetto di un tribunale ecclesiastico che lo condannò come eretico e lo fece bruciare vivo in piazza della Signoria il 28 maggio 1498.

Più di quanto non sia a prima vista ravvisabile, l’esperienza savonaroliana fu ispirata dall’Umanesimo, alimentandosi delle condizioni spirituali favorite dalla cultura e dalla civiltà del Rinascimento. Dallo stesso Umanesimo invece poco trasse spunto la Riforma germanica. Infatti, il cristianesimo degli umanisti si ispirò largamente alla filosofia neoplatonica che attribuì agli Evangeli un senso più spirituale e morale che teologico e fece del Cristo in certa misura più il banditore eccezionale di un rinnovamento spirituale che non il Redentore, figlio di Dio.

La Riforma germanica, all’opposto, nacque da una durissima requisitoria contro gli umanisti, nonché contro la mondanità del clero – dei pontefici anzitutto – e avverso la trasgressione della Chiesa, considerate filiazioni della cultura rinascimentale; inoltre, la Riforma stessa prese consistenza dalla passione dei riformati per la storia della Ecclesia primitiva e segnatamente degli antichi scrittori cristiani, di cui si misero in evidenza le discrepanze con i successivi sviluppi della dottrina ecclesiologica e delle sue applicazioni. Così il Reuchlin, il Le Fèvre d’ È taples, Ulrico di Hutten e soprattutto Erasmo da Rotterdam sembrarono propedeutici alla Riforma che quasi invocarono.

In egual modo i riformatori germanici si avvalsero largamente dell’invenzione della stampa e della pubblicazione dei testi della Sacra Scrittura – negli anni fra il 1475 e il 1487 si annoverarono circa 400 edizioni di testi biblici – e inoltre fecero leva sul sentimento nazionale che si aprì la strada agli inizi dell’età moderna nei principali Stati occidentali e che rafforzò la nascita delle Chiese nazionali. I “novatori” infine poggiarono l’accento sulle prerogative peculiari dello stato, nel cui nome si contrastarono nell’ambito della lotta religiosa e anche autonomamente, i privilegi ecclesiastici e il fiscalismo oppressivo della Curia romana.

In questo senso la Pragmatica sanzione di Bourges , emanata da Carlo VII di Francia nel 1438, rappresentò plasticamente, se non altro allo stadio iniziale, tali tendenze, poiché essa intese rendere indipendente dalla Chiesa romana quella francese, connettendo quest’ultima irreversibilmente ai re e allo stato, soprattutto dal punto di vista amministrativo.

Superata la crisi del periodo papale avignonese, quella dello scisma e quella ad esso connessa del conciliarismo, la Chiesa si dispose con grande impegno intorno alla metà del Quattrocento a recuperare il terreno perduto nei decenni precedenti. E ciò fu fatto con perizia e ampiezza di mezzi a ogni livello, da quello centrale al periferico. Anzitutto vennero contrastate le teorie conciliariste tendenti a scardinare il ruolo di guida del pontefice. In tal direzione si impegnarono intellettuali e uomini di Chiesa come Niccolò Cusano – dapprima convinto assertore della linea conciliare poi abbandonata di fronte al sorgere dei dissensi e delle divisioni determinatesi all’interno del concilio di Basilea – e come Enea Silvio Piccolomini.

Questi, diventato pontefice con il nome di Pio II (1458-1464), escluse il potere supremo e incontrastato del concilio che non avrebbe potuto sovrapporsi al vicario di Cristo, il quale doveva restare il punto di riferimento della cristianità; e tal posizione fu pervicacemente sostenuta dal papaumanista, il quale fece perno sulla sua alta carica, per assicurare la difesa del cattolicesimo romano, per organizzare la crociata contro i Turchi, da lui fermamente voluta, anche se in quel settore assai limitati poterono considerarsi i suoi successi. Infine sul papato egli puntò anche per riorganizzare la Chiesa e le sue finanze. Importante in proposito l’impegno con cui si batté per assicurare a Roma il monopolio del commercio dell’allume estratto dalle miniere di Tolfa.

La riorganizzazione ecclesiastica passò poi attraverso la rifondazione del suo stesso tessuto organizzativo e amministrativo. Si procedette pertanto alla nomina di una quantità di funzionari volti a ricostituire il vecchio apparato burocratico e patrimoniale della Curia. Si nominarono altresì numerosi cardinali in rappresentanza delle più ragguardevoli famiglie principesche europee, segnatamente delle italiane. Sforza, Riario, della Rovere, Gonzaga, Colonna, Medici furono presenti ai massimi livelli della Chiesa per conseguirvi, oltre al cardinalato, addirittura il seggio pontificio. Altro aspetto significativo per la ripresa ecclesiastica fu la riorganizzazione dello stato della Chiesa, cominciata nella seconda metà del Trecento con Egidio Albornoz e poi continuata lungo tutto il Quattrocento, in particolare dopo i Concili di Ferrara e Firenze.

Il soglio papale venne considerato allora dai pontefici come una posizione essenziale donde muoversi per la riconquista di poteri politici e spirituali in precedenza perduti. Città per città, feudo per feudo furono pertanto con metodo e con sforzo notevoli sottratti alle spinte centrifughe del periodo avignonese e scismatico. L’iniziatore della restaurazione ecclesiastica fu senza alcun dubbio papa Martino V Colonna (1417-1431) il quale, per riassumere il pieno controllo dei suoi territori, si avvalse su larga scala della nomina di persone di fiducia, collocate nei gangli vitali dello stato. Tale pratica, detta “nepotismo”, propugnata da Martino con rinnovato impegno nel 1426 mediante la nomina cardinalizia del nipote Prospero Colonna, indusse spesso il papa a scegliere per il controllo dei suoi domini, gratificandoli di cariche signorili su terre e città, esponenti della sua famiglia che consentirono di trasmettere proprietà e cariche sempre all’interno del proprio casato.

