CUCINA - LE 5 PAGINE MEMORABILI DELLA STORIA DELLA LETTERATURA
Crocevia spontaneo di umori e voci Ai fornelli si è sedotti e si seduce.
Frescura in dispensa - Le cucine erano il regno dell’ombra nelle assolate case mediterranee dell’infanzia, nelle parti più sacrificate della casa
La cucina: luogo poco nobile, sul quale si preferisce sorvolare in quanto troppo domestico, troppo pieno di odori per essere frequentato dalla letteratura? Tutt’altro. Magnifiche incursioni si possono registrare tra pentole e fornelli da parte di grandi e grandissimi scrittori, di ogni paese ed epoca, che hanno aperto l’uscio della magica stanza, cogliendone chi la funzione più materiale e immediata di «fabbrica» di zuppe, spiedi, arrosti, stracotti, intingoli, creme e torte, e chi, invece, piuttosto quella di cuore profondo di una casa, di fondamentale crocevia di sussurri, voci, umori e personaggi.
Poiché una fama non si costruisce sul nulla—e la fama della cucina italiana travalica i mari — pare inevitabile trovare proprio nel nostro Paese ilmeglio di questa letteratura. Sul podio vanno, dunque, tre italiani, meritato segno di distinzione, in un certo senso, per essere noi forse l’ultimo popolo, tra quelli occidentali, che ancora sul serio cucina in casa, non del tutto traviato dai cibi pronti, dai quattro salti in padella e dalle gelide vivande senz’anima targate Picard o Bofrost.
I pasticcini dei «signori» della Ramondino
Ecco per prima la napoletana Fabrizia Ramondino che, nel piccolo libro "Star di casa", si addentra nella cucina della sua infanzia, dove simuoveva un’umanità spontanea, vera, vivace, niente a che fare con quell’altra che, invece, sostava al di qua, nelle sale e nei salotti, piuttosto manierata, quasi finta come sembrava alla scrittrice. «Le cucine erano il regno dell’ombra nelle assolate case mediterranee della mia infanzia, non solo perché si trovavano nelle parti più sacrificate della casa, esposte a settentrione o a piano terra, non solo perché le pareti erano scurite dal nerofumo dei fuochi a carbone e a legna, che ancora dominavano rispetto ai fornelli elettrici o a gas, e perché la pulizia dei vetri vi era più trascurata, ma anche perché l’ombra protegge i cibi dalla marcescenza, allontana le mosche, le vespe e altri insetti voraci. La famiglia era borghese, perciò la cucina era il regno dei servi. E i servi erano l’ombra dei signori. Dietro di essi servivano a tavola, appena la signora era uscita dalla cucina, eseguivano gli ordini, appena il signore aveva abbandonato il letto, lo rifacevano. Privi di ombra, i signori non sarebbero stati signori. Ma per uno strano paradosso erano i signori che al bambino apparivano manichini e robot, mentre le loro ombre esecutrici di ordini erano umane. Inchinarsi, infatti, baciare la mano, servirsi educatamene di coltello e forchetta, farsi scivolare davanti un vassoio di pasticcini senza assaggiare, sedere composti a gambe accavallate, non toccare quasi mai niente con le mani, risultava al bambino irreale, meccanico, quasi comico. Perciò la cucina era il regno degli umani. E l’ombra e le ombre che l’abitavano per un capovolgimento di significato, che è tipico del simbolo, si volgevano in luce solare».
Il ragù comico e solenne del napoletano Marotta
Il passo successivo, che consiste nel guardare quel che c’è in pentola, lo fa in modo magistrale Giuseppe Marotta ne "L’oro di Napoli" dove descrive la preparazione del ragù con l’attenzione, l’intensità e la passione degne di una causa particolarmente solenne. È, il suo, il racconto di un rito, di una celebrazione, di un sacrificio agli dei della cucina che forse non ha pari nella letteratura.
