L’EVOLUZIONE DELLA CUCINA NEL TEMPO
La storia del cibo e della gastronomia in genere è un percorso legato strettamente agli avvenimenti che hanno scandito il comportamento umano nel corso dei secoli. La ricerca del cibo e la lotta per procurarselo hanno spesso determinato la crescita (o la scomparsa) di intere civiltà, dando origine a guerre sanguinose e grandi migrazioni di popoli.
LA PREISTORIA
Fino al 10.000 a.C. l’uomo fu poco più di un predatore e viveva secondo la legge della giungla, cacciando animali, pescando pesci e raccogliendo frutti dagli alberi e radici dal terreno. Parlare di “cucina” nel senso stretto della parola, durante il Paleolitico o il Mesolitico, è decisamente azzardato. A quel tempo i nostri antenati già utilizzavano quotidianamente il fuoco, elemento fondamentale per passare dal semplice nutrirsi di alimenti crudi, strappati o sbranati con i denti, al più gustoso consumo di cibi fatti arrostire alla fiamma viva. In questo modo carni, pesci e verdure divennero più teneri e digeribili, acquisendo un gusto decisamente appetitoso.
Di vera e propria pratica gastronomica si può cominciare a parlare con l’arrivo del Neolitico circa 10.000 anni fa. Da un’economia di raccolta, improntata sulla ricerca nomade dei mezzi di sussistenza, l’uomo, attraverso l’addomesticamento degli animali e la scoperta dell’agricoltura, approdò a un’economia di produzione del cibo, basata su una forma di vita stanziale. Nacquero così l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, e conseguentemente comparvero i latticini e i cereali (avena, miglio, farro, orzo, frumento). L’uomo del Neolitico non conosceva ancora il pane, ma con l’avvento dei cereali raggiunse uno stadio di pre-panificazione, preparando semplici polente fatte di semi rozzamente frantumati e cotti in acqua riscaldata con pietre roventi.
Successivamente, inventò un altro modo di cuocere gli sfarinati: ne fece un impasto con acqua e lo adagiò su pietre concave riscaldate oppure sotto la cenere, ottenendo delle primitive “focacce”, ottime anche come riserva alimentare. La scoperta della terracotta, avvenuta nel Neolitico, consentì poi la costruzione dei primi contenitori ermetici che potessero sopportare la fiamma viva. Da quel momento imparare a bollire gli alimenti nell’acqua fu quasi immediato. Le prime “zuppe” della storia erano molto simili ai brodi attuali, a base di cereali, carni, vegetali, radici, legumi, insaporiti con erbe profumate.
LE CIVILTÀ ANTICHE
Gli Egizi
La civiltà egizia si snoda per un periodo lunghissimo che va dal 5000 a.C. all’epoca romana. Un arco di millenni durante il quale avvenne una complessa evoluzione gastronomica influenzata, soprattutto nei secoli finali, dai contatti sempre più frequenti con la civiltà ellenica e successivamente con quella romana.
Gli antichi Egizi furono un popolo ricco di cibo, grazie soprattutto al Nilo, il fiume che con le sue piene regolari depositava il prezioso limo e consentiva così la coltivazione di molte varietà di piante e l’allevamento di diversi tipi di bestiame. Dai numerosi geroglifici, pitture murali, bassorilievi e dai vari reperti ritrovati nelle tombe e nelle necropoli, possiamo facilmente sapere quale fosse la dieta tipica degli Egizi. Nella valle del Nilo si coltivavano abbondantemente le fave, le lenticchie, l’aglio, la cipolla, i porri, i cetrioli, i meloni, vari tipi d’insalate, le radici amare, fichi, melograni e mele. Anche i cereali erano largamente coltivati: orzo, avena, grano, spelta, miglio venivano macinati e impiegati per fare zuppe, polente, focacce e un prodotto fondamentale per la nostra alimentazione: il pane. Intorno al 1000 a.C. in Egitto si imparò a setacciare la farina di frumento, ottenendo in questo modo sfarinati più raffinati con i quali si produceva del pane bianco destinato alle classi più abbienti.
