GIRO DEL MONDO IN OTTANTA SAPORI
In ogni viaggio si varca un confine. Dogane e passaporti sono coinvolti solo in parte, però. È quel limite sottile, fatto di odori che si arrotolano nell’aria, e colori che dipingono le strade. Il richiamo dei passanti distratti, che stringono in mano un incarto, o un bicchiere di plastica. O meglio, il senso sospeso che divide a metà ogni giornata. Quel confine che segna così profondamente culture distanti, è in ogni soglia di ristorante, o in ogni finestra di cucina lasciata aperta nell’ora di pranzo, o in un banco improvvisato che vende cibo preparato là per là.
Il mondo non è solo un mosaico di culture e tradizioni. Di facce scottate dal sole o di costumi brillanti tirati fuori nel giorno di nozze. C’è una radice profonda in ogni angolo del pianeta, che affonda in ogni tavola e si esprime in migliaia di forme. Cibi preparati frettolosamente, per riempirsi lo stomaco, o per spezzare tra un lavoro e un altro. Piatti elaboratissimi che richiedono giorni di preparazione. Trasformazioni alchemiche di materie prime o ingredienti sintetici.
Se il cibo fosse solo nutrizione, per quale ragione le stesse pietanze non dovrebbero trovarsi su ogni tavola del mondo? In fondo il punto di partenza e quello di arrivo è sempre lo stesso. Tuttavia, ogni singola cultura ha trovato e sentito la necessità di personalizzare se stessa anche attraverso quello che mangiava. Non è un caso.
Migliaia di sapori si sono fusi tra loro, nei secoli, creando infinite varietà di preparazioni destinate a diventare il marchio distintivo di città e di popoli.
Ricette così importanti da diventare veri e propri tesori: in antichità, sale e spezie potevano valere quanto metalli preziosi. Non solo piatti diversi caratterizzavano etnie e luoghi geografici. Le stesse classi sociali erano caratterizzate da ciò che esse mangiavano. Così, ingredienti ricercati finivano sulle tavole dei ricchi, mentre le classi più umili inventavano piccoli capolavori usando quel poco che avevano a disposizione.
Oggi il mondo è cambiato, e culture e popoli hanno imparato a muoversi e a mescolarsi tra loro. Ma il grande limite, che unisce e diversifica, rimane spesso la cucina. Un luogo in cui è impossibile non esprimere la propria origine, ma non solo. Un solo assaggio, infatti, può rivelare molto della persona che ce lo offre.
La cucina è un diario di viaggio, in fondo.
1. USA
C’è qualcosa che colpisce negli americani. La nazione del grande sogno, dove tutto sembra possibile e dove per ognuno sembra esistere un posto. Colpisce perché a volte è un marchio distintivo, che contrasta follemente con i fisici scolpiti che cinema e TV ci offrono in continuazione.
Se tutto negli Stati Uniti sembra grande, lo stesso si può dire della sua popolazione. Uomini e donne mastodontici che arrancano sotto il sole si vedono ovunque. Dovrebbe essere un paradosso, visto che molta della ricerca scientifica in campo medico viene da questa nazione, ma basta varcare le soglie di un qualunque fast-food per capire che le cose stanno diversamente. È qui che sono nati, infatti, i fast-food. Spazi conquistati al cemento nelle metropoli, o al deserto se ti spingi a ovest, dove per una manciata di dollari si possono avere vassoi preparati al momento, con cibi che per questo popolo sono vere leccornie. Carne sfrigolante, immersa in salse e formaggio e avvolta nel pane morbido. Patate al cartoccio. Crocchette di pollo.
Qui tutto è fritto. Bollito nell’olio. Consumato di fretta, appunto, perché non c’è mai troppo tempo in un paese che detta il tempo al resto del mondo. Si stacca per pranzo, ma non più di mezz’ora.
Non è diverso se si viaggia. Qui gli orizzonti si allargano sempre, per quanto lontano si vada. Ci si concede così una pausa di pochi secondi, tra tappe interminabili che durano ore. Ma attenzione: il fast-food è solo un aspetto della società americana, uno specchio fedele di un mondo. La cucina è tutt’altra cosa. Lo sa bene ogni famiglia americana per bene, per la quale il barbecue domenicale è una tradizione. E non è qualcosa che può concedersi fretta: la brace va preparata con cura, il legno per il carbone selezionato con attenzione. La carne va messa al momento giusto. Poi girata e cosparsa di salse. Cotta con accurata lentezza, in modo che il grasso si sciolga lentamente, intenerendo la carne e lasciando una crosticina fuori.