«Il ragù non si cuoce ma si consegue, non è una salsa ma la storia di una salsa. Dal momento in cui il tegame viene deposto sul fornello e la cucchiaiata di strutto dubita, si commuove e slitta cominciando a fondersi, fino al momento in cui il ragù è veramente pronto, tutto può succedere e può non succedere a danno o vantaggio di questa laboriosissima salsa che impegna chi la prepara come un quadro impegna il pittore. In nessuna fase della sua cottura il ragù deve essere abbandonato a se stesso; come una musica interrotta e ripresa non è più una musica, così un ragù negletto cessa di essere un ragù e anzi perde ogni possibilità di diventarlo... Il ragù non bolle, pensa; bisogna soltanto rimuovere col cucchiaio i suoi pensieri più profondi, e aver cura che il fuoco sia lento, lento».
Tomasi di Lampedusa e il timballo babelico
Terzo italiano sul podio, Tomasi di Lampedusa con il suo indimenticabile timballo di maccheroni, vero capolavoro artistico appena uscito dalla cucina il cui profumo pare di sentire salire dalle pagine, mentre, concretissimo e reale nella sua sontuosa bellezza, ci passa davanti agli occhi della fantasia. «... L’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima, dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio».
Isabel Allende e i tagliolini di van Gogh
Isabel Allende, che italiana non è però latina sì, merita di essere citata per una pagina di "Afrodita" dove è alle prese con un uomo ai fornelli, un uomo che, alla donna in cerca sui piccoli annunci di un compagno per la vita, si era descritto bello, romantico e avventuroso, tanto che la signora, convinta di aver scovato una specie di maturo Che Guevara, lo aveva invitato a cena a casa sua, con musica di sottofondo e lume di candela. La delusione, ovviamente, fu grande nel vedere sbarcare un insignificante ometto di pelo rosso, uno stralunato van Gogh dalle orecchie a sventola. Qualcosa cambiò, tuttavia, quando lui la seguì in cucina… «Permettimi, disse, e, senza dare ad Hanna la possibilità di contraddirlo, delicatamente le tolse il grembiule di mano allacciandoselo in vita e obbligandola a prendersi una sedia. Mise mano a pentole e padelle come se fosse sempre vissuto tra quelle pareti. Con grazia e destrezza inattese fece ballare i coltelli affettando verdure e frutti di mare per poi farli dorare con mano leggera nell’olio d’oliva, gettò in acqua bollente i tagliolini e in un attimo preparò una luminosa salsa di coriandolo e limone mentre raccontava ad Hanna le sue avventure in Centroamerica. In pochi minuti quell’omino un po’ patetico si trasformò: i suoi capelli di pagliaccio acquistarono la forza virile di una criniera leonina e la sua aria di naufrago si mutò in serena concentrazione, una miscela irresistibile per una donna come Hanna... E quando van Gogh le imbandì i tagliolini, ella sospirò, vinta».
La torta pietrificata di Oblomov
Goncarov (Goncharov) non è né italiano né latino, tuttavia come ignorarlo, visto che Oblomov, il suo eroe stanco, protagonista dell’omonimo romanzo, non fa che pensare al cibo, pagine e pagine dedicate alle attività di cucina? «La preoccupazione del mangiare era la prima e principale preoccupazione di casa Oblomov... Neppure la domenica e i giorni di festa conoscevano riposo quelle formiche laboriose: anzi allora il battere dei coltelli in cucina risuonava più frequente e più forte; la contadina faceva diverse volte il viaggio dalla dispensa alla cucina con un quantitativo doppio di farina e di uova; nel pollaio c'erano più strilli e maggior versamento di sangue. Si preparava una torta colossale, che perfino i padroni mangiavano ancora il giorno dopo; il terzo o quarto giorni gli avanzi andavano nella camera delle ragazze; la torta durava fino al venerdì, e un ultimo avanzo, ormai secco e senza imbottitura, veniva lasciato in segno di particolare grazia ad Antìp, il cuoco, il quale, dopo essersi fatto il segno della croce, senza timore alcuno, rosicchiava rumorosamente quella interessante pietrificazione, godendo più per la coscienza che si trattava di una torta dei padroni che per la torta stessa, come un archeologo che con voluttà beve un vino cattivo dal coccio di una tazza millenaria». In altre parole, il cibo, anche vecchio e secco, può raccontare la vita dei grandi come dei piccoli.