Queste ultime erano le uniche che si potevano permettere il consumo delle carni bovine e ovine. I suini, benché allevati, di solito non venivano macellati per il consumo umano. Gli allevatori conoscevano bene le tecniche di miglioramento degli animali da macello, praticavano la castrazione e gli incroci di razze diverse. Il popolo si doveva accontentare del “pollame”; si allevavano anatre, oche, galline, quaglie, pernici, e ben note erano anche le tecniche di conservazione delle carni grazie all’utilizzo del sale. Un alimento poco consumato era invece il latte e, di conseguenza, i latticini in genere, probabilmente per la loro cattiva conservazione. Tra i prodotti sicuramente diffusi e utilizzati nella dieta degli antichi Egizi è da citare anche il sale minerale (l’estrazione di quello marino era vietata) e il miele che per molti secoli sarà il dolcificante principale.
Per quanto riguarda la cucina sembra che le salse, gli umidi e gli intingoli fossero ancora sconosciuti. Le carni venivano per lo più arrostite, ma sicuramente gli Egizi conoscevano la lessatura e la frittura per la quale usavano, oltre agli oli vegetali, il grasso d’oca e d’anatra.
Quanto al bere erano forti consumatori di birra ottenuta dalla fermentazione dell’orzo, del farro o dei datteri. Anche il vino era una bevanda conosciuta, preparata fermentando il mosto d’uva, di mele o di fichi, considerata, tuttavia, una prelibatezza ricercata.
I Greci
La civiltà greca ebbe la sua origine con il periodo minoico, a Creta intorno al 2000 a.C., e continuò fino all’età ellenica classica che coincise con la subordinanza all’Impero Romano intorno al II secolo a.C. Durante quest’arco di tempo le abitudini alimentari dei popoli dell’Egeo si modificarono profondamente, passando da una dieta parca ed essenziale a un modo di cucinare più ricercato e ricco di sapori. In età omerica (circa IX sec. a.C.) la cucina era ancora rozza, fatta di più portate preparate in modo sbrigativo. Le carni erano considerate cibo per ricchi, soldati o “eroi”, e venivano cotte essenzialmente alla brace o su spiedi improvvisati. Si grigliava tutto, muscoli, cervella, frattaglie, trippa, usando come condimento lo stesso grasso animale e cospargendoli ogni tanto con vino.
I pesci e le verdure erano invece destinati ai contadini e ai villani i quali arricchivano le loro tavole con cereali, legumi, fichi freschi o essiccati. Nella Grecia antica si praticò molto la pastorizia e fin da epoche remote si conosceva la tecnica di fabbricazione del formaggio, specie quello di capra, fatto anche stagionare.
Per quanto riguarda le bevande, si sa per certo che la preparazione di bevande alcoliche per fermentazione di mosti zuccherini fu praticata in Grecia da tempi lontanissimi. Forse la più antica di queste bevande fu l’idromele, ottenuto dalla fermentazione del miele mescolato con acqua. La coltivazione della vite era praticata già a Creta intorno al 2000 a.C. e, in base alle tecniche di vinificazione conosciute, i vini dovevano essere piuttosto corposi, con tasso alcolico elevato che raggiungeva anche i 18 gradi; venivano bevuti allungati con acqua dolce o di mare, e aromatizzati con erbe e resine o profumi.
Nel vino puro veniva inzuppato il pane al mattino come prima colazione (acratismos). Nell’età classica i vini pregiati si servivano invece durante i symposion, il momento celebrativo che seguiva il pasto serale (deipnon), dove i convitati bevevano i vini opportunamente diluiti in preziosi crateri, sgranocchiando frutta secca e brustolini.
Nell’età classica la diversificazione delle portate e la maggiore disponibilità degli alimenti denotano l’avvento di una vera e propria arte gastronomica, appannaggio di cuochi professionisti ingaggiati a giornata o per brevi periodi da ricchi committenti. Le ricette pervenuteci di quell’epoca sono quasi tutte a base di pesce, adeguatamente riabilitato anche nelle mense più raffinate: famosi furono i tonni di Samo, di Bisanzio e della Sicilia; rinomati gli avannotti di Rodi o di Atene; squisite le triglie di Mileto e le anguille del lago Copaide. Anche per le carni il gusto cambiò nell’età classica: molto apprezzati divennero gli uccelli (del tutto trascurati in età omerica), la cacciagione e le lepri in particolare. Sempre apprezzata era ancora la carne di maiale. Anche sulle tavole delle classi più ricche comparvero gli ortaggi e i legumi, preparati sotto forma di puree insaporite da erbe e semi aromatici.
I Romani
La storia della cucina romana si può sommariamente dividere in due tappe cronologiche: la prima è quella che copre il periodo più antico, dalla Roma dei Re a quella repubblicana; la seconda, invece, è quella che percorre tutta l’età imperiale, fino alla caduta del dominio romano.
