IL GRANDE RIBELLE DELLA BRITANNIA ROMANA


Negli anni Quaranta del I secolo d.C. il re britanno Carataco guidò una vasta rivolta contro le truppe d’occupazione di Roma. Ecco la storia di questo sovrano guerriero e di come sfidò la potenza romana fino a scuotere la regione alle fondamenta.

Allo spuntare del giorno l’esercito romano che si stava ammassando sulla sponda del fiume divenne visibile: legionari ben allineati, in grande numero, con elmi e corazze che riflettevano la luce del sole nascente. A un segnale le prime file degli invasori mossero in avanti per attraversare il fiume, all’apparenza invulnerabili alla pioggia di lance e sassi scagliati dalle fionde. Solo quando giunsero sulla riva opposta i proiettili cominciarono a mietere vittime, che cadevano addosso ai compagni con i crani sfondati e gli occhi schizzati via dalle orbite.

Con un ruggito assordante, un’orda di britanni armati di lancia si precipitò giù per la collina prima che i legionari avessero il tempo di serrare di nuovo i ranghi. I primi soldati giunti al di là del fiume vennero trucidati, ma ne arrivarono altri e alla fine, protetti dal muro di scudi e con le spade sguainate, i Romani riuscirono a farsi strada attraverso la massa dei guerrieri nemici. E davanti alla calma efficienza della macchina da guerra romana anche la selvaggia, caotica spinta dei britanni cominciò a vacillare. Era l’anno 51 d.C. e la prima conquista straniera della Britannia stava entrando nella sua sanguinosa fase finale.

Le legioni romane avevano stabilito la loro testa di ponte nella Britannia meridionale otto anni prima, e gran parte delle tribù locali si era sottomessa subito, rassegnata se non contenta di allearsi con la grande superpotenza mediterranea. Alcune tribù, tuttavia, avevano opposto resistenza, intuendo che in quella sudditanza per loro non c’era nulla da guadagnare. Molti guerrieri britanni persero la vita in battaglia, ma i sopravvissuti continuarono a combattere mettendo in atto tattiche di guerriglia fatte di imboscate, omicidi mirati e raccolti dati alle fiamme.

In questo ultimo scontro, però, il leader dell’insurrezione, nonché obiettivo numero uno del neonato governo provinciale romano, non era la famosa Budicca (regina della tribù degli Iceni), che in quel momento era ancora una fervente sostenitrice della causa romana, bensì Carataco, personaggio oggi quasi dimenticato. La sua ribellione dilagò dall’estuario del Tamigi alle montagne della Snowdonia. Eppure il suo nome non è celebrato come quello di altri storici capi britanni, cosa che dovrebbe suscitare meraviglia visto che la sua è una storia di eroica resistenza contro forze maggiori delle sue.

Un Capomafia Dell’Età del Ferro 

Su Carataco come persona non sappiamo quasi nulla: nessuno storico, scrittore o commentatore dell’epoca ne fornisce una precisa descrizione. Ci è noto, però, che discendeva da Cunobelino, sovrano che gli autori romani avevano definito “Grande Re dei Britanni” e che, negli anni precedenti all’invasione romana, controllava ampie porzioni di territorio dalle sue due capitali di Camulodunum (Colchester) e Verulamium (St Albans).

In seguito immort alato da Shakespeare nel personaggio di Cymbeline, Cunobelino era sostanzialmente un capomafia dell’Età del Ferro: una figura pericolosa, politicamente forte e con il completo controllo di tutte le più importanti transazioni economiche. Dalle immagini sulle monete da lui coniate deduciamo anche che era un convinto sostenitore di Roma, un re “suddito”, opportunista, spalleggiato dall’impero.

Ma il periodo di stabilità sotto la protezione di Roma terminò con la sua morte attorno al 40 d.C., lasciando perlomeno tre eredi: Admino, Togidubno (a volte chiamato erroneamente Togodumno) e Carataco. Il primo, che probabilmente regnava sul Kent, fuggì a Roma, e gli altri due entrarono in conflitto. Togidubno non coniò monete, ma quelle realizzate da Carataco recano immagini dall’inequivocabile sapore mediterraneo quali Ercole, Pegaso e l’aquila romana, il che ci fa pensare che fosse anche lui un sovrano soggetto a Roma. Per certo sappiamo che nel 43 d.C. era ormai diventato il sovrano britannico di maggior successo: un’ascesa tanto rapida che aveva finito per preoccupare anche i suoi spalleggiatori romani.

Per l’impero la Britannia sud-orientale era un interessante snodo commerciale e un’importante “regione cuscinetto” che proteggeva i confini settentrionali del territorio imperiale: i disordini politici da quelle parti minacciavano la pace e la stabilità economica, dunque era nell’interesse di Roma trovare una rapida soluzione alla crisi. Sembra dunque che sia stata proprio l’instabilità politica a convincere l’imperatore Claudio che c’era ormai bisogno di un cambio di regime in Britannia, da attuare con un adeguato schieramento di truppe.