Di Isabella Bossi Fedrigotti, estratti dalla rivista "La Lettura ", inserto "Corriere della Sera" 16 de settembro 2012. Compilati, digitati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
Frescura in dispensa - Le cucine erano il regno dell’ombra nelle assolate case mediterranee dell’infanzia, nelle parti più sacrificate della casa
La cucina: luogo poco nobile, sul quale si preferisce sorvolare in quanto troppo domestico, troppo pieno di odori per essere frequentato dalla letteratura? Tutt’altro. Magnifiche incursioni si possono registrare tra pentole e fornelli da parte di grandi e grandissimi scrittori, di ogni paese ed epoca, che hanno aperto l’uscio della magica stanza, cogliendone chi la funzione più materiale e immediata di «fabbrica» di zuppe, spiedi, arrosti, stracotti, intingoli, creme e torte, e chi, invece, piuttosto quella di cuore profondo di una casa, di fondamentale crocevia di sussurri, voci, umori e personaggi.
Poiché una fama non si costruisce sul nulla—e la fama della cucina italiana travalica i mari — pare inevitabile trovare proprio nel nostro Paese ilmeglio di questa letteratura. Sul podio vanno, dunque, tre italiani, meritato segno di distinzione, in un certo senso, per essere noi forse l’ultimo popolo, tra quelli occidentali, che ancora sul serio cucina in casa, non del tutto traviato dai cibi pronti, dai quattro salti in padella e dalle gelide vivande senz’anima targate Picard o Bofrost.
I pasticcini dei «signori» della Ramondino
Ecco per prima la napoletana Fabrizia Ramondino che, nel piccolo libro "Star di casa", si addentra nella cucina della sua infanzia, dove simuoveva un’umanità spontanea, vera, vivace, niente a che fare con quell’altra che, invece, sostava al di qua, nelle sale e nei salotti, piuttosto manierata, quasi finta come sembrava alla scrittrice. «Le cucine erano il regno dell’ombra nelle assolate case mediterranee della mia infanzia, non solo perché si trovavano nelle parti più sacrificate della casa, esposte a settentrione o a piano terra, non solo perché le pareti erano scurite dal nerofumo dei fuochi a carbone e a legna, che ancora dominavano rispetto ai fornelli elettrici o a gas, e perché la pulizia dei vetri vi era più trascurata, ma anche perché l’ombra protegge i cibi dalla marcescenza, allontana le mosche, le vespe e altri insetti voraci. La famiglia era borghese, perciò la cucina era il regno dei servi. E i servi erano l’ombra dei signori. Dietro di essi servivano a tavola, appena la signora era uscita dalla cucina, eseguivano gli ordini, appena il signore aveva abbandonato il letto, lo rifacevano. Privi di ombra, i signori non sarebbero stati signori. Ma per uno strano paradosso erano i signori che al bambino apparivano manichini e robot, mentre le loro ombre esecutrici di ordini erano umane. Inchinarsi, infatti, baciare la mano, servirsi educatamene di coltello e forchetta, farsi scivolare davanti un vassoio di pasticcini senza assaggiare, sedere composti a gambe accavallate, non toccare quasi mai niente con le mani, risultava al bambino irreale, meccanico, quasi comico. Perciò la cucina era il regno degli umani. E l’ombra e le ombre che l’abitavano per un capovolgimento di significato, che è tipico del simbolo, si volgevano in luce solare».
Il ragù comico e solenne del napoletano Marotta
Il passo successivo, che consiste nel guardare quel che c’è in pentola, lo fa in modo magistrale Giuseppe Marotta ne "L’oro di Napoli" dove descrive la preparazione del ragù con l’attenzione, l’intensità e la passione degne di una causa particolarmente solenne. È, il suo, il racconto di un rito, di una celebrazione, di un sacrificio agli dei della cucina che forse non ha pari nella letteratura.