Alcuni poeti latini riferiscono che nella Roma arcaica (V e IV sec. a.C.) il modo di mangiare era piuttosto sobrio e frugale; durante il pranzo meridiano il piatto forte sembra fosse solo pane senza companatico. Ma già nella Roma repubblicana troviamo abitudini alimentari più simili a quelle odierne: una prima colazione, lo ientaculum, a base di pane e vino, accompagnato da latte, uova, formaggi e frutti; il prandium di mezzogiorno, composto anche da pietanze calde; la coena serale che rappresentava il pasto principale.
In epoca imperiale il lusso e lo sfarzo del costume ebbero riflessi particolarmente importanti nella tavola. Nacque una spasmodica ricerca del raro, dell’appariscente, del perfezionismo, dello sbalorditivo: nei famosi banchetti di Lucullo, Apicio, Trimalcione, oltre ai classici maiali, capretti, agnelli, pollame e cacciagione, fecero la loro comparsa animali strani come pavoni, pappagalli, fenicotteri, gru, ghiri e persino struzzi.
La carne bovina, considerata di qualità scadente, era destinata invece alla mensa più povera o plebea. Sempre importante il ruolo del pesce che rappresentava il cibo più ricercato e preferito. Molto consumate erano anche le verdure condite con salse raffinate nei menù patrizi, ma preparate anche dal popolo in modo semplice, cotte o crude, in purea o spezzettate oppure fritte, come completamento o accompagnamento di polente o pappe di cereali, di fave, di ceci, delle focacce o del pane. Gli ortaggi più comuni erano le rape, le cipolle, le carote, le bietole, i cetrioli, le zucche, le zucchine, i cavoli, le lattughe, i porri, i carciofie l’aglio.
Un posto importante nella mensa della Roma imperiale l’occupò il garum, un condimento usato frequentemente in moltissime preparazioni. Il garum (chiamato anche liquamen) era un liquido dal gusto difficilmente immaginabile, ottenuto facendo macerare per una notte dei cascami di pesce con sale, vino e aromi vari. Si trattava in pratica di un esaltatore di sapore impiegato come la salsa di soia nella cucina cinese o il concentrato da brodo nella nostra cucina.
Dal più antico libro di gastronomia pervenutoci, il De Re Coquinaria di Gavio Apicio, la cucina della Roma imperiale appare raffinata e dotta con due caratteristiche essenziali. La prima è quella di usare molti ingredienti in strane e pasticciate miscele, le quali prevedevano spessissimo la combinazione del dolce con l’acido, dell’aromatico col dolce, del dolce col salato. In pratica, era una specie di pasticcio aromatico in cui trovavano posto bulbi, semi odorosi, erbe, bacche, cortecce e radici, utilizzati in polvere e miscelati a vino o a miele con funzione non solo aromatizzante, ma anche conservante o come fondo di cottura.
L’altra caratteristica della cucina della Roma imperiale era la triturazione, lo snervamento, lo sminuzzamento in poltiglia degli alimenti, per preparare polpette, involtini, galantine, salamelle, sanguinacci. Questo sistema di cucinare i cibi era certamente dettato dall’abitudine dei Romani di mangiare stando sdraiati, un rito acquisito dopo le conquiste delle province d’Oriente.
In epoca imperiale la cena si apriva con antipasti più leggeri, serviti alla maniera greca, e proseguiva con portate più ricche e aromatiche. Al termine era previsto il servizio di frutta o conserve dolci, una sorta di dessert tra cui compariva anche una specie di gelato ottenuto miscelando la neve con miele ed essenze aromatiche.
Il vino era una bevanda consumata abitualmente negli anni della Roma imperiale. Al tempo di Plinio, agli albori dell’era cristiana, si conoscevano circa 80 vitigni e più di 200 tipi di vino. Il Falerno della Campania, il Cecubo laziale, il Mamertino siculo erano tra i prodotti più noti, ma nella capitale si potevano degustare anche vini d’importazione spagnola o gallica.
IL MEDIOEVO
Intorno al V secolo d.C. cominciarono le grandi invasioni barbariche e tutta l’area del Mediterraneo fu sconvolta dalla calata di numerose tribù nomadi nordeuropee. Queste popolazioni vivevano soprattutto dei prodotti derivati dall’allevamento del bestiame (carne, latte e formaggi) e l’impatto con la più raffinata ed evoluta cucina romana fu sconvolgente.