Dopo papa Colonna i successori continuarono, secondo uno stesso orientamento invero più pronunciato, a servirsi dei parenti, per estendere il loro potere sulla Chiesa. Così Sisto IV della Rovere (1471-1478) nominò sei cardinali tra i suoi nipoti e cugini e pose a repentaglio la pace nella penisola italiana, per appagare la smania di potenza dei nipoti Gerolamo Riario e Giuliano della Rovere. In egual modo si comportò Callisto III Borgia (1455-1458), il quale creò cardinale il nipote Rodrigo Borgia, divenuto poi pontefice con il nome di Alessandro VI (1492-1503).

Quest’ultimo infine nominò cardinale suo figlio – il famoso duca Valentino – mentre dette grande potere ad altre sue creature, il duca di Gandía e la celebre Lucrezia, autorizzata persino, durante le assenze del padrepontefice, a curare gli affari ecclesiastici nell’ambito della cancelleria romana.

La Curia dette poi vita a un ordinato sistema fiscale con cui si rimpinguarono le casse dello stato spesso però egualmente esauste per le grandi spese dei pontefici, vuoi di carattere militare – venivano assoldate in quantità notevole truppe mercenarie – vuoi per intraprendere un’opera imponente di rinnovamento edilizio e urbanistico in Roma e nell’intero Districtus . Alla fine del Quattrocento l’Urbe si abbellì di nuove strade, palazzi e chiese. Il Vaticano fu rinnovato con splendore, sino a che non si decise di ricostruire dalle fondamenta la basilica di San Pietro.

L’opera verrà compiuta nel secolo successivo con il concorso di grandi artisti fra i quali si distingueranno Michelangelo e Raffaello. Roma si popolerà poi di letterati, filologi, artisti di varia provenienza ed estrazione, tutti sostenuti lautamente dal mecenatismo pontificio, altra caratteristica peculiare del pontificato quattrocentesco. Il fenomeno nepotistico servì dunque anche a ridare, almeno in parte, prestigio politico e sicurezza alla Chiesa di Roma e sotto tale aspetto esso non può giudicarsi in modo del tutto sfavorevole, pur se è giusto stigmatizzare negativamente, dal punto di vista morale, un metodo che pose il papa sullo stesso piano dei sovrani temporali e della loro spregiudicata condotta.

Sotto l’aspetto pastorale, l’impressione che si ricava per il XV secolo è quella di un clero abbastanza esperto e zelante, non eccessivamente colto forse, ma pronto a venire incontro alle necessità delle parrocchie, delle confraternite e delle strutture ecclesiastiche fondamentali, mai come allora così numerose e attive; per cui la cura d’anime non risentì eccessivamente dei problemi posti e avviati dal conciliarismo, dal Concilio di Costanza e di Basilea.

Oltre che per la presenza dei parroci e dei monaci, di un impegno pastorale onnipresente e attivo, spesso espressosi attraverso l’opera instancabile dei predicatori itineranti sia nelle città che nelle zone rurali, il Quattrocento si contraddistinse anche per una partecipazione pronunciata di associazionismo laico, in buona sostanza riconducibile agli Ordini sacerdotali vecchi e nuovi. Abbondarono le confraternite e i Terzi Ordini facenti capo ai Francescani e ai Domenicani, agli Agostiniani, ai Carmelitani, ai Serviti.

Comparvero poi numerose confraternite collegate direttamente alle parrocchie e ai parroci oppure ai conventi degli Ordini mendicanti, che nell’insieme svolsero un’incisiva opera di seminagione. Perciò, neppure i contrasti sorti in varie zone nell’ambito del clero poterono scardinare un’attività ecclesiastica intensa che, anche basandosi sui dettami provenienti indirettamente e in modo frammentario dalle assise di Costanza e di Basilea, dette inizio a una riforma interna della Chiesa volta secondo le richieste confusamente giunte dal mondo cristiano, assetato di religiosità e soprattutto di un’azione condotta da un clero purificato e ispirato a più genuine forme di spiritualità.

Dalla seconda metà del Trecento e in special modo nel Quattrocento, lo stesso desiderio di riforma del costume ecclesiastico dette luogo a un profondo rinnovamento dei frati e dei monaci, i quali si impegnarono all’Osservanza delle rispettive Regole e all’abbandono delle innovazioni che in precedenza si erano gradualmente introdotte nella vita dei monasteri e dei conventi.

Il movimento dell’Osservanza giunse quindi non di rado a trasformare le strutture monastiche esistenti, ma più spesso concorse a far nascere, accanto ai vecchi che non accettarono la riforma, nuovi conventi e nuovi Ordini, come per esempio nel Cinquecento quello dei Cappuccini. Tutto questo mostrò ampiamente come nell’ambito della cristianità fosse assai vivo già nel Quattrocento il bisogno di un sostanziale cambiamento spirituale che la stessa Chiesa al suo interno, pur in maniera non programmata e discontinua, con notevoli differenze fra zona e zona, cominciò ad attuare in anticipo rispetto al movimento della Riforma protestante del Cinquecento.