Qualcuno disse che non esistono gli americani perché, fatta eccezione per poche sacche di nativi, ogni statunitense è in realtà il miscuglio di qualcosa. Ma c’è molto più di una somma di culture in tutto ciò. Ristoranti etnici o tradizionali qui sono in ogni dove. Ma questo ha poco a che fare con la tradizione. In poco più di due secoli di storia, infatti, questo paese ha creato una sua tradizione. Un simbolo di identità forte, marcato dal tacchino ripieno o dalla torta di zucca del Giorno del Ringraziamento, per esempio, la festa che segna l’inizio dell’identità di una nazione. L’America che fa colazione con pancakes imbevuti di sciroppo d’acero, e dove i bambini pranzano con burro di arachidi su una fetta di toast.
La cucina, dopo tutto, dice esattamente il perché di questa nazione. E lo dice nel suo piatto più tipico, quello che forse più di ogni altro ha fatto il giro del mondo: l’hamburger. Non quello piatto e smorto delle grandi catene di ristorazione. Ma quello autentico, americano appunto, creato ad arte sulla piastra ardente di un locale fumoso. Così informale da dover essere mangiato con le mani. Anche da presidenti e governatori. Accompagnato da montagne di patate, fritte possibilmente, come da tradizione. Buffo, pensando che qui le chiamano French fries, come se la patata non venisse proprio dal nuovo mondo.
2. Brasile
Non è difficile capire lo spirito carioca, se ti attardi una sera di fine settimana sulle spiagge di Rio. Copacabana è un tripudio di colori, ritmati dal suono dell’oceano, in sottofondo, e scandita dai suoni dei complessi dai tanti chioschi, che punteggiano il lungomare di notte.
Le due facce del Brasile sono anche qui. Negli spiedini di gamberi fritti, venduti sulle spiagge da ragazzi ambulanti, o negli spiedi maestosi delle churrascherie, nei locali costosi. Rio è l’anima dell’uomo che si esprime nelle colate di cemento che infettano uno dei paesaggi più belli al mondo. Una crosta che lotta per prendere il posto alla natura selvaggia, che esplode tutto intorno. Ma che in fondo non stona, perché questo è anche il paese delle grandi contraddizioni. Lo avverti in un salgado consumato sullo splendore del Pan di Zucchero, il dente di pietra che si eleva al centro del golfo. Addenti lo stuzzichino di pane, ripieno di formaggio fuso, o di gamberi, o prosciutto. Il gusto ti esplode in bocca, nella semplicità di cui è fatto, che pure nasconde tutto un mondo di tradizioni. Qui in città si vendono ovunque. Come paste salate, da consumare all’ora del tè che spesso è anche la cena, se sei abbastanza povero. Ce ne sono di varie forme e con gusti diversi. Bastano pochi spiccioli, se il locale non è troppo decente. Lo butti giù con una cerveja ghiacciata, perché a Rio fa caldo anche d’inverno, e aspetti che la fame ti passi, se non hai niente di meglio da fare. Cosa che qui è un controsenso.
Ma lo spirito del Brasile va oltre questo; e non potrebbe non essere così in una nazione grande quasi quanto mezza America. Se decidi di lasciarti alle spalle i grattacielie le favelas che si affacciano, aggrappate sui pendii, tra di essi – puoi goderti un vero tocco di tradizione, che si esprime nella forma più tipica di cucina di questo paese, ben nota anche all’estero. Tra tavole imbandite, camerieri impettiti passeggiano con i loro spiedi stretti tra le mani. Ammiccano, quando ti passano davanti, e ti propongono assaggi che non puoi rifiutare. Direttamente dallo spiedo al piatto: fette di carne arrostita, o di pesce grigliato. Il cameriere si accosta, annuncia il taglio di carne che sta per darti, e con rapida maestria poggia lo spiedo sul tavolo per tagliarne grossi pezzi direttamente sul piatto. È quasi una danza. I camerieri si avvicendano tra i tavoli, con tagli via via più pregiati. Tanto che, quando i pezzi forti arrivano, la pancia è già piena, e al massimo ne prendi un assaggio. C’è sapienza in questo, e tradizione. La condivisione, se vogliamo. Non un piatto ordinato per un singolo cliente, ma una samba di gusti che viaggiano da tavolo a tavolo. È un animo generoso quello brasiliano? Può darsi. Ne sei di certo persuaso, quando abbandoni il locale e ti abbandoni al suono della risacca, che viaggia da lontano, oltre l’immensa vastità dell’Oceano Atlantico.