Scomparvero le coltivazioni di vite, di ulivo, quelle cerealicole e molte altre pratiche agronomiche. Gli abitanti delle città dell’Impero, impauriti per i frequenti saccheggi degli invasori, fuggirono nelle campagne e l’economia in genere subì un rapida involuzione: scomparve quasi la moneta e tornò in auge il baratto delle poche merci che erano a disposizione.
All’improvviso scomparvero le spezie, le salse, il noto garum romano, e il cuoco dell’Alto Medioevo ebbe a disposizione una minore varietà di alimenti per preparare le sue pietanze, in quantità limitata e solo in certi periodi dell’anno. Gli unici luoghi dove ancora era possibile trovare coltivazioni agricole di una certa entità erano i monasteri e le abbazie, dove i contadini potevano svolgere il loro lavoro in relativa tranquillità.
L’arrivo degli Arabi intorno all’anno 800 portò alcune importantinovità nel campo alimentare: dall’Oriente fu introdotto lo zucchero (dall’arabo sukkar), il riso, molte varietà di agrumi, la palma e numerosi tipi di spezie scomparse dopo la caduta dell’Impero Romano. Anche le Crociate, iniziate nel 1096, contribuirono a portare in Europa molti alimenti poco utilizzati e insieme a essi diverse tecniche per poterli conservare.
Dopo l’anno 1000, passata la paura della “fine del mondo”, si ebbe in tutta Europa un vero risveglio dell’agricoltura. Si introdusse la pratica del sovescio (tecnica del riposo dei terreni) e della rotazione delle colture, che consentì di sfruttare in modo più razionale i terreni e ottenere una produzione migliore e variegata di vegetali. Anche l’impiego delle uova in cucina cominciò a diffondersi in modo massiccio durante questi anni.
L’uovo si utilizzò sia per legare e per insaporire le vivande, sia come piatto a sé, e di conseguenza sorse la necessità di conservare opportunamente le uova nel tempo. Vennero escogitati diversi metodi di conservazioneche evitassero l’evaporazione dell’albume interno, come l’immersione delle uova nella segatura, nella calce, nella cenere, nel sale, nella crusca, nell’olio; oppure la copertura del guscio con grasso di montone o cere o cenere impastata con acqua.
Il Medioevo fu il “periodo d’oro” per il maiale. Il consumo della sua carne divenne preponderante rispetto a quella bovina, anche perché quest’ultima non si prestava bene alla salatura e non poteva essere conservata a lungo. Del maiale si utilizzava quasi tutto: carni, frattaglie, grasso, piedi, pancetta, lingua, midollo preparati in svariati modi, arrostiti, alla brace, fritti o sbollentati. Non bisogna poi dimenticare che dal maiale si potevano ricavare numerosi tipi di salumi le cui tecniche di preparazione erano note da tempo: prosciutti, salami, salsicce si ottenevano mescolando la carne di maiale con quella di bue e di montone.
La dieta delle popolazioni rivierasche del nordeuropa era invece più ricca di pesce, soprattutto di aringhe, dopo che in Olanda si scoprì il sistema per conservarle a lungo (salagione e affumicatura).
Anche le tecniche enologiche cominciarono ad affinarsi sempre più in questi secoli. Il vino, prodotto utilizzando le botti in legno, migliorò decisamente in sapore e conservabilità e la viticoltura si sviluppò non solo in Italia ma anche in tutta la Francia e la Spagna. Accanto a quella del vino migliorò notevolmente anche la produzione della birra, con l’introduzione del luppolo, e di altre bevande fermentate come il sidro di mele e di alcune acqueviti progenitrici dell’attuale grappa.
Le invasioni barbariche prima e il conseguente frazionamento politico dell’Italia accentuarono le già notevoli differenze ambientali delle diverse regioni, nelle quali si svilupparono pian piano usi e tradizioni gastronomiche molto differenti tra loro che risentivano delle diverse influenze straniere. Da qui nacquero nel Medioevo le prime cucine regionali, tra cui si distinsero quella veneziana, più ricca di sapori orientali, e quella fiorentina, più schietta e legata ai prodotti locali.
L'UMANESIMO E IL RINASCIMENTO
Il periodo che va dal 1300 alla fine del 1500 vide una forte trasformazione della cultura europea, ma italiana in modo particolare. Il XVI secolo, periodo più fulgido del Rinascimento italiano, visse sotto il segno dello splendore, della perfezione e della magnificenza soprattutto in senso edonistico e quindi anche gastronomico. In effetti, sotto il profilo culinario durante questo secolo non avvennero grandi rivoluzioni: gli usi alimentari risalenti al Medioevo, nel Rinascimento vengono abilmente perfezionati nella ricerca del nuovo e dello sfarzoso.