Quanto detto spiega altresì il grande successo che nel xvi secolo ebbe la Riforma protestante, esplosa in Germania e di lì dilagata in tutto l’Occidente. Nella Riforma infatti si affermarono atteggiamenti di spiritualità che affondavano le loro radici nel mondo medievale, soprattutto nei secoli dal XIII al XV e che incarnarono indirizzi spirituali e politici che avevano i loro precedenti in esigenze sorte e maturatesi con l’Umanesimo e con il Rinascimento. La rivoluzione religiosa, capeggiata da Lutero, rappresentò quindi l’insurrezione del mondo e del pensiero dei laici contro il clero corrotto, che in qualche modo l’Osservanza quattrocentesca voleva superare, contro l’universalismo del cattolicesimo romano, contro l’assolutismo dei vecchi regni e le tradizionali prerogative feudali della Chiesa.

L’Osservanza insomma volle in qualche modo incarnare il ritorno alla purezza della Chiesa evangelica e, in un certo senso, l’esigenza di una sua riforma in capite et in membris, ossia della gerarchia ecclesiastica a cominciare dal pontificato, per poi estendersi ai ministri e ai singoli fedeli. L’istanza di una profonda purificazione infatti fu presente nella Chiesa medievale sin dai tempi di Gregorio VII e ricevette la più completa consacrazione con la predicazione francescana che, dall’interno delle gerarchie e senza generare pericolose fratture, manifestò la necessità di un ritorno all’età apostolica con la stessa intensità con cui nei secoli XIII e XIV si condannarono la mondanità e l’eccessiva ricchezza del clero.

In altri termini il movimento ereticale medievale facente capo ai Patarini, ai Catari, ai Valdesi, agli Albigesi, ai Poveri Lombardi, ai Gioachimiti, agli Spirituali e, da ultimo, agli Osservanti presentò come sostrato a tutti comune l’identificazione della Chiesa di Roma con la Ecclesia carnalis che per opera diabolica avrebbe finito per sovrapporsi alla Ecclesia Dei , cioè alla Sponsa Christi.

Questo complesso di movimenti ereticali di ispirazione come testé detto ancora medievale professò pertanto atteggiamenti nel Cinquecento ritrovatisi ancora all’interno della Riforma germanica. Per esempio l’appello diretto alla Sacra Scrittura, l’ispirazione dell’uomo illuminato da Dio più che dall’insegnamento dei sacerdoti, i laici e gli ecclesiastici posti quasi sullo stesso piano di dignità spirituale senza distinzione di ruoli e di caratteri, furono tutti elementi consoni al cristianesimo medievale, soprattutto a quello di stampo ereticale, che nel Quattrocento avevano ricevuto un’ulteriore spinta, e posero in evidenza come quel secolo rappresentasse una prevalente esigenza di purezza volta a porlo nell’ambito di un’età di mezzo giunta all’autunno ma non ancora del tutto spenta.

Se nelle pagine precedenti abbiamo con qualche fuggevole cenno già fatto riferimento alla situazione romana del primo Quattrocento, allorché abbiamo rappresentato le vicende conciliari di Costanza e la situazione del papato dopo il ritorno di Martino V e poi quando abbiamo illustrato il Concilio basileese, le assise di Ferrara e Firenze e i loro contraccolpi romani, ciò tuttavia non è sufficiente a porre in evidenza il travaglio dell’Urbe nel momento del passaggio da città capoluogo del cristianesimo a città-rappresentanza di uno stato temporale, ovvero dello stato della Chiesa che ormai si trovò a competere con gli altri sovrani occidentali, i principi e i signori italiani.

Va detto subito in proposito che la politica dei pontefici del Quattrocento fu diretta a compiere uno sforzo notevole, destinato a fare della città, già carica di monumenti gloriosi, una delle metropoli più importanti dell’Occidente e d’Italia, l’unica in grado di competere con Firenze e con Venezia per l’attitudine ad attrarre artisti, a costruire nuovi edifici ecclesiastici e laici, strade nuove e ampie, capaci di conferirle i caratteri di una vera capitale.

Se però per quanto attiene questo aspetto i risultati conseguiti dall’Urbe furono positivi, non altrettanto poterono considerarsi quelli relativi all’intento di stabilire un proficuo e saldo rapporto con le potenze italiane e soprattutto con le occidentali. Infatti la città di Pietro, paga quasi dei successi raggiunti dal punto di vista edilizio e urbanistico, sembrò rimanere ferma alla politica dei secoli precedenti, senza rendersi conto della differente funzione assunta dal papa nella Chiesa e nella cristianità, quindi di una situazione che avrebbe dovuto indurlo ad affrontare e a discutere con regni nazionali e Signorie i diversi problemi, parlando non più soltanto come il capo di una religione universale ma anche come sovrano temporale.

Comunque, i Romani nell’immediato furono soddisfatti del ritorno del loro vescovo che, di per sé, sembrò sottrarre la città al pericoloso isolamento e alla involuzione in cui era rimasta nel precedente settantennio e poi durante la difficile fase del grande scisma.

Martino V, lasciata Costanza il 16 maggio 1418, dopo lunghe soste, fra l’altro a Mantova e a Firenze, entrò in Roma il 28 settembre 1420. Pronti ad accoglierlo, i Romani lo salutarono come un liberatore e un eroe, tanto più che essi erano inorgogliti della sua appartenenza a una delle più potenti famiglie del Patrimonio di San Pietro, i Colonna, e del fatto che la scelta dei padri conciliari fosse caduta, come era nei loro voti, su un Italiano e in specie su un romano.