Nel 43 d.C. un suo rappresentante, Aulo Plauzio, sbarcò sul posto per porre fine al problema della successione di Cunobelino: lo storico romano Cassio Dione ci racconta che discusse sia con Carataco sia con Togidubno, tentando di imporre loro la volontà dell’imperatore, ma i negoziati non andarono a buon fine.

Il resoconto di quei fatti giunto fino a noi è confuso, ma sembrerebbe che Claudio coltivasse l’idea di fare di Togidubno il “Grande Re” dei britanni e di relegare Carataco a un ruolo secondario. Ciò gli alienò le simpatie di quest’ultimo e dei suoi sostenitori. Ne seguirono due sanguinosissime battaglie sulle rive di altrettanti fiumi, dopo le quali l’esercito di Togidubno, che ora combatteva a fianco dei Romani, cadde in un’imboscata mentre attraversava il Tamigi e venne sbaragliato. Cassio Dione ci informa che tribù rimaste fino a quel momento neutrali “scesero in campo” a sostenere Togidubno contro suo fratello Carataco, ritenendo che la potenza di quest’ultimo si dovesse ridimensionare. Insomma, quella che era cominciata come una missione diplomatica per risolvere una crisi politica locale era degenerata in una guerra civile, e un allarmato Plauzio chiese rinforzi in patria.

Claudio in persona guidò la seconda spedizione e puntò subito sull’importante città di Camulodunum, dove ricevette la resa formale di undici re britanni (tra i quali c’erano quasi di certo Prasutago e sua moglie Budicca, sovrani della tribù degli Iceni). L’Imperatore tornò dunque a Roma in trionfo, ma in breve fu chiaro che il conflitto non era per nulla terminato: Carataco era ancora a piede libero e fortemente intenzionato a creare altri problemi.

L’Uomo Giusto al Momento Giusto 

Nel 47.d.C. Carataco ricomparve nel Galles sudorientale, dove sollevò la tribù dei Siluri e la guidò contro l’avanzata romana. In che modo fosse riuscito a conquistarsi una posizione di comando laggiù non ci è noto: lo storico romano Tacito in proposito scrive solo che “i suoi successi, sia quelli completi sia quelli parziali, lo avevano innalzato ben al di sopra di qualunque altro capotribù britanno”.

Forse si rivelò semplicemente l’uomo giusto al momento giusto e i Siluri videro in lui un leader veterano con una vasta esperienza nell’affrontare il nemico romano, oppure fece valere sui clan locali l’autorità che gli derivava dal suo sangue regale o, ancora, ottenne il sostegno dell’élite religiosa.

In ogni caso ebbe presto modo di dimostrare il suo valore e i Romani si trovarono invischiati in una sequenza di difficili scontri in un territorio montuoso sempre più avverso. Le legioni non erano né addestrate né equipaggiate per affrontare la guerriglia: rifornimenti e morale cominciarono a calare, e la situazione si fece dura.

La ricomparsa di Carataco richiamò anche l’attenzione del nuovo governatore della Britannia, Publio Ostorio Scapula, il cui principale obiettivo divenne mettere le mani sul capo ribelle, vivo o morto. Un po’ come, molti secoli più tardi, Saddam Hussein o Osama bin Laden, Carataco divenne un “ricercato numero uno”, per scovare e catturare il quale non si dovevano risparmiare risorse.

Forse nel timore che stessero per localizzarlo, o magari nella speranza di aprire un secondo fronte di combattimento, Carataco spostò il teatro di guerra presso la tribù degli Ordovici nel Galles settentrionale, dove, ci dice Tacito, scelse di abbandonare la guerriglia per “lanciarsi nello scontro decisivo”. Non abbiamo idea del perché avesse deciso di mettere da parte la sua strategia di logoramento, che pure stava dando ottimi frutti: è possibile che la sua presa sulle tribù si stesse indebolendo e che i singoli capiclan cominciassero a stancarsi di quel modo di procedere. In tal caso una battaglia in campo aperto contro le legioni avrebbe senz’altro rafforzato la sua posizione come re e quietato i dubbi di eventuali oppositori. Si può anche pensare che Carataco volle scommettere tutto su un singolo scontro eroico e risolutivo, che anche in caso di sconfitta avrebbe forse potuto convincere i suoi alleati a riprendere la vecchia strategia di guerriglia.