Si pubblicarono diversi libri e trattati di buone maniere (il Galateo di Monsignor Giovanni Della Casa è sicuramente il più noto) nei quali si codificava il corretto comportamento da rispettare quando si mangia. Comparvero per la prima volta sulla tavola la forchetta, il bicchiere individuale, gli stuzzicadenti, il tovagliolo e molti altri utensili vennero inventati per gli usi culinari: le rotelle tagliapasta, i crivelli, i setacci, recipienti per stufare, gli spremilimoni e via dicendo.
Fino alla metà del 1500, l’Italia fu il Paese dove principalmente si sviluppò una maggiore fecondità gastronomica. Lo dimostra il fiorire di una nutrita letteratura prodotta da grandi cuochi come Maestro Martino, Cristoforo da Messisbugo e Bartolomeo Scappi, personaggi molto famosi che operarono presso le corti ducali italiane e i diversi Papi romani. Nacque una vera e propria gerarchia di specialisti del servizio e delle preparazioni culinarie, preludio della più moderna brigata di cucina e di sala. Compaiono gli scalchi o maggiordomi, i trincianti, i bottiglieri, vere e proprie categorie di professionisti della cucina che contribuirono alraggiungimento dello splendore tipico di quel periodo.
Con il matrimonio di Caterina de’ Medici con il futuro re di Francia Enrico II, il centro dell’attività gastronomica si spostò da Firenze a Parigi. La nuova regina portò con sé un nutrito stuolo di cucinieri, pasticceri e altri professionisti che trovarono in Francia il terreno più fertile per far diventare “grande” la cucina francese del Seicento e del Settecento.
Bisogna aggiungere che durante il Rinascimento comparvero alcune novità nel campo culinario. Il progresso più sensibile si nota sull’uso delle marinate e nei procedimenti di cottura, con particolare riguardo al bagnomaria e alle stufature in speciali pentole a chiusura ermetica (le antenate delle attuali pentole a pressione), usate per cotture lente in mondo da non disperdere aromi e profumi. Una notevole evoluzione va individuata anche nel campo delle paste per pasticceria con l’avvento di preparazioni simili alla sfoglia, antesignane dei moderni vol au vent, e di paste friabili e leggere simili alla futura pasta frolla.
I nuovi prodotti arrivati dal continente americano, come il fagiolo, la patata, il cacao, il mais, il peperone, il pomodoro, la melanzana, il tacchino, non hanno goduto subito di una grande diffusione e sono stati per lo più considerati delle curiosità alimentari da sfoggiare durante i sontuosi banchetti nobiliari o della ricca borghesia.
Importante è notare come, durante il Rinascimento, a causa della forte faziosità e frantumazione politica degli Stati italiani, si configurarono in modo netto i diversi gusti culinari identificabili poi nelle diverse cucine regionali.
IL SEICENTO
Il XVII secolo vide un grande sviluppo della cultura francese e nobili e borghesi si dedicarono al piacere della tavola e all’arte gastronomica. Sotto il dominio del Re Sole la passione e l’interesse per la cucina come vera e propria arte e simbolo di raffinatezza si manifestavano in ogni occasione conviviale aristocratica e le preparazioni culinarie dei cuochi professionisti, dipendenti presso i vari casati nobiliari, erano messe in bella mostra come un’auto lussuosa oggigiorno. La cucina popolare e borghese solo successivamente farà proprie le innovazioni gastronomiche che progressivamente furono adottate dai ceti più abbienti.
Con Le Cuisinier François compilato dal cuoco professionista François Pierre de La Varenne e pubblicato nel 1651, nasce la cucina francese classica. Oltre a far propri circa trecento anni di tecnica culinaria, includendo anche gli insegnamenti del Rinascimento italiano, La Varenne compì un deciso passo in avanti, arrivando a conquiste che fanno tuttora parte della grande cucina francese e internazionale.
È qui che si parla per la prima volta dei “fondi” o basi di cucina, su cui imperniare la tecnica delle salse e l’abbinamento dei nuovi sapori; la creazione di alcune interessanti salse moderne a partire dai rosolati combinati con i fondi bouillon; l’impiego su larga scala del cosiddetto bouquet garni o mazzetto di odori; l’utilizzo delle carni di animali nostrani e non più esotici secondo tagli paragonabili a quelli odierni.