Martino cominciò subito una politica di restaurazione di edifici e chiese rovinate e fatiscenti anche nei quartieri centrali; poi, nel 1423, alla scadenza trentennale disposta da Urbano VI,indisse il nuovo Anno Santo che, per dirla con Poggio Bracciolini, avrebbe riempito Roma di barbari, ma avrebbe dimostrato che la città andava riprendendosi dai guasti della lunga vacanza papale.

Nel 1425 poi il papa nominò i magistri aedificiorum urbis i submagistri e i marescialli pontifici , cui vennero affidati numerosi incarichi volti a risanare e a restaurare i palazzi pubblici, soprattutto quelli sacri: San Paolo, Santa Maria Maggiore, il Pantheon, chiedendo, fra l’altro, l’aiuto economico ai cardinali romani titolari delle chiese cittadine.

Nel 1431 a papa Colonna successe il già ricordato Gabriele Condulmer, Eugenio IV (1431-1447), uno dei grandi papi del Quattrocento, estraneo alle fazioni romane che purtroppo non riuscì a ridimensionare. Alla fine tuttavia, nel 1433, i Colonna si sottomisero alla sua volontà e per Roma si aprì in tal modo una nuova stagione, contrassegnata dall’ingresso in città dell’imperatore Sigismondo il 21 maggio dello stesso 1433.

Erano quasi cento anni infatti, dall’incoronazione di Carlo IV di Boemia del 1355, che non si verificava un simile evento e benché il sovrano si fosse impegnato a entrare nell’abitato senza seguito di armati e privo di velleità politiche, la cerimonia per l’incoronazione si rivelò un’occasione per una parata eccezionale svoltasi in San Pietro e in San Giovanni, a cui mancarono però la solennità e la drammaticità di precedenti, consimili manifestazioni dei tre secoli passati, essendosi in parte ormai sopite le passioni che avevano animato un tempo le vicende che legavano Chiesa e Impero. Papa Condulmer, pur attento alla trasformazione della città, si rese conto della necessità di assumere un ruolo politico più preciso. Di qui il suo accordo con gli Aragonesi per l’assetto dell’Italia meridionale e segnatamente con re Alfonso, impegnato di lì a qualche anno nell’unificazione dei due tronconi del vecchio regno siciliano, divisi ormai da quasi un secolo e mezzo.

Il successivo pontefice, Tommaso Parentucelli da Sarzana, Niccolò V (1447-1455), privo di grandi appoggi politici e familiari, fu anch’egli un grande papa, conscio dei suoi doveri e delle esigenze cittadine, ma soprattutto della necessità di porsi come interlocutore delle altre potenze occidentali, senza fermarsi a un’attività in prevalenza connessa agli interessi delle famiglie locali, attività che rendeva l’Urbe un Comune rissoso, invero non più al passo con i tempi. Per attuare una politica consona alle nuove esigenze, egli allora procedette alla convocazione dell’Anno Santo che ebbe luogo a metà del secolo e vide una volta ancora la città meta di pellegrinaggi e di pellegrini più o meno illustri.

Egli poi sventò con la condanna a morte di Stefano Porcari, cittadino romanopreso da umanistico furore per la Roma repubblicana, una congiura che aveva posto l’Urbe e il papato in pericolo. Quindi inaugurò la serie dei papi rinascimentali, fondò la Biblioteca Vaticana e promosse una più ampia raccolta di codici latini e greci.

Inoltre, secondo l’autorevole testimonianza dell’umanista Giannozzo Manetti, restaurò le Mura Aureliane, gli acquedotti, i ponti cittadini e le chiese stazionali, avviò la ricostruzione del borgo attorno alla città leonina e dei nuovi palazzi vaticani.

Poi, consapevole della necessità di ampliare la chiesa di San Pietro, non avendo ancora in animo il proposito di edificare una nuova basilica secondo il progetto che avrebbe cominciato a delinearsi solo negli ultimi anni del ’400, decise di farvi compiere una prima serie di radicali restauri. Tutto ciò attestò l’operosità di un pontefice, già volto verso la splendida età rinascimentale.

Niccolò V però non si avvide pienamente delle nuove esigenze politiche e dei gravi problemi ai quali bisognava dare soluzione. Per dirne una sola, ricorderemo appena per tornarvi più avanti, che mentre egli sedeva sul soglio di Pietro, nel maggio 1453, Costantinopoli cadde in mano ai Turchi, ponendo un grave dilemma a Roma e a tutta la cristianità.

A tale dilemma comunque – del resto alla stessa maniera si comportarono gli altri potentati italiani neppure essi, almeno in apparenza, eccessivamente colpiti dalla fine dell’Impero bizantino che per secoli aveva protetto l’Occidente dagli infedeli – papa Niccolò rimase sostanzialmente sordo e almeno esteriormente fu assai più coinvolto dai moti porcariani, facilmente sconfitti, che da un evento che avrebbe profondamente inciso oltre che sulla storia della Chiesa del XV su quella dei secoli futuri. Tutto ciò attestò quanto dianzi affermato, ossia che Roma, nella prima metà del Quattrocento si preparò ai suoi nuovi compiti, tuttavia ancora a lungo disattesi.