«Il ragù non si cuoce ma si consegue, non è una salsa ma la storia di una salsa. Dal momento in cui il tegame viene deposto sul fornello e la cucchiaiata di strutto dubita, si commuove e slitta cominciando a fondersi, fino al momento in cui il ragù è veramente pronto, tutto può succedere e può non succedere a danno o vantaggio di questa laboriosissima salsa che impegna chi la prepara come un quadro impegna il pittore. In nessuna fase della sua cottura il ragù deve essere abbandonato a se stesso; come una musica interrotta e ripresa non è più una musica, così un ragù negletto cessa di essere un ragù e anzi perde ogni possibilità di diventarlo... Il ragù non bolle, pensa; bisogna soltanto rimuovere col cucchiaio i suoi pensieri più profondi, e aver cura che il fuoco sia lento, lento».
Tomasi di Lampedusa e il timballo babelico
Terzo italiano sul podio, Tomasi di Lampedusa con il suo indimenticabile timballo di maccheroni, vero capolavoro artistico appena uscito dalla cucina il cui profumo pare di sentire salire dalle pagine, mentre, concretissimo e reale nella sua sontuosa bellezza, ci passa davanti agli occhi della fantasia. «... L’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima, dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio».
Isabel Allende e i tagliolini di van Gogh
Isabel Allende, che italiana non è però latina sì, merita di essere citata per una pagina di "Afrodita" dove è alle prese con un uomo ai fornelli, un uomo che, alla donna in cerca sui piccoli annunci di un compagno per la vita, si era descritto bello, romantico e avventuroso, tanto che la signora, convinta di aver scovato una specie di maturo Che Guevara, lo aveva invitato a cena a casa sua, con musica di sottofondo e lume di candela. La delusione, ovviamente, fu grande nel vedere sbarcare un insignificante ometto di pelo rosso, uno stralunato van Gogh dalle orecchie a sventola. Qualcosa cambiò, tuttavia, quando lui la seguì in cucina… «Permettimi, disse, e, senza dare ad Hanna la possibilità di contraddirlo, delicatamente le tolse il grembiule di mano allacciandoselo in vita e obbligandola a prendersi una sedia. Mise mano a pentole e padelle come se fosse sempre vissuto tra quelle pareti. Con grazia e destrezza inattese fece ballare i coltelli affettando verdure e frutti di mare per poi farli dorare con mano leggera nell’olio d’oliva, gettò in acqua bollente i tagliolini e in un attimo preparò una luminosa salsa di coriandolo e limone mentre raccontava ad Hanna le sue avventure in Centroamerica. In pochi minuti quell’omino un po’ patetico si trasformò: i suoi capelli di pagliaccio acquistarono la forza virile di una criniera leonina e la sua aria di naufrago si mutò in serena concentrazione, una miscela irresistibile per una donna come Hanna... E quando van Gogh le imbandì i tagliolini, ella sospirò, vinta».
La torta pietrificata di Oblomov
Goncarov (Goncharov) non è né italiano né latino, tuttavia come ignorarlo, visto che Oblomov, il suo eroe stanco, protagonista dell’omonimo romanzo, non fa che pensare al cibo, pagine e pagine dedicate alle attività di cucina? «La preoccupazione del mangiare era la prima e principale preoccupazione di casa Oblomov... Neppure la domenica e i giorni di festa conoscevano riposo quelle formiche laboriose: anzi allora il battere dei coltelli in cucina risuonava più frequente e più forte; la contadina faceva diverse volte il viaggio dalla dispensa alla cucina con un quantitativo doppio di farina e di uova; nel pollaio c'erano più strilli e maggior versamento di sangue. Si preparava una torta colossale, che perfino i padroni mangiavano ancora il giorno dopo; il terzo o quarto giorni gli avanzi andavano nella camera delle ragazze; la torta durava fino al venerdì, e un ultimo avanzo, ormai secco e senza imbottitura, veniva lasciato in segno di particolare grazia ad Antìp, il cuoco, il quale, dopo essersi fatto il segno della croce, senza timore alcuno, rosicchiava rumorosamente quella interessante pietrificazione, godendo più per la coscienza che si trattava di una torta dei padroni che per la torta stessa, come un archeologo che con voluttà beve un vino cattivo dal coccio di una tazza millenaria». In altre parole, il cibo, anche vecchio e secco, può raccontare la vita dei grandi come dei piccoli.
Di Isabella Bossi Fedrigotti, estratti dalla rivista "La Lettura ", inserto "Corriere della Sera" 16 de settembro 2012. Compilati, digitati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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