L'INVINCIBILE INDUSTRIA AMERICANA

Recinti d’ingrasso delle mucche a Grand View, in Idaho, Stati Uniti
Appena arrivati alla Casa Bianca, Barack e Michelle Obama hanno sidato l’industria alimentare chiedendo di produrre cibi più sani con metodi meno dannosi. Ma hanno fallito. Nonostante questo, i consumatori hanno qualche motivo per sperare.

Esattamente otto anni fa, sulle pagine del New York Times, scrissi una lettera aperta al futuro presidente degli Stati Uniti intitolata Farmer in chief, agricoltore in capo. Cominciava così: “La sorprenderà sapere che tra i temi che nei prossimi anni occuperanno gran parte del suo tempo ce n’è uno di cui ha parlato pochissimo in campagna elettorale: l’alimentazione”. Molte delle questioni sollevate da Barack Obama e John McCain in vista delle elezioni – come i costi della sanità, i cambiamenti climatici, l’indipendenza energetica e le minacce alla sicurezza in patria e all’estero – non potevano essere afrontate senza prima occuparsi delle storture della produzione alimentare.

Nella lettera spiegavo che un sistema alimentare organizzato intorno alle monocolture di mais e soia sovvenzionate dallo stato richiede enormi quantità di carburanti fossili (per qualsiasi cosa, dai fertilizzanti chimici ai pesticidi, queste colture dipendono dal carburante necessario a spedire cibo in tutto il mondo) e produce un’incredibile quantità di gas serra: un terzo delle emissioni totali, secondo alcune stime. Allo stesso tempo, i cibi che si possono produrre usando il mais e la soia (dalla carne d’allevamento a tutti i tipi di cibi trattati) sono in gran parte responsabili del brusco aumento dei costi per l’assistenza sanitaria: una percentuale consistente della spesa sanitaria degli Stati Uniti è destinata alle cure per malattie croniche legate all’alimentazione. Inoltre, un sistema alimentare fortemente centralizzato, in cui ogni settimana una singola fabbrica lava 25 milioni di porzioni di insalata e macina 20 milioni di hamburger, è fortemente esposto ai rischi sulla sicurezza alimentare. Nella lettera avanzavo alcune proposte di riforma del sistema, con l’obiettivo di contribuire alla salute della collettività e dell’ambiente invece che alla loro distruzione.

Pochi giorni dopo Barack Obama concesse un’intervista a Time in cui riassumeva così la mia lettera: “Stavo giusto leggendo un articolo di Michael Pollan sull’alimentazione e sul fatto che tutto il nostro sistema agricolo si regge sul prezzo basso del petrolio. Per questo l’agricoltura statunitense contribuisce all’emissione dei gas serra più del settore dei trasporti. E allo stesso tempo sta creando delle monocolture che sono esposte ai rischi legati alla sicurezza nazionale, alle impennate o ai crolli dei prezzi alimentari, alle forti oscillazioni del costo delle materie prime, e che sono in parte responsabili dell’esplosione dei costi della sanità perché possono provocare diabete di tipo 2, infarti, cardiopatie e obesità”. Il movimento per il cibo – la variegata coalizione di ambientalisti, sostenitori della salute pubblica, militanti per i diritti degli animali e la giustizia sociale che si batte per una riforma del sistema alimentare – stava per trovare un alleato alla Casa Bianca?

In in dei conti, Barack Obama aveva più volte dato prova di capire la necessità di riformare l’agricoltura industriale e di tener testa a big food, il gruppo di multinazionali che controlla il settore alimentare. Per vincere le primarie dell’Iowa aveva corteggiato i piccoli agricoltori dello stato, molti dei quali erano vittime degli oligopoli che imponevano i prezzi e le condizioni di vendita dei raccolti e del bestiame. E aveva corteggiato anche gli allevatori delle campagne dell’Iowa che erano stati danneggiati dalla progressiva crescita degli allevamenti industriali di suini e di pollame, i "Concentrated Animal Feeding Operations" (Cafo). Anche se inquinano l’aria e l’acqua come le fabbriche, i Cafo sono sottoposti alle stesse regolamentazioni delle fattorie, di fatto quasi inesistenti. In campagna elettorale Obama aveva promesso che avrebbe voltato pagina, impegnandosi a far rientrare i Cafo sotto l’autorità del Clean air act e del Clean waters act, le leggi federali che controllano i livelli d’inquinamento dell’aria e dell’acqua. Aveva anche promesso che sotto la sua presidenza le comunità locali avrebbero avuto “voce in capitolo sulla collocazione, l’espansione e la regolamentazione dei Cafo”. Per i grandi produttori di suini e di pollame, che sui Cafo erano sostanzialmente riusciti a piegare sia le autorità locali sia quelle federali, erano parole minacciose. E i sostenitori della riforma dell’agricoltura applaudivano.

