ECO-GASTRONOMIA

Carlo "Carlin" Petrini

Il 9 dicembre 2001 sul “New York Times” veniva pubblicato, a firma Lawrence Osborne, un articolo intitolato The Year in Ideas: A to Z, ovvero: L’anno in idee: dalla A alla Z. Alla lettera S si parlava di Slow Food. Non era la prima volta che l’autorevole quotidiano statunitense si occupava di noi, infatti proprio intorno al 2000 ricorsero a un interessante neologismo per descriverci: un movimento di “eco-gastronomi”. Osborne, circa un anno dopo che la sua testata aveva coniato la nuova parola, cercava di definirci così:

"Il movimento Slow Food, che adesso sta prendendo piede anche in America, è la versione gastronomica di Greenpeace: una determinazione ribelle per salvaguardare i cibi non industriali e che richiedono un grande consumo di tempo, per evitare che siano espulsi dalla mappa culinaria. E, come l’attivismo anti-WTO, il movimento è una protesta contro il globalismo. Ma l’attivismo di Slow Food non prende la forma delle dimostrazioni di piazza. Invece, gli attivisti sono incoraggiati a gustare cavoli biologici e a discettare sulle gioie del tartufo nelle loro cucine. La protesta non è mai stata così divertente."

Un testo che ancora oggi mi fa sorridere, perché nonostante colga elementi interessanti propri di Slow Food, induce in alcuni errori di valutazione un po’ ingenui. Ormai sono abituato al fatto che, se si decide di considerare la gastronomia una scienza complessa com’è complesso il mondo, sarà poi molto probabile che le proprie azioni e i propri pensieri siano mal interpretati o non capiti. Più probabile ancora, se chi giudica non prova, per formazione e forma mentis, neanche a concepire la grande complessità relativa al cibo. Nelle parole apparse sul “New York Times” si parla al contempo di ribellione, di protesta e divertimento. Di gusto e attivismo. E questo è già un elemento interessante, che coglie parzialmente nel segno. Ma è tutto permeato da un tono vagamente supponente, che racconta il movimento quasi come una curiosità tipica dei tempi globali e postmoderni. Una sorta di oggetto misterioso da osservare bonariamente, come a dire: «Vediamo dove arriveranno questi pazzi».

Osborne scrive che Slow Food sarebbe contro il globalismo, scambiando la nostra attenzione per i territori e la promozione della scala economica locale come qualcosa d’incompatibile con la mondializzazione. Sbagliato. Parla di discettare sulle gioie del tartufo in cucina, scambiando l’approccio tipico dei Laboratori del Gusto per un avvitamento ludico su questioni marginali dell’esistenza. Buco nell’acqua. Usa come esempio i cavoli biologici perché negli Stati Uniti, proprio in quel periodo, emergeva con forza una rete di produttori e consumatori attenti all’organic, la produzione biologica; un’esperienza che pur rasentando l’ossessione in alcuni casi estremi, è comunque stata un’altra forma di liberazione importante, che oggi ha raggiunto dimensioni impensabili, tanto da cambiare profondamente la dieta di milioni di nordamericani. Ci torneremo in seguito. Osborne suggerisce preferenze per cibi “non industriali” – non-processed in inglese – il che sembra suggerire un qualche riferimento a un’inclinazione per il naturale, e comunque comunica un’avversione per tutto ciò che è cibo industriale, processed. Vero solo in parte. Il riferimento al “consumo di tempo”, poi, è davvero figlio di un modo di pensare meccanicistico e a compartimenti stagni, come se un alimento si potesse valutare in funzione di quanto tempo ci vuole perché sia preparato, trasformato o consumato. Non è un caso che i primi tempi, quando ci recavamo all’estero per promuovere Slow Food in Paesi non anglofoni, una delle domande più ricorrenti fosse: «Ma cosa fate con lo Slow Food, dovete stare seduti per ore a tavola? Bisogna cucinare solo ricette lunghe e complicate?». Certo, se tradotto in maniera letterale: alimentation lente, manger lentement, comida lenta e persino “cibo lento” in italiano, il nome può forse disorientare. Allora, la vedevo come una cosa positiva: almeno non ci incasellavano soltanto in contrapposizione al fast food, suscitavamo curiosità e c’erano margini per lavorare su un altro concetto di cibo e su una nuova scienza gastronomica.