Da La Varenne e dagli altri cuochi suoi contemporanei si può vedere l’evoluzione rapida della cucina francese, rinnovata nelle tecniche e nei sapori. Per gustare carni tenere si preferivano animali giovani (come i porcellini da latte) oppure carni sminuzzate preparate in pasticci. Era molto diffusa la pratica della “steccatura” con strisce di lardo e si comincia a impiegare molto la carne del tacchino, arrivato da poco dall’America.
Dalle tendenze rinascimentali italiane nacque in Francia la passione per i legumi, soprattutto i piselli, considerati una vera sciccheria di cui era elegante essere golosi. I piselli si mettevano nelle zuppe, nei contorni col pollame, nei ripieni, saltati col burro, insieme alla lattuga. Vennero valorizzate molte altre varietà di verdure e frutta fino allora trascurate e si adottarono metodi di coltura intensiva per prugne, albicocche, pesche e fragole.
Molto consumati furono i cetrioli, cavoli, cavolfiori, verze, cicorie e lattughe (provenienti dall’Italia) e di topinambur arrivati dal Nuovo Mondo. La patata e il pomodoro non conobbero in Francia un grande successo fino al tardo Settecento. Una vera novità si ebbe per quanto riguarda gli aromi e i sapori delle preparazioni gastronomiche: viene quasi bandito l’uso del sale e così pure delle spezie e i sapori vengono donati prevalentemente dai fondi rosolati e dalle salse che da essi si ottenevano.
Anche la pasticceria conobbe un periodo di grande splendore e innovazione con la preparazione di pâte e pasticci salati, gelatine, confetture e altri prodotti di confetteria. Verso la fine del Seicento si cominciò a impiegare il cacao d’importazione americana, il tè cinese e il caffè arabico, per preparare dessert e dolci di varia fattura (sfoglie, amaretti, cialde e i petit four). Dopo la metà del Seicento comparve in Francia anche una cucina “naturista,” con simpatie verso il vegetarianismo, sostenuta nel libro Les delices de la campagne (1654) scritto da Nicolas de Bonnefons, un appassionato di giardinaggio.
La sua cucina, anche se poco innovativa, tendeva a valorizzare i vegetali, escludendo in modo drastico il lardo tanto usato dai cuochi contemporanei. Anche nel campo delle bevande la Francia offrì notevoli spunti di novità, primo fra i quali la produzione di un vino spumante partendo da un vino di Champagne: nel 1688 Dom Perignon inventò il metodo champenoise per produrre lo Champagne.
IL SEICENTO IN ITALIA
Anche se non mancano cuochi illustri che producono una ricca bibliografia di cucina, il Seicento in Italia rappresentò un periodo di stasi, senza grandi innovazioni culinarie. Gli argomenti maggiormente trattati dai professionisti italiani riguardavano, come nell’età rinascimentale, il servizio di sala e l’arte della pasticceria. Soprattutto quest’ultima conobbe un vero e proprio boom nella gelateria, dove i maestri siciliani furono richiesti in ogni corte europea. Travolgente fu anche la vocazione italiana per il caffè e la cioccolata; aprirono botteghe specializzate in questi prodotti, che per prime a Venezia prendono il nome di “caffè”.
La cucina popolare adottò il mais, il nuovo cereale arrivato dalle Americhe, con il quale molte popolazioni padane confezionavano vari tipi di polente. Nella Penisola fece la sua comparsa il pomodoro, indispensabile per preparare creme e salse utilizzate soprattutto nell’Italia meridionale per condire le paste bollite.
LA CUCINA INGLESE E AMERICANA DEL XVII SECOLO
Nella seconda metà del 1600 cominciò a fare i primi passi anche la cucina inglese, accusata fino a quel momento di scarsa innovazione e di forte conservatorismo.
La letteratura che fiorisce col finire del secolo e durante tutto il Settecento, a differenza della Francia e dell’Italia, fu scritta quasi completamente da donne.
La gastronomia inglese, tradizionalmente “carnivora”, si rinnovò con l’introduzione di ricette di verdura (di derivazione italiana e francese), ma mantenne come suoi punti di forza gli arrosti di carne e i prodotti dolciari (famosi sono i pudding o budini anglosassoni).
La grande novità della cucina inglese arrivò verso la metà del 1700 quando Hannah Glasse pubblica Th e Art of Cookery Made Plain and Easy.