3. Argentina
Sono pochi in Sud America i luoghi ricchi di fascino e contraddizioni come l’Argentina. È un aspetto che cogli al suo arrivo: le scritte sui muri, i ritmi dalle tanghere, le enormi arterie urbane. Né l’aria decadente di Santiago, né il colore Andino di La Paz. Buenos Aires è il grigio tetro del cimitero monumentale a Recoleta, dove ancora migliaia di persone rendono omaggio a Evita, ma anche le coloratissime case in lamiera del Boca, sul Caminito. Le luci sfavillanti di Corrientes, ma anche il vagabondare dei cartoneros tra i rifiuti a Lavalle.
Basta poco, però, per capire che Buenos Aires è solo una minima porzione di Argentina. Le pampas sconfinate che corrono sino a Nord, verso la pianura del Chaco, o a Ovest per infrangersi sulla Cordigliera. O alla fine del mondo verso Ushuaia, sino ai ghiacci perenni dell’Antartica Argentina. Spazi vastissimi, in cui mandrie quasi selvatiche corrono libere.
Se esiste un piatto nazionale, in Argentina, questo non può che essere il suo asado. Carne di vacca cotta alla brace, con l’esperienza minuziosa del gaucho, che oggi è il padre di famiglia. Il momento sospeso che sigilla ogni evento spe- ciale. La perizia con cui a punta di coltello gli uomini incidono la carne sul piatto, sollevandola in succulenti bocconi che accompagnano al pane. Perché il pane per l’Argentino è importante. Non è un caso, una grossa fetta della popolazione qui ha origini italiane. Ma la cucina argentina ha solo pochi dettagli in comune con quella mediterranea. È più figlia di un mondo che è diventato grande in fretta, ma che ancora cerca di capire cosa farà da grande.
È nel senso della festa, infatti. Irrinunciabile anche quando tutto intorno sembra crollare. Teglie infinite di empanadas farcite alla maniera di Salta, o con formaggio o all’araba. Torte grondanti di dulce de leche, meringa o crema di latte. Ma anche la complessa semplicità del locro, la zuppa dei gauchos, che esprime tutta l’anima di un paese povero e ricco, fiero e selvaggio.
4. Australia
Non esiste una nazione al mondo più giovane dell’Australia. Non è nell’età in sé, ma nella sua identità. L’Australia è quel mondo lontano da tutto, il confine estremo di ogni viaggio, che a pensarci bene è invece il centro di ogni cultura. Ma il cuore australiano è antichissimo, invece. Simile a quel deserto di rocce attorno a cui la natura si accalca. Una natura da avvertire sulla pelle, a piedi nudi, come sanno i bambini del Queensland o di Darwin.
La cucina è un’altra cosa. Se chiedi a un australiano qual è il piatto tipico, o un esempio di cucina tradizionale, la risposta ti sorprende. Semplicemente non esiste. Non come la intendiamo noi, per lo meno. Non esistono ristoranti australiani. La cucina è la somma di tanti prodotti. Non molto diverso dalla sua popolazione attuale. Ogni cultura che si è insediata qua, ha portato un pezzo di sé, che ha composto un tassello di quell’enorme mosaico che è oggi l’Australia. Un insieme di puntini che formano un quadro. Come nelle opere d’arte aborigene, bellissime: talmente antiche da sembrare pezzi di arte contemporanea.
Per quanto sudditi di Sua Maestà, gli Australiani hanno portato poco con sé della cucina britannica. La cacciagione avrebbe poco senso, in un mondo in cui esistono animali unici e pochissimi predatori naturali. Il richiamo è più alla cucina mediterranea, italiana soprattutto, ma anche greca, a volte medio orientale. È però la cucina della vicina Asia che fa da padrone nei ristoranti da strada. Cucina indiana, tailandese, cinese, giapponese, coreana. A volte rivisitata, come nei grossi rotoli di sushi venduti come cibo da strada.
Ma è anche di più: nouvelle cousine, cucina stellata, cucina molecolare. L’Australia è il crocevia della nazioni, in fondo, l’unione perfetta tra natura incontaminata, e l’espressione della creatività umana. Un equilibrio che si nota anche osservando la gente. Non c’è traccia qui dei chili di troppo che immancabilmente con gli anni si accumulano su ogni buon cittadino anglosassone. Non lo diresti mai, a guardare le food court che popolano i piani terra o interrati di grattacieli o palazzi. La vetrina di ogni cucina presente quaggiù, con un tripudio di fritti, di pizza, di noodle o di curry. A osservare bene, però, spesso la fila è alla cassa dello stand di zuppe e insalate.