Nonostante tutto però, il papato, uscito dall’ultrasecolare crisi consumatasi nel periodo del pontificato avignonese e dello Scisma di Occidente (1378-1449), divenne diverso da ciò che era stato nel secolo precedente, allorché aveva goduto di un pressoché indiscusso prestigio universale. Lo stato della Chiesa nella seconda metà del XV secolo risultò infatti ormai abbassato al rango di uno dei cinque maggiori Stati italiani, sui quali si resse l’equilibrio politico della penisola.

L’aspetto maggiormente negativo della vicenda fu che i pontefici, pur mostrando singolarmente buone capacità politico-diplomatiche, anche possedendo una grande cultura e riuscendo a rinnovare la città di Roma e a dotarla di splendide chiese e di palazzi attestanti la maestà della religione che rappresentavano, sembrarono non avvedersi sino in fondo della mutata situazione politico-sociale, religiosa e culturale.

Essi quindi, invece di cercare il conseguimento di nuove conquiste a livello spirituale – conquiste in realtà sollecitate dai fedeli, soprattutto d’oltralpe che maturarono già negli ultimi decenni del Quattrocento l’intendimento di compiere un atto di supremazia volto a distaccare le sorti del rigoroso cristianesimo dei paesi nord-occidentali da quelle di Santa Romana Chiesa – si attardarono in un’attività diplomatica e organizzativa di vecchio tipo.

Tale azione fu impostata sulla rivalità fra le famiglie cardinalizie romane, desiderose di raggiungere un inutile predominio a livello locale, e paghe di galleggiare nell’angustia dei programmi politici delle altre maggiori Signorie italiane.

Le stesse famiglie poi, quando si avventurarono nella politica di segno internazionale, sbagliarono la ricerca e la scelta degli alleati, preparando così oltre alla divisione interna della cattolicità, la rovina dello stato della Chiesa e dell’Urbe stessa, condannata nel 1527 con il famoso sacco di Roma a cadere nelle mani dell’imperatore Carlo V.

Una delle prerogative dei pontefici successivi a Niccolò V fu rappresentata dal mecenatismo verso le arti e le lettere, pratica cui presto si unì quella del già menzionato nepotismo, che rappresentò una sorte di aequatio a livello ecclesiastico delle abitudini dinastiche da cui furono animati i signori italiani, i quali avrebbero soprattutto voluto, tramite un’investitura imperiale o di altro segno, mutare il titolo del loro potere da signoria di tipo personale a uno stato ereditario. Per realizzare un simile disegno i papi distribuirono a piene mani prebende e autorità a chi dei loro congiunti fosse stato in grado di rafforzare, accettando la potenza suddetta, se stesso e la famiglia pontificia di appartenenza.

Forse Pio II (1458-1464), il cardinale Piccolomini, con slancio più forte e concretezza di stampo ancor medievale si volse verso un grande disegno, ossia l’organizzazione della crociata contro i Turchi. Questo pontefice, il quale assunse la tiara dopo aver trascorso una vita non del tutto ineccepibile dal punto di vista morale, una volta salito al soglio pontificio mise al servizio della cristianità un’encomiabile preparazione culturale. Egli cercò anzi di attuare un progetto degno di un uomo di grande cultura e intelligenza, adatto a risvegliare negli animi la coscienza sopita.

Tra i papi medievali Piccolomini fu senza dubbio quello che con maggior lucidità intuì la portata del pericolo turco e che più si impegnò cinque anni dopo la caduta di Costantinopoli, nella riconquista delle terre perdute dalla cristianità. Animato da tale intento, egli prese contatti con i vari signori italiani e con il re di Napoli, progettando una sorta di union sacrée contro il Turco.

Il suo pertanto fu un discorso anche nuovo, in cui serpeggiò per la prima volta l’idea della necessità di un più fertile contatto fra occidentali e cristiani, in vista del pericolo costituito per la Chiesa dagli infedeli.

Fu lui dunque il primo, dopo secoli, a lanciare l’idea di una unione di Europei contro gli Ottomani, valutando un concetto territoriale e sovranazionale che conferiva alle vecchie terre cristiane una particolare valenza politico-economica e culturale.

Proprio in questo spirito, nel 1464, Pio II dette appuntamento alle principali potenze occidentali nel porto di Ancona, ove si sarebbero dovute concentrare le imbarcazioni disponibili a partire per la campagna antiturca.

Quasi nessuno tuttavia si presentò nel porto della città dorica e il pontefice solo e ammalato accusò il colpo e di lì a poco si spense, dopo aver compreso l’ormai scarsa possibilità di riprendere una politica aggressiva contro i Turchi, non più consentanea alle esigenze e alle vicende storiche della fine dell’età di mezzo.

I suoi grandi e sfortunati progetti tuttavia non gli vietarono di attuare una politica culturale di grande spessore – si pensi alla fondazione della città toscana che da lui avrebbe tratto il nome, Pienza – nonché un’attività di segno spiccatamente economico.

L’avvento di Paolo II (1464-1471), il veneziano Pietro Barbo, si identificò con la ripresa del progetto di crociata, caldeggiato anche dall’imperatore Federico III giunto a Roma nel 1468, il quale tuttavia sembrò più colpito dall’accoglienza mondana e festaiola dei Romani che dal programma di difesa della cristianità dall’assalto dei Turchi.

Il disegno della crociata venne invece osservato con maggiore attenzione da Giorgio Castriota Scanderbeg, l’eroe albanese, giunto però nella città di Pietro nel 1466, pressappoco quando gli Ottomani tolsero ai Veneziani l’isola di Negroponte.