Ma la sua decisione di scendere in campo aperto giocò pienamente a favore dei Romani, che avevano l’atteggiamento e l’addestramento migliori per prevalere in quel genere di scontro. Sappiamo che fu Carataco a scegliere il luogo della battaglia. Questo ci fa presumere che avesse un piano di fuga se le cose si fossero messe male per lui e il fatto che lo stesso Tacito non fornisca il numero dei caduti fa pensare che, sul serio, i britanni, a un certo punto, si ritirarono senza grandi perdite. Tacito non è preciso nemmeno sul piano geografico, quindi non sappiamo dove si svolse lo scontro, ma solo che Carataco “scelse una posizione che rendeva sia l’avanzata sia la ritirata difficili alle truppe romane e nello stesso tempo agevoli ai britanni”. Questi ultimi si prepararono erigendo una barriera di pietre e attesero che gli uomini di Scapula venissero avanti.

Sempre secondo Tacito, prima della battaglia Carataco “corse avanti e indietro proclamando che quel giorno e quello scontro sarebbero stati o il punto di partenza per il recupero della libertà, o il sigillo della schiavitù perpetua”. Di fatto lo storico romano non aveva modo di sapere che cosa il re britanno potesse aver detto per davvero, ma di sicuro almeno un passaggio suona verosimile: quello in cui Carataco “invocò gli antenati che avevano cacciato il dittatore Cesare e grazie al cui valore la Britannia era rimasta libera dalla scure di Roma”. Ma le parole e l’eroismo da soli non potevano bastare: dopo aver fatto perlustrare il terreno, Scapula guidò le sue truppe al di là del fiume sotto la pioggia dei proiettili nemici e, una volta riordinati i ranghi, i Romani si fecero strada su per la collina fino a costringere i britanni alla ritirata.

Carataco riuscì a mettersi in salvo, ma sua moglie, sua figlia e i suoi fratelli (i cui nomi non ci sono noti) furono catturati. Il re prese dunque una decisione repentina: riparare presso i Briganti, una tribù filoromana dell’Inghilterra settentrionale, forse nella speranza di poter sfruttare qualche fazione antiromana del posto. Finì invece nelle mani della regina Cartimandua, la quale, temendo l’arrivo delle legioni all’inseguimento del loro ricercato numero uno, lo fece catturare e lo consegnò ai Romani. Ciò avvenne sul finire del 51 d.C.: dopo otto anni di guerra e fughe, Carataco era caduto nella rete del suo peggior nemico.

Un Discorso Fiero 

Tacito racconta dell’arrivo di Carataco a Roma e dei tentativi di Claudio di capitalizzare in ogni modo la propria vittoria. I prigionieri vennero fatti sfilare per le strade tra la folla insieme a carri carichi di “collane, ornamenti e altro bottino di guerra”. Tuttavia, il re britanno “non abbassò mai lo sguardo né chiese in alcun modo pietà”, e, giunto nel tribunale e messo di fronte all’imperatore, fissò quest’ultimo negli occhi. “Se il mio successo avesse eguagliato il mio rango e il mio lignaggio” furono le sue parole, “sarei stato condotto in questa città come un amico, non come un prigioniero. Avevo uomini e cavalli, armi e ricchezze: è forse strano che mi addolori per averli perduti? Se tu vuoi governare il mondo intero, è forse strano che non tutti accolgano con gioia la schiavitù?”.

E a quel punto, ci dice il resoconto, l’imperatore lo perdonò e lo fece liberare, in quella che era con ogni probabilità una mossa ben preparata, sebbene in contrasto con le decisioni dei predecessori di Claudio, che di solito facevano giustiziare i loro nemici.

È possibile che lo stesso discorso di Carataco fosse stato scritto per lui, per quanto, essendo stato lui stesso un re filoromano all’inizio del suo regno (e forse avendo vissuto come ostaggio regale a Roma da ragazzo), di sicuro parlava latino e sapeva come ci si doveva rivolgere a un imperatore. Peraltro le parole che Tacito gli attribuisce sono coerenti con il pensiero di Tacito stesso, quindi l’intero discorso potrebbe essere una mera elaborazione dell’autore.

Nel brano Carataco fa notare anche che, se fosse stato catturato senza bisogno di sferrare un colpo, ben pochi avrebbero sentito parlare della sua sconfitta o della vittoria di Claudio: un’osservazione plausibile e forse anche un sottinteso riferimento a Togidubno che si era venduto anima e corpo alla causa romana. In effetti, proprio il rapporto tra i due fratelli e le loro visioni divergenti sull’imperialismo romano potrebbero spiegare perché poco dopo Tacito affermi in tono caustico che la lealtà di Togidubno a Roma si accordava alla politica romana del “fare degli stessi re gli autori materiali della schiavitù dei loro popoli”.

Non sappiamo che cosa accadde da quel momento in poi a Carataco e alla sua famiglia, ma possiamo immaginare che l’ex re trascorse il resto della vita in agiata tranquillità, lontano dalla scena pubblica. E, forse, solo a quel punto, fu veramente un uomo libero.

Testo di Miles Russell pubblicato in "BBC History", Italia, Luglio 2017,n.75, estratti pp.38-42. Digitalizzati, adattato e illustrato per Leopoldo Costa

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