5. Singapore
Sulla cartina geografica sembra solo una città incastrata nel cuore della Malesia. E forse per certi versi lo è. Tuttavia, capisci subito che c’è qualcosa di diverso appena metti piede fuori dall’aereo. Non solo il caldo, equatoriale e appiccicoso. Ma nello stesso volto ordinato della città, che è invece un crogiolo di persone.
Se esiste un posto al mondo che può riassumere l’Asia in una sola volta questo è Singapore. Nelle sue enormi sfaccettature, ma anche nell’espressione delle tante culture che popolano questo continente. C’è il quartiere cinese, nel quale odori forti e pungenti colpiscono come bastoni. Schiere di alimenti disidratati che non solleticano il palato, ma l’immaginazione; wok sfrigolanti che scottano verdure saltate, direttamente sulla via, e bancarelle improvvisate che danno via pietanze per due soldi. Una folla brulicante che si assiepa nei banconi di legno delle food court, dove piatti noti e meno noti della cucina orientale vengono serviti in scodelle di ceramica. C’è il quartiere indiano, con i suoi colori sgargianti, e le bancarelle che vendono ghirlande. L’odore penetrante del curry e del coriandolo avvolge le strade, trasudando dalla stessa aria che respiri. C’è il quartiere occidentale, dove dai centri commerciali si intravedono le sagome dei granchi, prelibatezza nazionale. C’è lo spazio giapponese, il segno e l’eleganza, il minimalismo culinario che richiede decenni di esperienza e di pratica. C’è la maestosità dell’harbour, contro cui si staglia il celebre skyline, dove rivive la cultura del design: night bar aperti sino a tardi, che offrono per cifre spropositate long drink, finger food e rivisitazioni di pietanze orientali. C’è la foresta sospesa, la fantascientifica trasfigurazione di un film holliwoodiano, dove enormi alberi discoidali svettano nel cielo color marmo. Basta un passo e dal visitor centre vengono fuori gli accoppiamenti tra cucine più improbabili: dal fast-food, alla fusion, dall’alta cucina, al giappoasiatico.
Forse è proprio in questo il senso di questa città, così complessa da essere uno stato. Un baluardo euro-americano in un compendio di civiltà orientale.
6. India
Pensare all’India come a un’unica identità non rende giustizia a un paese che ospita un settimo dell’umanità. Una storia antichissima, stesa su un territorio grande come un continente, vive oggi negli estremi contrasti di questa nazione. La povertà estrema, che si rispecchia nei corpi magrissimi dei bambini che vivono per strada, con uno dei più alti tassi di crescita tecnologica del pianeta. Un mondo in cui in strade inquinate dal traffico ancora passeggiano vacche sacre, e dove dagli angoli dei quartieri si elevano piramidi multiformi di templi intagliati.
Ma è l’odore del curry, dell’incenso, del sandalo quello che ti coglie inaspettato. Tra i colori luccicanti che spiccano dalle bancarelle, nei bracciali, nei batik, nelle icone, nelle statue di legno intagliate; dei con mille braccia e dai volti di animali.
Quello che colpisce, entrando in un ristorante è il doppio menù. Quello normale e quello vegetariano. In una cultura che celebra la vita, sino alla sua totale fusione con il tutto nel nirvana, non stupisce che tantissimi non mangino animali. L’altro aspetto è il contatto viscerale: il cibo raccolto dal piatto con le mani. Gesti metodici e, a loro modo, raffinati. Uomini in cravatta che affondano le dita nel riso e nelle salse. Bocconi di naan appena sfornato intinti in ciotole di erbe saltate. Semisfere di riso circondate da intingoli e curry di carne.
C’è una logica in questa cucina, che come molte cucine asiatiche offre le pietanze già tagliate, pronte in bocconi da addentare. Ma è una logica che ormai sfugge al mondo frenetico degli occidentali, quelli dei pasti al microonde, preconfezionati o surgelati. Se esci in strada, però, li vedi ancora: i torsi scheletrici che ti salutano, il sorriso ritmato dall’incessante ondeggiare del capo, gli occhi di un nero profondo, contro il colore acceso dei sari.
Coca-Cola da queste parti. Quella stessa bevanda che sino a pochi momenti prima eri convinto di poter trovare in qualunque punto di ristoro di ogni angolo del pianeta, non importa quanto lontano fosse da un centro abitato.