Con Sisto IV della Rovere (1471-1484), il pontificato ripiombò tuttavia prepotentemente nelle pratiche nepotistiche. Sisto cercò infatti instancabilmente – come già accennato in precedenza – di trovare uno stato territoriale per il nipote Girolamo Riario, eletto prontamente cardinale e “consacrato” al sostegno della famiglia fiorentina dei Pazzi; per ciò il papato non fece nulla per ostacolare i progetti antimedicei e favorì anzi la famosa congiura del 1478, denominata dei Pazzi, che si sarebbe dovuta concludere con la soppressione di Lorenzo e che comunque costò la vita al fratello del Magnifico, Giuliano de’ Medici.

Quando poi nel 1480, in occasione dello sbarco turco a Otranto, Ferrante d’Aragona si riconciliò con i Medici, per timore di rimanere soffocato nella morsa aragonese-medicea, Sisto IV invocò contro Firenze l’aiuto di Venezia, ricompensata per questo con l’acquisto di Ferrara. In contemporanea Girolamo Riario combatté i signorotti della Romagna, in parte per riaffermarvi la preminenza ecclesiastica, ma in realtà per ritagliarsi uno sbocco territoriale.

Contro il Riario si mossero allora gli Estensi, Napoli, gli Sforza, i Gonzaga e i Bentivoglio. Le operazioni militari furono subito sfavorevoli a Sisto IV , che fu indotto da Ferrante a lasciare l’alleanza con Venezia. Ma il successo aragonese ebbe in risposta una pace separata di Ludovico il Moro con Venezia, vale a dire la pace di Bagnòlo del 1484, per cui la regina dell’Adriatico avrebbe acquistato il Polesine e pagato un’ingente somma di danaro a Milano.

Ferrante allora si vide restituire Gallipoli, nel Salento, e altri porti minori occupati da Venezia in Puglia durante le precedenti operazioni militari. Girolamo Riario ottenne il possesso di Imola e Forlì, ma dovette rinunciare a ogni altro ampliamento territoriale. La sua relativa sistemazione però costò un prezzo eccessivo al papa che vide avvilita la Chiesa e il pontificato, trattato alla stregua di qualsiasi altra Signoria territoriale.

Una politica dello stesso tipo fu attuata poi da Innocenzo VIII Cybo (1484-1492), il quale ricolmò di prebende e feudi i due figli avuti prima dell’ascesa al trono pontificio. Innocenzo scelse la posizione antiaragonese e difese i partecipanti alla congiura dei Baroni, anche dopo che la congiura stessa fu conclusa con atti di inaudita crudeltà da parte di Ferrante.

Interessato alla pace Lorenzo de’ Medici indusse il papa a un più distensivo atteggiamento, ma non riuscì a raggiungere apprezzabili successi sino al 1492, l’anno della sua morte. Solo alla fine infatti Innocenzo addivenne a una pacificazione troppo tardiva, allorché lo stato della Chiesa apparve ormai squassato da fremiti di ribellione e abbassato a un’accolta di stati e staterelli privi di legame con l’amministrazione centrale.

Nel complesso pertanto, alla fine del Quattrocento Roma e il papato mostrarono una situazione complessivamente caotica. I singoli papi – è vero e va sottolineato – cercarono di abbellire sensibilmente la città. Callisto III, (1455-1458), Sisto IV e Innocenzo VIII avviarono la trasformazione dell’Urbe con un ampio programma di risanamento e di opere pubbliche, poi vigorosamente proseguito da Alessandro VI Borgia (1492-1503), da Giulio II (1503-1513) e da Leone x (1513-1521) che costruirono strade e palazzi mirabili, ordinarono quadri e affreschi bellissimi e raccolsero preziose collezioni di oggetti d’arte.

Due nomi fra gli altri attestano la portata del loro sforzo e l’entità dei risultati raggiunti: Raffaello e Michelangelo che nel XVI secolo profusero nella nuova San Pietro, nei palazzi vaticani, nelle chiese cittadine i tesori del loro ingegno.

Nella rinascita culturale romana, nella splendida collezione di codici raccolti nella nuova Biblioteca Vaticana fondata da Niccolò V e nella prestigiosa Accademia Romana, legata a Pomponio Leto e a Bartolomeo Platina, fra l’altro il primo Conservatore della Biblioteca papale, notevole fu anche la presenza della lingua e della cultura greca; ma l’Umanesimo restò sempre essenzialmente latino e in Roma trovò uno dei centri di massima diffusione. La città lo comprese e ne divenne fiera.

Non mancarono infatti quelli che dai Fori e dagli altri edifici antichi asportarono reperti di valore per abbellire le loro case, ma abbondarono specialmente gli antiquari e i marmorari che procedettero a vere e proprie scoperte acheologiche, mentre lo studio dei monumenti antichi e delle loro memorie divenne una scienza attuale con l’impegno di Biondo Flavio di Forlì (1392-1463), che dedicò la sua notevole attività alla Roma instaurata e alla Roma triumphans , ovvero a due opere sue, volte allo studio della romanità e dell’Urbe.

Certo poi non si può dire che questi papi mancassero di spirito religioso, ma sovente, anche quando fu loro possibile mettere in evidenza aspetti di vera pietà personale, sembrarono privi di una visione programmata e realistica delle necessità della Chiesa.

Sisto IV, ad esempio, comprese che sarebbe stato opportuno imboccare la strada della riconciliazione interna e avviò un tentativo di intesa tra i vari gruppi francescani in lotta fra loro, ma senza ottenere vistosi successi. Del pari inerti rimasero i potentati europei di fronte ai suoi tentativi di crociata contro la Mezzaluna.