Avevano applaudito anche quando, in un meeting sull’agricoltura in Iowa nel 2007, Obama aveva detto che gli statunitensi hanno il diritto di sapere da quale parte del mondo viene il cibo che mangiano e se è stato geneticamente modiicato. Sotto molti aspetti, in campagna elettorale Obama aveva dato l’impressione di aver capito le ragioni del movimento per il cibo e di condividerne le aspirazioni di riforma.

Ma le aspirazioni costano poco, mentre l’ingenuità può costare cara. Pochi giorni dopo l’uscita dell’intervista su Time, il senatore dell’Iowa Charles Grassley, soprannominato “il senatore del mais”, criticò ferocemente Obama per le sue idee sull’agricoltura, accusandolo in sostanza di dare la colpa agli agricoltori per l’obesità e l’inquinamento. Un portavoce del Partito democratico fece subito marcia indietro sulle dichiarazioni di Obama, precisando che il candidato aveva semplicemente “parafrasato un articolo che aveva letto”. Big food aveva parlato, e il candidato – un politico che veniva dalla città – aveva imparato la prima di una serie di lezioni poco piacevoli sull’influenza dell’industria alimentare nella politica statunitense.

Per seguire il balletto che da otto anni vede protagonisti big food e i coniugi Obama (Michelle ha assunto un ruolo di primo piano in queste battaglie poco dopo l’arrivo alla Casa Bianca) è importante sapere cos’è big food. In poche parole, è l’industria da 1.500 miliardi di dollari che coltiva, alleva, macella, tratta, importa, confeziona e vende al dettaglio gran parte del cibo che mangiano gli americani. In realtà questa imponente piramide alimentare è composta da almeno quattro livelli. Alla base c’è big ag (che sta per big agriculture), il complesso industriale della produzione di mais e soia della farm belt, la regione agricola che va dall’Iowa al South Dakota. Ne fanno parte anche i coltivatori di altre colture di base e le aziende che forniscono sementi e prodotti chimici a questi agricoltori. Big ag, a sua volta, fornisce i cereali da foraggio a big meat (l’industria della produzione e lavorazione della carne) e gli ingredienti all’industria dei cibi confezionati, che trasforma queste colture nelle basi fondamentali del cibo trattato: il mais diventa lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio e di tutte le strane sostanze chimiche che si leggono sull’etichetta dei prodotti confezionati, e la soia diventa l’olio nel quale sono fritti quasi tutti i cibi che si servono nei fast food. Al vertice della piramide di big food ci sono le catene dei supermercati e dei fast food.

Ciascuno di questi settori è dominato da poche aziende molto grandi. Secondo i parametri tradizionali, in un settore c’è un’eccessiva concentrazione economica quando le prime quattro aziende controllano più del 40 per cento del mercato. Nel caso dei prodotti alimentari e dell’agricoltura, questa percentuale viene superata nella macellazione dei bovini (l’82 per cento dei manzi e delle vacche), nella lavorazione del pollame (53 per cento), nella lavorazione del mais e della soia (circa l’85 per cento), nei pesticidi (62 per cento) e nelle sementi (58 per cento). L’acquisizione della Monsanto da parte della Bayer potrebbe far aumentare la concentrazione sia nel mercato delle sementi sia nel settore agrochimico.

Ognuna di queste industrie è rappresentata a Washington da una o più lobby molto potenti. La "Grocery Manufacturers Association" (GMA) rappresenta le aziende più importanti nell’ambito della produzione e vendita di cibo e bevande confezionate: la General Mills, la Campbell’s, la PepsiCo e la Nestlé, per esempio. Il North American Meat Institute rappresenta big meat, e lavora insieme alle singole associazioni di categoria, divise per specie animali: il National Pork Producers Council per il maiale, la National Cattlemen’s Beef Association per la carne bovina e il National Chicken Council per il pollame. L’American Farm Bureau Federation parla a nome dei coltivatori delle colture di base. La National Restaurant Association è la voce delle catene di fast food. La CropLife America, un nome decisamente eufemistico, rappresenta l’industria dei pesticidi.