In un mondo senza internet e senza cellulari, come era il nostro sino a pochi anni fa, il rosso scintillante dell’etichetta sulla bottiglia sagomata era l’ultimo legame che a volte avevi con la tua realtà. La certezza che casa, comunque, doveva essere là da qualche parte, per quanto lontana. Nella ex-Birmania, però, non c’è posto per ciò che ci si è lasciato alle spalle. Il mondo ha cessato di muoversi dentro questi confini. Ha scelto un altro ritmo, un altro passo. Quello che accade fuori non è importante.
Eppure la sagoma del ristorante dorato, quello che si eleva dal lago, sembrerebbe voler dire tutt’altro. I resti di una nave imperiale usati per divertire i pochi turisti e i diplomatici? Bisogna fare qualche passo più in là. Oltre la Shwedagon, la gigantesca pagoda dorata che si eleva al centro della religione buddista. In ristoranti eleganti e raffinati, piatti tradizionali di pesce e di riso vengono presentati con maestria per una manciata di spiccioli. Il sapore è sublime, circondato dalla freschezza del litchi sciroppato.
Riso e pesce. Frutto del lavoro dell’uomo: di chi vive per coltivare e di chi vive per pescare. Un mondo che si è fermato al medioevo. Che vive di ciò che produce giorno per giorno, o anno per anno. Nella carestia o nell’improbabile abbondanza. Di cui resta il desiderio di un paio di Nike, spaccate e lerce, che i giovani vedono ai tuoi piedi, e per le quali sarebbero disposti a fare qualunque cosa. È qualcosa che resta impresso nella memoria, lasciando il paese. Al pari di quello strano remare sul lago Ingle, o delle migliaia di templi di Bagan.
7. Italia
Non esiste al mondo una cucina come quella italiana. Un’esplosione di sapori, colori, ingredienti di altissima qualità, combinati in ricette che affondano le loro origini in tradizioni secolari. Come il Rinascimento ha costruito uno dei più ricchi patrimoni artistici del pianeta, concentrati in una sottile striscia di terra nel cuore del Mediterraneo, così il gusto per sapori ricercati e prodotti alimentari di nicchia ha creato nel tempo una delle cucine più apprezzate nel mondo.
Non è un caso infatti che non esiste paese in cui non esistono ristoranti italiani o sue imitazioni. È una cucina dalla doppia faccia, quella italiana. Ricercatissima, promotrice in se stessa di quello slow food che si contrappone al ritmo frenetico della vita moderna, ma anche semplicissima, come nelle paste al pomodoro appena scottato, nelle zuppe o nelle focacce, trovando una sua esaltazione nella pizza, forse il piatto più diffuso al mondo.
In fondo è proprio questo il cuore di questa nazione, anche se parlare di cucina italiana è inappropriato: ogni regione, ogni città, ogni singolo paese ha la sua specialità che è unica e diversa, anche quando è solo una rivisitazione di un piatto tradizionale. Di più, ogni angolo ha la sua specialità, il suo prodotto di nicchia, formaggio, verdura, salume, pasta o dolce che sia.
L’Italia è la tradizione dei profumi e sapori del Mediterraneo nella loro forma più naturale, ma allo stesso tempo più complicata. L’olio di oliva, le erbe, i formaggi stagionati; carni rosolate lentamente sulla fiamma; zuppe di pesce e grigliate; dolci di altissima pasticceria, impastati da sapienti massaie. Vini e liquori, in cui sfumature di gusto accompagnano ricette della tradizione. Presentazioni informali con il gusto di sentirsi a casa.
Perché dopotutto è vero: non esiste un posto dove la cucina esprime il senso di una nazione come in Italia.
8. Svezia
È una doppia natura, quella che si avverte in questo mondo. Le notti infinite d’inverno, che avvolgono di un manto oscuro strade e canali, o il cielo senza stelle d’estate, quando la notte è solo una linea bruna all’orizzonte, pronta a sparire dopo qualche istante. Una realtà trasfigurata, che ricorda quella delle fiabe fantastiche. Una natura che avanza contro ogni contaminazione umana.
Per quanto assurdo possa sembrare a queste latitudini, più vicine a Babbo Natale che alle noci da cocco e alle palme, c’è qualcosa di esotico in tutto questo. È molto di più dei kit di montaggio e delle polpettine surgelate: il rosa del salmone, l’aroma dei frutti di bosco, il senso pungente delle aringhe marinate, la carne di renna, il burro fuso sulle patate. Il gusto di una presentazione raffinata, dove si vede anche il bianco del piatto.