La grande intuizione della Glasse non fu nella parte culinaria (decisamente antifrancese e per buona parte scopiazzata da altri autori), ma nell’intenzione di rivolgersi alle colf dell’epoca anziché ai cuochi professionisti. Si tratta quindi di una delle prime pubblicazioni indirizzate più alla classe media che ai grandi casati nobiliari ed ecclesiastici, col dichiarato scopo di preoccuparsi anche della gente che dispone di risorse limitate e non può permettersi vivande troppo elaborate.
Anche oltre l’Oceano Atlantico si cominciò a parlare di cucina in modo codificato. La cucina americana è, in pratica, il risultato del trapianto di usanze popolari europee in un mondo nuovo, a contatto con esigenze diverse, utilizzando prodotti completamente sconosciuti.
La gastronomia americana attingeva un po’ dalla cucina inglese e un po’ da quella francese, mescolandosi anche con quella ispanica. Interessante è, tuttavia, il forte desiderio di distinguersi dal modo di cucinare europeo, utilizzando in grande quantità alimenti conservati (carne sottosale, frutta seccata, marmellate, gelatine, legumi in salamoia), melassa, sciroppo di acero, mais e tacchino. In America si utilizzò per la prima volta un agente chimico nell’alimentazione: il carbonato di potassio con funzione lievitante negli impasti di farina.
IL SETTECENTO
Il Settecento è il secolo dei Lumi e della Rivoluzione Francese, e anche in gastronomia si avverte un forte movimento di trasformazione che precede e segue i fatti politici. Una forte smania innovativa e una maggior partecipazione della cultura alle cose della tavola pongono le basi della futura ristorazione moderna come momento conviviale e di conversazione.
In questo secolo nacque in Francia il formaggio Camembert, il pâté di foie gras, le meringhe e il Cognac; si elaborarono i sughi di base (coulis), il biondo di vitello per le salse brune, le mirepoix e le brunoise di carote, cipolle sedano e altre verdure; si perfezionarono i rosolati, la salsa spagnola e le glasse; nasce la salsa maionese.
Nel Settecento si affinarono anche i sistemi di regolazione della fiamma delle cucine consentendo di effettuare contemporaneamente più cotture separate.
Questo particolare tecnico rappresentò un grande passo in avanti nella formulazione delle ricette, in quanto permetteva di elaborare piatti realizzati abbinando preparazioni cotte separatamente in modo diverso. La letteratura gastronomica francese della metà del Settecento cominciò a rivolgersi agli appassionati, ai cuochi gentiluomini, alle massaie, ai dilettanti (i cosiddetti cordon bleu).
Nel manuale La cuisinière bourgeoise, scritto da Menon nel 1745, appare evidente la preoccupazione di ridurre le spese, riportando molte ricette campagnole con salsicce, trippe, piedini di vitello e altri piatti regionali.
L'OTTOCENTO
La maggiore disponibilità di prodotti, dovuta al miglioramento delle colture agricole, nonché all’ampliarsi dei mercati e alla rivoluzione dei trasporti, è la caratteristica principale dell’alimentazione dell’Ottocento. In piena epoca coloniale aumentò il consumo di molti prodotti poco noti e sulle mense europee arrivò una serie di nuovi alimenti esotici sconosciuti, come il riso d’India, il mango, la soia, l’ananas, la batata, le arachidi.
Cacao, cioccolata, caffè e tè, già conosciuti durante il Settecento, conobbero un vero e proprio boom, testimoniato anche dalla nascita di numerosi esercizi specializzati nella somministrazione e nella vendita di questi prodotti. Due piante rivestono una notevole importanza alimentare in questo secolo: la patata, che permise di risolvere i problemi alimentari di popolazioni tradizionalmente povere come gli irlandesi e i tedeschi, e la barbabietola da zucchero, la cui coltivazione, sostenuta da Napoleone I, finì per soddisfare i bisogni di zucchero europei, incrementando notevolmente l’arte della pasticceria.
Grande beneficio arrivò anche dalle importanti pratiche di sanitizzazione del latte. Grazie al medico Pasteur si realizzò la pastorizzazione del latte su larga scala, mettendo a disposizione di molta gente un prodotto basilare per un’alimentazione più sana. Migliorò anche l’allevamento del bestiame con l’eliminazione del carbonchio e l’introduzione dei mangimi calibrati nella loro composizione. Durante il 1800 lo sviluppo della tecnologia permise d’applicare rapidamente e su larga scala numerosi sistemi di conservazione alimentare del tutto innovativi come la concentrazione, la sterilizzazione, la pastorizzazione e la refrigerazione. Anche l’industria casearia venne notevolmente avvantaggiata dalle scoperte microbiologiche iniziate da Pasteur; migliorò la conoscenza delle fermentazioni batteriche e si prepararono ceppi microbici selezionati con i quali fare prodotti caseari nuovi o comunque standardizzati.