Ognuno di questi gruppi ha il suo orticello da coltivare a Washington, ma molto spesso si muovono insieme, soprattutto su temi come le sovvenzioni ai raccolti, che sono vantaggiose per tutti, o l’etichettatura degli alimenti geneticamente modiicati, che è dannosa per tutti. Negli ultimi anni hanno unito le forze contro un avversario comune: un movimento per il cibo determinato a mettere un freno al dominio di questi gruppi sul mercato e alla loro libertà di operare sostanzialmente incontrollati. Anche se per certi versi è una sempliicazione, non è sbagliato descrivere big food come un’entità unica e potentissima.

Orto presidenziale

Poco dopo essere arrivati alla Casa Bianca, gli Obama cominciarono a far venire i bruciori di stomaco a big food. Nel 2009 Michelle Obama piantò un orto biologico sul prato della Casa Bianca, un gesto simbolico ma signiicativo che entusiasmò gli attivisti del movimento per il cibo. Non contenta, la first lady promosse la creazione di un mercato di agricoltori locali poco lontano dalla Casa Bianca; apparve in un servizio fotografico in cui riempiva un cestino di prodotti locali e mostrava di apprezzare la verdura fresca. Il motivo per cui big food non vedeva di buon occhio l’interessamento della first lady stava sostanzialmente in un aggettivo: biologico. In realtà Michelle Obama usava raramente questa parola per descrivere il suo orto, ma il comunicato stampa della Casa Bianca sulla coltivazione dell’orto si dilungava molto sulle pratiche biologiche impiegate – l’uso del compost come fertilizzante e degli insetti al posto dei prodotti chimici per neutralizzare i parassiti – e così i giornalisti cominciarono a parlare dell’“orto biologico” della Casa Bianca.

Un portavoce dell’American Council on Sciences and Health, un’organizzazione che promuove il dibattito su scienza e salute, deinì gli Obama una coppia di “liberal biologici in limousine”, ricordando che l’agricoltura biologica porta alla carestia e invitando la first lady a usare i pesticidi nel suo orto. La Mid-America CropLife Association, un’organizzazione che rappresenta gli agricoltori, scrisse una lettera al presidente in cui diceva che piantando un orto biologico sua moglie aveva ingiustamente messo in discussione l’agricoltura convenzionale. Sembrava solo una piccola polemica, ma forse era un primo avvertimento.

Nell’estate del 2009 la nuova amministrazione lanciò quella che si sarebbe rivelata la sua sida più seria all’industria alimentare. Tenendo fede alla promessa fatta da Obama ai piccoli agricoltori statunitensi, l’amministrazione avviò un’ambiziosa azione antitrust contro big food, aprendo un’inchiesta sul potere di mercato e le pratiche anticoncorrenziali nei settori del pollame, dei prodotti caseari, del bestiame e delle sementi. Durante tutto il 2010 Eric Holder, ministro della giustizia, Christine Varney, capo della divisione antitrust del dipartimento di giustizia, e Tom Vilsack, segretario all’agricoltura, visitarono le campagne statunitensi, organizzando una serie di incontri con i cittadini sul tema della concentrazione nell’industria alimentare.

Mettendo a rischio le loro stesse fonti di sussistenza, allevatori e agricoltori raccontarono gli abusi delle aziende a cui erano costretti a vendere il loro prodotto, spesso a condizioni sfavorevoli. In molte zone c’erano talmente pochi compratori di bestiame che le quattro grandi società di confezionamento della carne erano in grado di imporre contratti a condizioni inique e di rifiutarsi di comprare dagli allevatori che denunciavano gli abusi. Alcuni allevatori di polli sostennero che il sistema contrattuale in vigore nel settore li aveva ridotti a mezzadri.

Aziende come la Tyson e la Perdue facevano irmare agli agricoltori dei contratti in base ai quali i grandi produttori fornivano i pulcini e il foraggio e poi decidevano quanto pagare il prodotto inito sulla base di criteri misteriosi. Gli agricoltori che protestavano o che osavano opporsi a una richiesta del fornitore (per esempio quella di adeguare le strutture) non ricevevano più pulcini e di fatto erano tagliati fuori dal mercato. Holder, Varney e Vilsak espressero la loro solidarietà e la loro preoccupazione, promisero provvedimenti e assicurarono agli agricoltori che non avrebbero subìto rappresaglie per la loro testimonianza.