Non ci sono olio e spezie, come più a Sud, nel Mediterraneo. È una filosofia alimentare diversa, che rispecchia un mondo in bilico: tra la bellezza della natura, e le condizioni estreme di un clima freddo e inospitale. In realtà è solo apparenza: tutto è perfettamente bilanciato dal calore delle molte e saporite zuppe a buffet presenti in quasi tutti i ristoranti, o dai tè speziati e dalle tisane dal gusto fruttato e che è costume sorseggiare, non solo al tavolino del bar. Le tazze fumanti, infatti, qui sono una costante. È quasi un rito, consumato comodamente seduti sul divano di casa, ma anche percorrendo i corridoi del Karolinska Instituet, davanti al computer tra colleghi, o mentre si assiste a un meeting di lavoro.
Sono le atmosfere nordiche, in fondo, che rendono questo paese così speciale. Al caldo nei locali, d’inverno. O più in là durante l’anno, quando le giornate si allungano e la primavera sta cominciando. È il desiderio di luce, o forse di rinascita. Ed è allora che puoi vedere gli svedesi sfidare l’aria ancora pungente, sorseggiando cioccolata calda e gustando un pezzo di torta sulla piazza del Nobel. Con una coperta per scaldarli!
9. Inghilterra
Chiunque è stato a Londra almeno una volta nella vita. Lo si capisce solo a fare un passo nella sua metropolitana: un sistema arterioso che scorre dentro di lei, portando ossigeno in ogni angolo della città. È un flusso di culture, di persone da ogni angolo del pianeta, di accenti diversi e di facce distratte. Si può vivere a Londra una vita e non incontrare nemmeno un britannico. Il crocevia del mondo, il punto di partenza di ogni viaggio.
Fare due passi in centro ha senso. Ci si mischia nelle persone, nei visi rivolti all’insù, verso i suoi palazzi monumentali. Nel colore del ferro di Piccadilly, nei bianchi marmorei di Trafalgar, nel bruno del Parlamento, nel verde di Hyde Park, o nei risvolti dorati di Buckingham Palace.
Concedersi un momento, fermarsi a mangiare è un obbligo. Non solo perché è qua che puoi trovare quei pub dal sapore di campagna, dove mangiare selvaggina incassata in un pie, o del fish and chips avvolto in carta di giornale. Il tutto annaffiato da birre dense e amare, o cristalline e ghiacciate.
La cucina di ogni nazione, infatti, qui è rappresentata. I fast-food, immancabili, e le grandi catene di ristoranti. Il curry indiano. I buffet all-you-can-eat delle cucine asiatiche. La cucina tailandese, dolce e salata. I sushi bar, con l’eleganza giapponese incastrata nel cuore frenetico di Canary Wharf. I locali di tapas spagnoli a Greenwich, e la paella saltata in enormi padelle a Covent Garden. La cucina greca, saporita e salata, con le salse allo yogurt, gli involtini di foglia di vite, la carne macinata e la feta mischiata nell’insalata. Locali francesi, dalle salse importanti, i cibi grassi e dalle preparazioni elaborate: foie gras, soupe à l’oignon, canard à l’orange. Le brauhaus tedesche, con gli stinchi di maiale, le salsicce bavaresi, i knödel, le bratkartofeln.
Si potrebbe pensare che a spostarsi di qualche miglio, le cose cambino. Ma nel cuore del paese, c’è sempre meno spazio per le atmosfere vittoriane. La cucina etnica si affianca in ogni momento a quella tradizionale: dalle colazioni abbondanti di uova, funghi, fagioli, toast e pomodori scottati, ai lunch consumati al lavoro, sino alle cene del tea time. La cucina di altre culture è presente e si mescola a quella tradizionale. Curry di carne o noodle di riso sono ormai parte della normale alimentazione britannica.
E forse una ragione c’è. Poche civiltà al mondo si sono spinte così lontano in passato, estendendosi in ogni angolo del pianeta, eppure mantenendo vivo e vitale il legame con la patria natia. Paesi lontani che ancora si sentono sudditi di sua maestà. Così, se l’impero nel tempo ha cessato di esistere per lasciare spazio a nuove relazioni tra stati, il cordone che univa mondi così lontani, anche nella cucina, rimane.
10. Egitto
Il Cairo, la città degli dei. Il punto di incontro tra la civiltà millenaria dell’Antico Egitto, con i suoi monumenti spettacolari e i profili affilati, e quella Araba, una cintura che avvolge l’intero Nord Africa. L’aria del deserto soffia sopra la città, che brulica di vita e di traffico. Sino alla striscia lucente del Nilo, che si stacca dal grigio dei palazzi e dal nero dell’asfalto.