Anche la pericolosa eresia hussita trovò in Innocenzo VIII un interlocutore attento e rigorosamente polemico. Ma i vari tentativi restarono isolati e i fedeli più colti e preparati ebbero l’impressione di essere abbandonati a loro stessi, nonostante l’attività delle organizzazioni ecclesiastiche di base continuasse con slancio e fervore, e nonostante l’operosa attività dei predicatori: da Roberto da Lecce a Francesco di Paola, da Bernardino de’ Busti a Giovanni da Capistrano, a Giacomo della Marca, a Bernardino da Siena, variamente appassionati e intenti nella loro lotta contro gli scandali, contro i soprusi dei potenti avverso i poveri, contro gli eccessivi splendori delle corti rinascimentali, gli sprechi, il lusso.

Nulla sembrò però utile a riportare in auge una vera, sofferta pietà religiosa. Da ultimo in Roma trionfò nuovamente lo splendido lusso della corte papale, oggetto di pericolose critiche dei primi ambienti riformati germanici avant-lettre, durante il pontificato di Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI (1492-1503), nipote di papa Callisto III che lo condusse verso la carriera ecclesiastica e gli attribuì la porpora cardinalizia.

Ricco e dedito a una vita di piaceri, egli riempì di privilegi i numerosi figli avuti prima e durante il pontificato, alcuni dei quali ebbero notevole rilievo storico come Cesare Borgia e il duca Giovanni di Gandía dei quali abbiamo già ricordato le gesta e soprattutto Lucrezia Borgia, spesso utilizzata dal padre come pedina di una complessa, poco edificante politica fondata anche sui suoi molteplici e interessati matrimoni e che la associarono talvolta a episodi di vita sconcertante e scandalosa.

Alessandro VI,insomma, venne spesso indicato come esempio emblematico di una crisi politica e morale assai grave della penisola italiana e della Chiesa, crisi nella quale egli ebbe non poca responsabilità.

E i risultati del suddetto stato di disordine sconvolsero proprio Roma su cui si addensò la tempesta del protestantesimo, allorché Carlo V , per abbattere la potenza di Clemente VII, inviò nell’Urbe un esercito comandato dal Connestabile di Borbone (maggio 1527), sottoponendola a un saccheggio cui il papa impotente assistette rinchiuso in Castel Sant’Angelo. Per la città apostolica, detentrice dei valori specifici della religione di Cristo insomma, l’età di mezzo si concluse fra turbamenti, devastazioni e contrasti.

Nella eccezionale fioritura delle arti, delle lettere e del pensiero filosofico attuatasi durante il Rinascimento italiano e occidentale, si deve però riconoscere che una crepa sempre più ampia andò aprendosi, mostrando una società sconvolta da un’intensa crisi di carattere spirituale, presto manifestatasi nei canoni della cosiddetta Riforma.

Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento non fu tuttavia contraddistinto da una minore intensità di fede, mentre si palesarono profonde modificazioni del sentire religioso.

Il venir meno degli ideali teocratici in auge nei secoli precedenti il conciliarismo, l’accresciuto potere politico degli Stati, il minore prestigio della Santa Sede, l’indipendenza dei principi dalle gerarchie ecclesiastiche, furono tutti elementi destinati a creare una società, se non priva di contenuto spirituale, contraddistinta da un rapporto diverso fra Chiesa e stato, fra religione e cultura.

La Chiesa in tal modo, invece di cercare ulteriori motivi di predominio spirituale, consentanei alla nuova cultura, tali da non generare pericolosi contrasti fra scienza e fede, da una parte rimase ancorata a forme superate di trasmissione dei valori religiosi, quindi non si schiuse a tipi d’approccio nuovi e sicuri e dall’altra, adeguandosi alle nuove esigenze politiche, si trasformò in uno stato temporale in rapporto e in concorrenza con le altre formazioni nazionali. Il papa partecipò alle alleanze e alle coalizioni militari e pertanto a volte risultò vincitore, ma spesso, anche a causa di scelte politiche fuorvianti, rimase sconfitto.

Il manifestarsi di una pericolosa, ricordata corruzione dei costumi presso la corte pontificia, l’esempio pessimo dato da taluni pontefici in contrasto con le richieste di una riforma volta alla rigenerazione della vita delle alte gerarchie vaticane, determinarono poi una divisione tra cattolici tesi alla riforma e tradizionalisti.

Inoltre, alla fine del Medioevo, svaniti i sogni di un rinnovamento totale della società cristiana sulla terra, risultarono disperse le residue aspettative di un’età che segnasse il rinnovamento dell’intera umanità. Tutto ciò portò allo scadimento dall’autorità pontificia e di quello che venne definito cattolicesimo romano, cattolicesimo da considerarsi pertanto quasi in contrasto con i veri e profondi ideali della religione di Cristo.

Ma se l’autorità del papa e della Chiesa apparve ridotta rispetto a quella da essa goduta nell’età medievale, non così poté dirsi per l’autorità religiosa del cattolicesimo che, al passaggio tra il Medioevo e l’età moderna si rafforzò complessivamente per l’avvenuto trionfo sulle eresie, per l’aumentato potere del sacerdozio di base, grazie all’intensificarsi dell’attività sacramentale ecclesiastica e grazie all’opera di mediazione tra il cielo e la terra assegnata quale appannaggio esclusivo della gerarchia e universalmente ad essa conferita per la salvezza delle anime.