Il dipartimento dell’agricoltura aveva già l’autorità per limitare molti di questi abusi grazie al Packers and Stockyard Act del 1921, che aveva creato all’interno del dipartimento una potente divisione antitrust chiamata Grain Inspection, Packers and Stockyard Administration (Gipsa). Ma di fatto la Gipsa era stata neutralizzata dall’amministrazione di George W. Bush. La nuova amministrazione trovò decine di denunce di agricoltori contro le grandi aziende del cibo accatastate in un cassetto. Per rispondere alle richieste d’aiuto degli agricoltori contro le pratiche anticoncorrenziali nel settore della carne, nel 2008 fu approvata una legge che tra le altre cose incaricava il dipartimento dell’agricoltura di stabilire le nuove regole della Gipsa e di farle rispettare. Nel 2010 Vilsack annunciò una serie di regole per “assicurare che il terreno di gioco sia praticabile anche per i produttori”. Nello speciico, la proposta rendeva più facile per i produttori fare causa ai grandi fornitori per eventuali pratiche inique o ingannevoli e li tutelava contro le rappresaglie.

Michelle Obama contro tutti 

Big meat, in particolare, non era contenta. Così mise mano al portafogli, spendendo circa 9 milioni di dollari in attività di lobbying solo nel 2010, senza contare i contributi politici per gli esponenti delle commissioni sull’agricoltura al congresso. Una di queste commissioni chiamò Edward Avalos, sottosegretario del dipartimento dell’agricoltura, a difendere le nuove regole durante un’audizione in parlamento. Avalos fu sottoposto a un fuoco di domande solo per aver fatto il suo lavoro. Vilsack recepì il messaggio e accettò di rimandare l’entrata in vigore della normativa. Questo diede al settore il tempo di organizzare una campagna di lobbying “dal basso” contro le regole della Gipsa: il National Chicken Council, per esempio, chiese ad alcuni allevatori di polli di inviare al congresso lettere scritte dai lobbisti. Vilsack, ormai in ritirata, propose di rivedere le nuove regole per renderle più accettabili. Ma l’industria non era più disposta ad accettare nulla che non fosse una vittoria su tutta la linea. Alla ine riuscì a bloccare le limitazioni al suo potere sul mercato: nel 2o12 la commissione per la spesa pubblica della camera tagliò i fondi per la Gipsa dal documento di spesa del dipartimento dell’agricoltura. E lo stesso è successo nel 2013, nel 2014 e nel 2015.

Che ne è stato del tour per le campagne americane e degli incontri con i cittadini? Anche se quegli incontri hanno fatto venire alla luce un quadro piuttosto chiaro di comportamenti anticoncorrenziali, l’intera iniziativa antitrust dell’amministrazione Obama è stata abbandonata nel silenzio e nell’ignominia. Non se n’è saputo più nulla Gli agricoltori che hanno testimoniato sono stati abbandonati a se stessi e costretti a cavarsela da soli sul mercato. Obama ha lanciato la più grande ofensiva pubblica contro il potere di big food dai tempi in cui Teddy Roosevelt si mise contro l’industria della lavorazione della carne, all’inizio del novecento, ma ha semplicemente dovuto cedere all’opposizione del settore.

Paradossalmente, sui temi dell’alimentazione Michelle Obama, facendo leva solo sul suo potere di persuasione e sul buon esempio, ha ottenuto di più che tutto il resto dell’amministrazione. Tra i suoi risultati più significativi c’è l’aver sostenuto con convinzione l’Healthy, Hunger Free Kids Act del 2010, che ha innalzato gli standard nutrizionali dei pasti serviti nell’ambito del programma federale delle mense scolastiche, mettendo al bando il cibo spazzatura nelle scuole pubbliche. Grazie all’iniziativa della irst lady, le aziende alimentari si sono sforzate per rendere i loro prodotti meno dannosi. Le linee guida federali sulla nutrizione sono diventate più chiare e sensate. E la sua campagna Let’s move ha sensibilizzato l’opinione pubblica sull’importanza dell’alimentazione per la salute e il benessere, gettando le basi per una riforma più ambiziosa in un prossimo futuro.

A marzo del 2010 Michelle Obama pronunciò un discorso alla Grocery Manufacturers Association che sorprese i dirigenti presenti in sala. La irst lady lanciò una sida perentoria a big food, mettendo in chiaro che non si sarebbe accontentata dei consueti giochini degli addetti alle pubbliche relazioni. “Da voi non vogliamo solo dei provvedimenti di facciata”, disse, “ma un ripensamento totale dei prodotti che ofrite, delle informazioni che date sui prodotti e di come vendete questi prodotti ai nostri igli”. Poi aggiunse: “Questo non significa eliminare un ingrediente nocivo per aggiungerne un altro. Abbassare il contenuto di grassi va bene, ma sostituirli con zucchero e sale no. E non signiica compensare l’alto contenuto di ingredienti nocivi con qualche ingrediente salutare. Non si tratta di trovare modi creativi per far sembrare i prodotti più sani. Si tratta di produrre cibi che siano davvero salutari”.

