CONIGLIO, SENZA ETICHETTA
È uno di quei settori in cui la produzione nazionale è autosufficiente e non c’è bisogno di importazioni. Parliamo del coniglio, che in Italia è la quarta carne consumata, dopo la bovina, quella di maiale e la avicola (polli e tacchini). Un consumo tra i più invisi agli animalisti e a coloro che considerano questo simpatico essere come un animale da compagnia. Ma pur sempre un comparto importante delle vendite di carne e della sua produzione nazionale.
Da quest’ultimo punto di vista c’è da dire che l’allevamento intensivo ha molto in comune con quello delle tristemente famose galline in batteria. Le bestiole, infatti, risiedono in gabbie singole o doppie con spazi di movimento limitati. Certo, esistono anche allevamenti in cui si privilegiano le gabbie collettive e si curano le condizioni - per quanto possibile per un animale destinato al macello - di benessere animale, ma riconoscerle sul mercato non è facile.
Al contrario della carne di pollo o di quella bovina, tanto per fare solo due esempi, quella cunicola (così viene definita quella di coniglio) non ha etichetta. Non deve, dunque, dichiarare nulla né sulle condizioni in cui viene allevato l’animale, né sulla sua provenienza. Una lacuna inspiegabile che può essere colmata solo attraverso la ricerca di etichette volontarie.
Dal punto di vista nutrizionale, invece, la carne di coniglio ha diverse caratteristiche interessanti che la rendono un’ottima alternativa nell’alimentazione. Tra queste, il contenuto di colesterolo inferiore a quello di molte altre specie animali (52 milligrammi per etto), una buona concentrazione di fosforo, potassio e magnesio e una dose di ferro praticamente uguale a quello del bovino (1 milligrammo per etto).
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Quello di fosso
Di Roberto Quintavalle, estratti dalla rivista "Il Salvagente", 27 de settembro- 4 ottobre 2012. Compilati, digitati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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