Restò tuttavia un diverso modo di attendere la salvezza stessa che non apparve più questione collettiva; infatti il problema della salvezza individuale prese il sopravvento sulle aspettative di palingenetici rinnovamenti tipici del Medioevo. Nessuno negò però che i mezzi per conseguire la salvezza stessa fossero ancora in potere della Chiesa ed essa ebbe sempre l’esclusiva facoltà di conservarsene l’uso.

Nell’ambito poi della religiosità popolare si notarono ancora una volta sensibili cambiamenti: dopo il travaglio del secolo precedente e il confitto tra gli spirituali e i conventuali , l’Ordine francescano ritrovò la pace nel movimento dell’Osservanza, cui si ispirarono i grandi predicatori quali san Bernardino da Siena, san Giacomo della Marca, san Giovanni da Capistrano e sant’Antonino Pierozzi, vescovo di Firenze.

Prototipo maggiore e più imitato tra i predicatori del secolo fu san Bernardino da Siena, il quale ripudiò ogni forma di eresia, professò rispetto sincero per il sacerdozio e predicò il Vangelo, sottolineando in particolare le esigenze etiche della dottrina cristiana.

Egli inoltre, riuscendo a porsi sul terreno spesso precluso ai pontefici e alle alte gerarchie, affermò a un tempo la capacità di rinvenire un accordo tra le esigenze della religione e quelle della vita terrena, abbandonò l’eccessivo rigorismo ascetico, ogni tipo di dogmatismo, l’intemperanza di certi interventi ecclesiastici, mantenendosi allo stesso tempo rigido sui princìpi.

Per il senese la somma realizzazione della vita cristiana dovette inverarsi nel possesso della virtù, sposato al godimento dei beni concessi da Dio agli uomini: ovvero le gioie della casa, del sapere, dell’esercizio moderato di attività proficue e dei beni della terra da non detenersi egoisticamente, ma da porsi al centro di un’azione, avente sempre di mira il bene dei fedeli.

In tal modo si deve correggere la concezione che vide un Rinascimento paganeggiante posto su una strada in contrasto con il cristianesimo non ripudiato dagli uomini del Rinascimento che, pur imitando gli antichi, pensarono ancora alla possibilità di conciliare la vita spirituale con la saggezza dei classici, il mondo umano e il mondo iperuraneo, la Gerusalemme terrena e la Gerusalemme celeste.

Certo però, il mondo laico si ergeva ormai se non contro, accanto a quello religioso con una sua cultura, una sua conoscenza, con nuove concezioni della vita e della politica.

Chiesa e stato non furono necessariamente in contrasto, ma non apparvero più una sola cosa. Del pari non furono fusi scienza e fede, gli ideali religiosi e quelli della vita eterna.

Nel mondo dominarono pertanto l’individuo, la società laica e lo stato.

Nel campo religioso infine la Riforma germanica spezzò l’unità tradizionale della fede medievale, nel nome di ideali di rigenerazione della Chiesa secondo il cristianesimo primitivo.

La Riforma protestante, tuttavia, sottolineò i precipui intendimenti dello spirito laico e individualistico. Nei fedeli rimasti uniti al cattolicesimo romanosi manifestò invece una religiosità eminentemente pratica, del tipo di quella proposta come precedentemente dicevamo da san Bernardino da Siena.

Tale religiosità conciliò le forme dell’antico rispetto della gerarchia e delle pratiche devote con l’azione e l’idealità del mondo moderno, l’amore per la ricchezza, l’espansione dell’individualismo, la volontà di potenza e in certo modo, l’affermazione dello stato.

La vita d’altronde non fu più intesa come un’eterna peregrinatio verso il cielo, ma anche come il centro delle attività umane ove sarebbe stato possibile conseguire l’appagamento dei propri desiderata in attesa della beatitudine dei novissima. A questo nuovo spirito però, dopo la tempesta determinata dalla rivoluzione protestante, si sarebbe ispirata in gran parte la società europea nei secoli più vicini a noi. Ma di tutto questo tra la fine del ’400 e la prima metà del secolo successivo si poté percepire punto o poco, mentre di fronte alla cristianità si palesò la realtà della perduta unione della vecchia Chiesa.

Con ciò in estrema sintesi può considerarsi conclusa la ricostruzione delle vicende salienti, relative alla storia del cristianesimo medievale, una ricostruzione in cui ho cercato di conferire – com’è giusto – il posto che le compete alla tradizione cattolica romana, ma in cui peraltro non ho trascurato di menzionare gli apporti che per varie vie e in differente misura costituirono i molteplici rivoli, a volte più, a volte meno impetuosi, che da diverse parti e in diverse condizioni concorsero a creare il grande, vorticoso fiume nel cui alveo può rappresentarsi la vita della Chiesa di Cristo: una Chiesa nella quale accanto a Roma magistra si pone la magistra barbaritas e ove accanto alle voci ortodosse troviamo quelle degli “eretici”, da Mani a Donato, da Pelagio ad Ario e poi dai molto più tardi Patarini ai Catari, ai Valdesi, da Arnaldo da Brescia a Giovanni Wycliffe, agli Hussiti, da me sistemati gli uni vicino agli altri, in quanto tutti contribuirono a vivificare e a rendere universale quello che il mio maestro Raffaello Morghen, superando la definizione meno ampia di Medioevo romano, con felice, fertile espressione denominò Medioevo cristiano.

Di Ludovico Gatto, estratti "La Grande Storia del Medioevo", Newton Compton Editori, Roma, 2012, pp.54-80.  Digitati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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