Il discorso attirò l’attenzione dell’industria. Sean McBride, un consulente del settore alimentare che all’epoca lavorava per la Grocery Manufacturers Association, raccontò a Politico che gli Obama erano preoccupati per un sistema alimentare dove “alcune aziende sono spaventate a morte”. Tuttavia, secondo Scott Faber, all’epoca tra i principali lobbisti della Gma, molti dirigenti del gruppo avevano intravisto un’opportunità quando Michelle Obama aveva chiesto all’industria di “alzare il tiro”. L’aumento dell’obesità negli Stati Uniti “chiamava in causa tutto il settore”, spiega Faber. L’intervento della irst lady dava al settore l’opportunità di rispondere.

Per afrontare la sida lanciata dalla first lady, big food adottò una scaltra strategia a doppio binario. Da una parte i leader del settore si impegnarono a lavorare con la fondazione di Michelle Obama, la Partnership for a healthier America, per creare una serie di accordi tra aziende private, una delle proposte avanzate dalla first lady nel suo discorso. I supermercati si impegnarono a promuovere alimenti più sani nei loro negozi. Un gruppo di sedici venditori al dettaglio si impegnò a ridurre di 1.500 miliardi il numero totale delle calorie nei cibi esposti. I produttori di cibi trattati promisero di ridurre la quantità di ingredienti nocivi, come il sale e lo zucchero, e di aumentare la quantità di ingredienti salutari come la farina integrale. Le aziende che aderivano a questi accordi erano ricambiate con la preziosa opportunità di un servizio fotograico con la first lady. Nel caso di Subway e Walmart, Michelle Obama si fece perino vedere nei loro punti vendita.

Per la first lady questi accordi erano un risultato importante. Ma erano davvero all’altezza delle ambizioni del discorso che aveva fatto nel 2010, in cui chiedeva alle aziende di “ripensare completamente i prodotti”? È sicuramente importante eliminare gli ingredienti poco salutari dai cibi trattati. Ma produrre cibo spazzatura un po’ meno spazzatura è un risultato quanto meno discutibile: si inisce per dimenticare la distinzione, molto più importante, tra cibi trattati e cibi biologici. Quello che all’inizio era un dibattito culturale sugli orti, i mercati degli agricoltori e i cibi genuini era diventato un dibattito su come migliorare i cibi confezionati, uno spostamento di prospettiva che ha fatto il gioco di big food.

Battaglia persa

Poi c’era la strombazzata promessa di big food di eliminare 1.500 miliardi di calorie dal cibo venduto negli Stati Uniti entro il 2015. Cosa voleva dire veramente? Molto poco, a quanto pare. Uno studio commissionato dalla fondazione Healthy Weight Commitment ha concluso che le calorie totali presenti negli alimenti erano già in calo di oltre mille miliardi all’anno – le vendite di bevande gassate, per esempio, sono crollacrollate – e gli studiosi hanno stimato che le tendenze di mercato avrebbero determinato un calo ancora superiore anche in assenza di un impegno da parte dei produttori. Per questo il rettore della School of nutrition alla Tufts university ha descritto l’iniziativa come “un impegno ‘fasullo’, facile da pubblicizzare ma ingannevole”, “una evidente messinscena dei produttori” che ha preso in giro i cittadini e la first lady.

Mentre cercava pubblicamente di stringere un accordo con Michelle Obama nella guerra all’obesità, big food portava avanti allo stesso tempo una campagna dietro le quinte per bloccare qualsiasi nuova legge, tassa o regolamentazione che mettesse a rischio la libertà di produrre e vendere cibo spazzatura. L’industria ha ottenuto la sua più grande vittoria su un tema che stava a cuore a Michelle Obama: le linee guida per la vendita dei cibi ai bambini. La proposta, sviluppata da un gruppo di lavoro a cui partecipavano la Federal trade commission, il dipartimento dell’agricoltura, il Centers for disease control and prevention e la Food and Drugs Administration, issava i parametri per le quantità di sale, zucchero e grassi nei cibi trattati e, in caso di violazioni, ne vietavano la vendita ai bambini, almeno da parte delle aziende che accettavano di partecipare al programma. La bozza, pubblicata ad aprile del 2011, era scritta in modo tale che molti cibi per bambini, come lo yogurt dolcificato (che a volte contiene più zucchero per grammo della Coca-Cola), le zuppe in barattolo (che spesso sono bombe di sodio) e perino i Cheerios (ugualmente pieni di sale) non avrebbero superato il test. Anche se gli orientamenti non avevano forza di legge, erano comunque una disgrazia per big food. “Per noi quelle linee guida sono state un punto di svolta”, mi ha rivelato Faber. La GMA era pronta a sidare direttamente l’amministrazione. E la first lady.