Qui il tempo si è dilatato. Lo stacco si avverte tutto nella spianata di Giza, dove improvvisamente il caos cittadino viene lasciato alle spalle. Sembra di saltare in una nuova dimensione, mentre si avverte l’enormità del deserto che da qui si estende sino alle coste del Marocco, migliaia di chilometri più a ovest. In alto, sulla collina, la Grande Piramide. Scendendo verso il basso, la Sfinge, che si stende maestosa verso la città. Antica padrona del tempo. Niente al mondo pare turbarla. Nemmeno il vento del rinnovamento che soffia nell’aria altrimenti immobile di questa città.
A fare due passi nelle strade impolverate, c’è da perdere la testa. Dai bazar, dove stoffe colorate e pezzi di artigianato ti accolgono, incuranti delle trattative in corso tra clienti e mercanti. Gli odori delle spezie, ordinate in cumuli dai colori accesissimi, che chiamano come esche i passanti. Le macellerie all’aperto, dove puoi vedere anche zoccoli di cammello tagliati all’istante. Il pane arabo, appena sfornato, caldo e buonissimo. Gli odori dei cibi speziati. Il riso, le lenticchie, la pasta, mescolati in un piatto semplicissimo e gustoso che vendono solo da queste parti. L’agnello, cotto su un letto di riso. Gli uomini raccolti intorno a un tavolaccio di legno, che sorseggiano tè caldo, davanti a piatti di melanzane saltate, circondati da cucchiai. Tanti quanti sono gli astanti. Il fumo acre della shisha, la pipa ad acqua, gorgogliante a ogni aspirata. Uomini grassi come il bruco di Alice, in un paese delle meraviglie in cui nessuno è un sultano. I riflessi delle Mille e una Notte, in piatti di dolci al miele e alle mandorle. Il torrone di sesamo, i bocconcini dolci dalla pasta sfilettata. I fichi maturi, e le spremute di mango. L’asab, la spremuta di canna da zucchero, ottenuta all’istante.
Un guazzabuglio di odori e sapori, di spezie e di esseri umani. Ma è già sera, sul Cairo: il sole tramonta sulle piramidi come ha fatto per gli ultimi tremila anni. Solo si sente il richiamo del Mu’adhdhin, che nel tramonto chiama alla preghiera serale.
11. Zimbabwe
Harare è come ti aspetteresti una città del futuro, dopo che eventi eclatanti hanno portato via gli ultimi brandelli di modernità. Per certi versi è come se tutto si fosse fermato agli anni ’80, quando gli Inglesi hanno lasciato il paese al termine di una sanguinosa guerra di indipendenza durata anni.
Come parte di questa zona d’Africa, però, la rottura netta tra quartieri neri e quartieri bianchi è evidente. Basta spostarsi di qualche miglio per vedere avamposti di occidente riprodurre il mondo europeo anche da queste parti. Non esiste l’apartheid, qui, ma questo non vuol dire che i locali per bianchi siano frequentati da chiunque: semplicemente sono due economie che vivono parallele tra loro. Solo i pochi professionisti di origine europea possono permettersi con disinvoltura i centri commerciali, i pub, i cinema, le catene di ristoranti occidentali.
Per chi vive nell’altro lato della città, il più grande, la realtà è diversa. Lo si avverte però nel profumo delle panetterie, che propongono a prezzi abbordabili dolci e pane appena sfornato. Non riesci a fare più di due passi, però, senza dar via metà di ciò che hai comprato a bambini sorridenti che ti circondano affamati.
Per contro, se ti invitano a pranzo non sono molte le varietà culinarie su cui puoi contate. La sadza, la polenta di mais, che viene servita con intingoli, con improbabile pesce essiccato o con fagioli in umido. Giusto per non cambiare. C’è il riso; a volte il pollo. Bruchi abbrustoliti, se si è fortunati.
Il gusto per la cucina, tuttavia, è presente. Forse di influenza occidentale, panificati e dolci vengono sfornati da sapienti massaie, che poi ne approfittano per venderli per guadagnare qualche soldo per tirare avanti. L’influenza occidentale, del resto, è forte ed evidente. Nei piccoli market si trova di tutto, prodotti locali o importati. Nei mercatini al centro della città, frutta e verdura vengono venduti a prezzi abbordabili. C’è da contrattare, ma poi si può tornare a casa soddisfatti.