Più che altro, però, nell’articolo del “New York Times” si rappresenta Slow Food come la «versione gastronomica di Greenpeace». Anche qui, sebbene esagerando un po’, si colgono un’attitudine e una filosofia che abbiamo sviluppato negli anni. Dalla tutela del diritto al piacere del cibo contro l’omologazione dei sapori, attraverso un approccio nuovo alla degustazione, il «camminare le campagne» e il susseguirsi di scandali alimentari e di disastri ecologici, avevamo infine maturato la convinzione che un gastronomo che consuma i prodotti della terra non può restare insensibile di fronte alle tematiche ambientali. Quando nel 2001, al primo Congresso di Slow Food USA tenutosi a Bolinas, in California, dove fummo accolti dentro uno splendido fienile in legno tipico dell’Ottocento, aprii il mio discorso con la frase «Un gastronomo che non è un ambientalista è certamente uno stupido, ma un ambientalista che non è anche gastronomo è triste!», i nostri soci americani si sbellicarono di complici risate. A rincarare la dose, usai l’immagine di un treno, con i gastronomi dentro il vagone ristorante a far girare i bicchieri e a riempirsi la pancia di ogni ben di dio, mentre il treno andava verso un baratro e nessuno lo fermava. Quel treno era la nostra terra, che va curata, salvata, a partire dal cibo. Era ora di uscire dal recinto di chi «discettava sulle gioie del tartufo», di uscire dal vagone ristorante.

Il termine “eco-gastronomia” ci piacque subito e forse piacque un po’ meno ai nostri amici ambientalisti i quali lo intesero probabilmente come un’invasione di campo o, peggio, come il voler dare alla loro missione un’aura troppo giocosa, poco seria, come invece sarebbe convenuto a buoni militanti. Ma essere serio non significa per forza farsi del male, rifiutare il piacere… Il neologismo per la prima volta diceva qualcosa di immediatamente percepibile rispetto al nostro approccio gastronomico, sensibile a problematiche economiche su scala globale, ai profondi mutamenti cui era sottoposto il mondo rurale a ogni latitudine, all’urgente necessità di salvaguardare la biodiversità. Ma ci volle un po’ – e mi sa che ce ne vorrà ancora – per far capire che il piacere passa anche da questi temi, intimamente collegati tra di loro. Connessioni rivelatesi a metà anni Ottanta, ma ancora oggi invisibili a molti.

Quel disappunto di molti ambientalisti ci racconta di come il processo di liberazione per la gastronomia fosse ormai iniziato, a differenza di un arroccamento sempre maggiore della casta ecologista sulle proprie posizioni, spesso limitate alla pura protesta, senza che questa riuscisse a cogliere il valore liberatorio dell’incontro fra diverse discipline e campi del sapere. Strano, per chi fa dell’ambiente una bandiera: perché non c’è niente di più complesso e interrelato di un ecosistema. Non me ne voglia nessuno, ho grandi simpatie per gli ambientalisti, ma quando un movimento si chiude ostinatamente nel proprio specifico, è già finito prima di iniziare: anche presso gli elettori italiani questo è risultato evidente, con la conseguenza di far quasi sparire le tematiche ecologiche dal dibattito politico e dai tavoli istituzionali. L’ecologia in Italia spesso assume la forma di un altro “recinto”.

Un certo disappunto, devo dire, lo registrai anche da parte di molti “slowfoodisti” della prima ora, o colleghi gastronomi che ritenevano (ma c’è chi ha cambiato atteggiamento, anni dopo), o ritengono tuttora, che la gastronomia non dovesse allargare tanto il suo campo d’interesse, e che la responsabilità verso l’ambiente e le tematiche socio-economiche fosse antitetica al piacere del buon mangiare. Per loro, nel dubbio era sempre meglio scegliere il buono. Così come fecero importanti cuochi, convinti che la propria maestria (indiscutibile) fosse in grado di trasformare in qualcosa di perfetto qualunque prodotto, di qualsiasi provenienza, con ogni retaggio possibile.

Secondo me sbagliavano, e la storia comincia a darci ragione: a fine anni Novanta la strada per una concezione olistica del cibo e quindi – per usare la celebre definizione di Brillat-Savarin – «di tutto quanto è inerente all’uomo in quanto egli si nutre», era ormai tracciata. La propulsione del movimento della “gastronomia liberata” ci proiettò presto in terreni impensabili agli inizi, e il pensiero intanto si affinava.

Di Carlo Petrini, estratti "Cibo e libertà - Slow Food: Storie di Gastronomia per la Liberazione", Giunti Editore, Milano,2013, capitolo 4.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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