All’epoca l’amministrazione Obama, spaventata dal sorprendente successo del Tea party alle elezioni del 2010 (in cui il Partito democratico aveva perso la maggioranza alla camera) e dall’ostilità dei repubblicani del mondo delle imprese, stava cercando di riallacciare i rapporti con i grandi capitalisti americani. A gennaio del 2011 Bill Daley, ex segretario del commercio e banchiere, fu nominato capo di gabinetto di Obama, un chiaro segnale d’apertura verso le imprese. Pochi mesi dopo la Gma lanciò un’aggressiva campagna di lobbying, sia al congresso sia alla Casa Bianca, per indebolire i regolamenti sulle linee guida per la vendita dei prodotti alimentari. Di lì a poco la Gma fu invitata alla Casa Bianca insieme ai dirigenti delle maggiori aziende alimentari per discutere il tema con Valerie Jarrett, consigliera politica del presidente. Molti sostenitori dell’alimentazione salutare e deputati favorevoli alle linee guida rimasero sorpresi del fatto che il presidente e la first lady non spendessero una parola per difendere il provvedimento. “Sono arrabbiato con l’amministrazione”, disse il senatore Tom Harkin, presidente della commissione sanità del senato. “Al presidente sono tremate le ginocchia”.

La Casa Bianca lasciò la questione delle linee guida nelle mani della camera, controllata dai repubblicani, che di fatto uccisero il provvedimento. Faber, che come lobbista della Gma contribuì a orchestrare il colpo, mi ha confessato di essere rimasto “sinceramente sorpreso che l’amministrazione non fosse tornata alla carica con delle nuove linee guida”. Evidentemente l’amministrazione Obama aveva perso la voglia di combattere questa battaglia.

Negli anni successivi big food ha ottenuto una serie impressionante di vittorie. Ricordate la promessa fatta ai cittadini dell’Iowa di regolamentre i Cafo e fermare l’inondazione di riiuti di origine animale nelle campagne statunitensi? Se il governo vuole regolamentare i Cafo, prima di tutto deve sapere dove sono questi allevamenti e quanti animali ospitano. L’Environmental protection agency (Epa), l’agenzia governativa che si occupa della salvaguardia ambientale, cerca di scoprirlo dal 2008. A luglio del 2012, dopo le pressioni della lobby dei produttori di carne, l’Epa ha completamente rinunciato perino a censire i Cafo presenti sul territorio nazionale.

Big meat è riuscita ad avere la meglio anche sull’uso di antibiotici nell’agricoltura animale, che provoca resistenza agli antibiotici, compromettendo l’eicacia dei farmaci da cui dipende la nostra salute.

Ma forse big food ha ottenuto la sua vittoria più importante in una battaglia che non ha nemmeno dovuto combattere. L’amministrazione Obama, infatti, si era impegnata in un’ambiziosa campagna per contrastare i cambiamenti climatici attraverso la regolamentazione dei settori responsabili delle emissioni di gas serra, in particolare l’energia e i trasporti. Per qualche motivo, tuttavia, ha deciso di non chiamare in causa uno dei settori più responsabili di emissioni: l’agricoltura.

Il tallone d’achille

Ma il futuro dell’alimentazione non si deciderà solo nei corridoi del potere. Esiste anche una componente culturale, e qui big food ha un grande problema, che è stato aggravato da alcune delle vittorie politiche ottenute dal settore negli ultimi anni e che è destinato a peggiorare. Un esempio: la battaglia di big food contro l’etichettatura degli organismi geneticamente modiicati (ogm) ha messo molte aziende alimentari contro la grande maggioranza dei consumatori, i quali nei sondaggi dicono di essere favorevoli alla norma che impone di indicare sull’etichetta la presenza di ogm negli alimenti.

È una posizione scomoda per il settore, ed è per questo che molte aziende rappresentate dalla Gma hanno provato (invano) a nascondere il loro coinvolgimento in questa battaglia. La mancanza di trasparenza è destinata a creare siducia, e questo potrebbe danneggiare il capitale più prezioso nelle mani di big food: i suoi marchi.