Forse si intravede qui proprio il nuovo volto dell’Africa, però. Un mondo che non è più quello di un tempo, a volte infettato dai vizi dell’occidente, o spinto in avanti verso nuove prospettive, prima mai immaginate. Un mondo fortemente ancorato al passato, ma che lentamente cerca di sbirciare anche avanti. In fondo è quello che pensi, dopo, quando prima di partire affondi i tuoi denti in un pezzo di pizza fumante.
12. Repubblica del Sud del Sudan
Che questo paese sia nato da pochissimo tempo lo si capisce non solo dai trattati di indipendenza che hanno sancito la fine di una guerra durata per oltre cinquant’anni. Staccatosi dalla pesante appendice del Nord, di cultura araba, questo paese è ancorato a un mondo che per certi versi non ha mai superato la preistoria.
Lo si coglie dalla totale assenza di infrastrutture, sin dalla pista in terra battuta che ti accoglie all’atterraggio, a Rumbek, sul traballante monoelica che ti ha portato là da Nairobi. È la faccia dell’Africa più autentica quella che ti trovi davanti. L’Africa così come te la immagini.
Mentre lasci la città, un conglomerato di prefabbricati e capanne di fango, vedi la savana che ti si chiude intorno, solcata da piste che via via diventano sempre più incostanti. A volte appena immaginate. Non ci sarebbe quasi segno di presenza dell’uomo, se non nei villaggi isolati che ogni tanto ti si aprono davanti. Bambini nudi che corrono felici verso i fuoristrada, gridando a pieni polmoni Kawaja, Kawaja, uomo bianco.
Arrivare a destinazione è come capire perché in passato certe dinamiche erano così importanti. Un mondo in cui non esistono supermercati. Dove sono sacchi con materie prime quelli che si trovano negli improbabili mercati. Dove i villaggi principali sono centri di commercio dove trovare i pochi prodotti industriali che vengono dalla vicina Uganda. Dove un ristorante è un capanna più grande delle altre, nella quale una cuoca improvvisata cuoce sulla fiamma viva impasti di pane, fagioli e, se è giornata, pollo o carne. Dove pesci essiccati espandono i loro miasmi lungo i mercati. Dove la polenta di mais, così come in quasi tutta l’Africa Sub Sahariana, è l’unico vero alimento della giornata.
Non c’è frutta, né verdura nei banchi del mercato. Se è giornata, qualcuno seduto a terra vende qualcosa adagiata in piccoli cumuli su teli di stoffa.
Altrimenti sono solo fagioli secchi, riso, zucchero, farina. Forse uova, ma devi andarle a cercare.
È un mondo in cui la cucina è sopravvivenza. Il cibo spogliato di ogni altra valenza, il riempirsi la pancia. Lo capisci nei giorni di festa, quando le poche pietanze che compongono la tradizione culinaria locale vengono preparati. Le focacce o le sfoglie di pane, la carne in umido, pietanza improbabile in una cultura in cui le mucche sono solo moneta e merce di scambio, il pollo in umido, il riso, i fagioli, forse qualche lenticchia se è giornata. Niente dolci. Amano lo zucchero, messo in quantità improponibile in ogni bevanda. Ma niente dolci.
È forse questo lo specchio di una cultura? Un mondo che non ha sviluppato una propria cucina, delle ricette proprie che ne descrivano la sua identità, al pari dei costumi, dei monili o delle danze tribali. È il segnale di qualcosa, senza dubbio. Di una realtà che è ancora ancorata a un passato in cui mangiare era solo il mezzo per vivere: il cibo come carburante, spogliato di ogni altra valenza, per quello che può contare.
Lo capisci ancora alle feste, quando in pochi minuti, e in silenzio, le pietanze vengono consumate, mischiate tutte tra loro, in palle di cibo formate con destrezza con rapidi movimenti delle mani. Ci si riempie la pancia, velocemente, il più che si può, poi si pensa al resto: a cantare, a parlare, a danzare. Per quanto elaborata possa essere la festa, poi, riso e fagioli non devono mancare. Anche se è il cibo che si consuma ogni giorno, due volte al giorno, in un monotono rituale.
Non esiste al mondo un solo posto che possa rassomigliarsi al Sud Sudan. Forse è ancora l’autentica rappresentazione di come eravamo. La genuina rappresentazione dell’essenza dell’uomo. Il suo cuore istintivo che, per quanto possa apparire improbabile, vive ancora dentro ognuno di noi. Per ricordarci quello che siamo, da dove proveniamo e dove stiamo andando.
Di Paola Gaddi e Fabio Capello estratti "Le Culture del Cibo - Salute e Nutrizione, Tradizioni, Emozioni", Springer-Verlag Italia, Milan, 2013 pp.67-80. Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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