Queste battaglie hanno mostrato le prime crepe nella facciata del potere di big food, punti deboli che alcuni attivisti hanno capito come sfruttare. Un esempio: dagli anni novanta la Coalition of immokalee workers ha cominciato a organizzare i raccoglitori di pomodori del sud della Florida, tra i lavoratori più sottopagati e maltrattati del paese. Nella sua battaglia ultradecennale per l’aumento dei salari e per il miglioramento delle condizioni di lavoro, la coalizione ha provato ogni strategia possibile: scioperi del lavoro, scioperi della fame, manifestazioni in tutto lo stato. Ma i produttori non si sono mai piegati. “Poi abbiamo scoperto la proverbiale porta aperta nel muro del castello”, racconta Lucas Benitez, uno dei braccianti che hanno contribuito a fondare l’organizzazione: “Il marchio”. Invece di prendersela con un gruppo di produttori senza nome, che non avevano niente da perdere respingendo le loro richieste, i lavoratori hanno cominciato a prendere di mira i grandi marchi di big food che compravano i loro pomodori: McDonald’s, Burger King, Chipotle, Subway, Walmart. Nel 2011 la coalizione ha preparato la bozza di un Fair Food Agreeement (accordo sul cibo equo) che prevede un aumento di un centesimo per libbra di prodotto raccolta e deinisce nuovi standard sulle condizioni di lavoro. Poi ha spinto i grandi marchi a firmare l’accordo, minacciando boicottaggi, marce nei fast food e perino di svergognare pubblicamente i massimi dirigenti e i loro banchieri. Uno dopo l’altro, i marchi di big food hanno ceduto, accettando di irmare l’accordo e assumendosi una parte di responsabilità per le condizioni dei braccianti, l’ultimo anello della catena alimentare. La coalizione è riuscita a ottenere risultati che sarebbe stato impossibile raggiungere a Washington.

Sicuramente questa è una lezione utile per il movimento per il cibo, in cui convivono gruppi diversi tra loro che si battono per il cambiamento nell’alimentazione e nell’agricoltura ma che hanno idee divergenti sulle priorità. Sotto questo grande ombrello ci sono difensori dei diritti degli animali che litigano con gli agricoltori sostenibili; attivisti contro la fame nel mondo che contestano il tentativo dei sostenitori della salute pubblica di escludere le bevande gassate e le merendine dalla lista dei beni acquistabili con i buoni alimentari; ambientalisti che litigano sui cambiamenti climatici con gli allevatori di bestiame sostenibili. Chiamarlo movimento è un atto di generosità e di speranza. Ma comunque lo si voglia chiamare, inora non c’è stata partita con big food, almeno a Washington.

Tutte le volte che gli Obama hanno provato a stuzzicare big food, hanno dovuto cedere al potere delle lobby. Perché? Perché il movimento per il cibo non è ancora una forza politica riconosciuta a Washington. Non ha ancora la struttura organizzativa né le truppe per far suonare il centralino della Casa Bianca o del congresso quando si discute di uno dei suoi temi.

Attacchi personali

Il potere del movimento per il cibo sta nella forza delle sue idee e nel fascino delle sue aspirazioni: costruire dal basso, ristabilire il contatto con la natura e prendersi cura sia della nostra salute sia della salute della terra. Dall’altra parte, quali sono le idee di big food? Fondamentalmente una sola: “Se ci lasciate in pace e non vi preoccupate di come lavoriamo, saremo in grado di produrre enormi quantità di cibo di qualità accettabile a costi bassissimi”.

Big food sa benissimo di avere un problema di immagine, e all’inizio dell’amministrazione Obama ha lanciato un piano di pubbliche relazioni molto aggressivo. Un primo esempio è la reazione al documentario Food, Inc., che è uscito nel 2009 ed è stato candidato all’Oscar (per il quale ho fatto da consulente). Il documentario sostiene che l’intero sistema alimentare – dalle monocolture del midwest al mais geneticamente modiicato ino ai fast food che stanno rovinando la salute degli statunitensi – va urgentemente riformato. Per rispondere al film, e di fronte a un’amministrazione che sembrava sensibile a questi temi, una coalizione di multinazionali del settore agroalimentare decise di prendere le difese dell’industria alimentare e di afrontare i suoi oppositori. Un articolo uscito a settembre del 2009 su Agripulse, una rivista del settore, sosteneva che l’industria stava preparando “un attacco preventivo contro un lungo elenco di nuove normative” messe in cantiere dalla nuova amministrazione e che era pronta a rispondere a “persone come Michael Pollan”.

“Siamo stati pesantemente attaccati”, scriveva Agripulse. “Abbiamo visto Michael Pollan da Oprah. Cosa succederà quando queste persone cominceranno a influenzare le politiche e le leggi?”. Spaventata da questa eventualità, una coalizione di aziende e organizzazioni legate a big ag, tra cui la Monsanto, la DuPont e la National cattlemen’s beef association, incaricò la Ketchum Communications, una società di pubbliche relazioni di New York, di organizzare una campagna da vari milioni di dollari. La Ketchum promosse un’organizzazione chiamata Us farmers and ranchers alliance, un gruppo di sedicenti agricoltori e allevatori indipendenti (in realtà gran parte dei inanziamenti proveniva dalle multinazionali del settore agroalimentare) che intervenivano in incontri pubblici, dibattiti o sui giornali per rispondere ai giornalisti e ai registi che all’epoca avevano molto spazio sui mezzi di informazione, spesso senza contraddittorio.

Fu in quel periodo che i miei impegni come relatore nelle università cominciarono a subire cambiamenti improvvisi di programma. Un invito della Washington state university, che aveva organizzato una lettura di uno dei miei libri, fu improvvisamente ritirato, uicialmente per problemi di costi ma secondo i giornali su richiesta di un produttore di grano che faceva parte del consiglio di facoltà. Nel 2010 fui invitato dall’università Cal Poly, in California, e un inanziatore dell’istituto, proprietario del più grande recinto di ingrasso del bestiame dello stato, scrisse al rettore minacciando di ritirare la sua donazione se mi avessero fatto parlare senza contraddittorio.

La reazione eccessiva alla minaccia rappresentata da un pugno di giornalisti e registi indica che dietro il muro del potere politico dell’industria c’è efettivamente una debolezza di fondo. Quella debolezza è la coscienza del consumatore, che negli ultimi dieci anni ha cominciato a interessarsi di questioni come la provenienza del cibo, i metodi di produzione e le conseguenze delle nostre scelte alimentari sul pianeta, sulle braccia che ci danno da mangiare, sugli animali che mangiamo e, sempre di più, sul clima. Anche se sono ancora una minoranza, i consumatori statunitensi che si interessano a queste questioni non si idano di big food e riiutano i suoi prodotti. Alla ricerca di alternative più adatte ai loro valori, hanno dato vita a un’economia alimentare parallela del valore di 50 miliardi di dollari, basata sul cibo biologico, locale e artigianale. Potremmo chiamarla little food. E anche se è ancora piccola rispetto a big food, è comunque il settore dell’economia alimentare che cresce di più.

Big food può fermare il cambiamento a Washington, ma la sua strategia è destinata a fallire sul mercato. L’industria sta faticando ad adattarsi a uno scenario in rapida evoluzione che non è in grado di controllare. Ecco perché le aziende stanno comprando marchi biologici e artigianali, sperando di scoprire il segreto del loro successo (che non è un segreto: semplicemente capiscono e rispettano i valori dei nuovi consumatori). Alcune grandi aziende alimentari stanno spontaneamente cambiando modo di lavorare per rispondere alle preoccupazioni di questi consumatori, dall’uso degli antibiotici alle condizioni degli animali ino ai diritti dei lavoratori. Uno dei possibili sviluppi della politica per il cibo potrebbe essere quello delle campagne dal basso indirizzate non contro i politici ma direttamente contro big food, prendendo di mira il suo punto debole: i suoi preziosissimi marchi.

Nonostante la delusione, va riconosciuto agli Obama di aver dato visibilità e sostegno a little food. Se non altro, l’attenzione della coppia presidenziale ha contribuito a far diventare l’alimentazione un tema di interesse pubblico. Mentre gli Obama si preparano a lasciare la Casa Bianca, big food può congratularsi con se stessa per essere riuscita a conservare il suo peso politico. Sembra molto improbabile che il nuovo presidente possa rappresentare una minaccia altrettanto grande. Donald Trump dice pubblicamente di amare il fast food, mentre Hillary Clinton ha rapporti di vecchia data con la grande industria alimentare: la Tyson è stata uno dei primi sponsor politici di Bill Clinton; inoltre, quando era avvocata in Arkansas, la candidata democratica è stata nel consiglio di amministrazione della Walmart (da senatrice dello stato di New York, però, si è impegnata molto per i piccoli agricoltori del nord dello stato, quindi forse c’è una speranza).

Ma come Golia, big food non può permettersi di sedere sugli allori del suo enorme potere, perché la cultura alimentare sta cambiando. Forse è un segno dei tempi che Scott Faber, il lobbista che ha aiutato i grandi produttori durante la prima amministrazione Obama, abbia lasciato la Gma per entrare nell’Environmental working group, dove oggi lavora al servizio del movimento per il cibo. A Washington la politica e le leggi raramente si muovono prima della società. Ma quando c’è un cambiamento culturale, tutto ciò che sta in mezzo può essere spazzato via. Anche Golia.

Di Michael Pollan, estratti "Internazionale", anno 23, n.1176, 21/27 ottobre,2016, Roma, pp.40-53.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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