Verso la fine del secolo, in Francia nacque la margarina, un nuovo tipo di grasso inventato da un abate francese, che costituisce oggi uno dei grassi di condimento più consumati a livello mondiale. Sempre a proposito dei grassi di condimento, è bene ricordare che nell’Ottocento mosse i primi passi l’industria degli oli di semi, ricavati utilizzando soprattutto la palma e l’arachide.
LA GRANDE CUCINA FRANCESE DELL'OTTOCENTO
Sull’onda innovativa della Rivoluzione Francese e la successiva Restaurazione, la Francia riveste il ruolo principale sulla scena gastronomica europea e internazionale. Il suo maggior interprete fu certamente Marie-Antoine Carême, il cuoco che, al servizio di numerose casate europee, seppe dare impulso e inventiva all’arte culinaria al punto da farla diventare da argomento di discussioni filosofiche pura perfezione.
Nella sua breve vita Carême dedicò tutto il suo tempo alla cucina inventando nuove preparazioni descritte minuziosamente nella sua fertile produzione letteraria. Le cuisinier parisien (del 1828) è certamente una delle migliori testimonianze del genio inventivo di Carême. In questo libro possiamo trovare i famosi piatti in gelatina, fino ad allora poco noti, e l’applicazione degli chaud-froid; l’introduzione dell’uso del freddo nelle preparazioni culinarie e nella conservazione alimentare; l’arricchimento delle entrée fredde.
La sua opera più vasta (ben 5 volumi), L’art de la cuisine française aux XIXe siècle, è una panoramica completa dell’alta gastronomia internazionale di codificazione francese. Si tratta di una cucina elaborata, che richiede varie fasi di preparazione, di assemblaggi anche complessi, ottenuti con preparazioni preesistenti realizzate per concentrazione, setacciatura, estrazione, riduzione e molte altre tecniche di raffinazione. I piatti finali non arrivano mai dalla sola trasformazione degli alimenti di base, ma sono il risultato di un inserimento armonico di gusti allo scopo di sottolineare, e non mascherare, le sfumature proprie degli ingredienti basilari.
Molti discepoli di Carême continuarono ad arricchire la cultura gastronomica francese seguendo le orme del maestro, ed esportando in tutta Europa e oltre oceano la grande cucina francese. Presso la corte inglese e quella russa molti cuochi famosi francesi prestarono la loro opera riportando in patria nuovi elementi di arricchimento gastronomico. Accanto alla cucina d’alto rango, elaborata e quasi fine a se stessa, anche la cucina borghese si arricchì delle grandi innovazioni tecnologiche del tempo, risultando tuttavia meno sfarzosa e più economica nella scelta degli ingredienti. Nella seconda metà dell’Ottocento furono pubblicati in Francia diversi libri di cucina borghese, più legata alla gastronomia regionale e destinata alla massaia o al buongustaio dilettante.
L'OTTOCENTO ITALIANO
L’Italia, divisa in decine di stati e staterelli, soffrì per anni di francofilia e, nonostante diversi cuochi riuscissero a emergere per bravura e genialità, nessuno fu in grado di caratterizzare il proprio lavoro in modo personale e innovativo. Il capostipite di una vera e propria cucina italiana codificata e libera dai regionalismi vincolanti fu Pellegrino Artusi. Nel 1891 venne infatti pubblicata La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene, la prima opera letteraria italiana dell’Ottocento che rifiuta i limiti culturali e punta alla completezza e alla valorizzazione della cucina italiana. Si tratta di ricette valide e collaudate, prevalentemente emiliane e toscane, rivolte soprattutto al ceto medio borghese.
LA NASCITA DELLA RISTORAZIONE MODERNA
Verso la fine del XIX secolo avvenne la grande trasformazione nel mondo della gastronomia: nasce la ristorazione moderna. L’incontro di Auguste Escoffier, genio della cucina, con Cesar Ritz, mago dell’imprenditoria, segnò il decollo di imprese colossali nel campo della ristorazione. Alberghi, treni lussuosi, transatlantici, cominciarono a diventare elementi fondamentali di un fenomeno nuovo che nasce a livello mondiale: il turismo.
Ritz affrontò il problema imprenditoriale aprendo grandi alberghi di lusso in ogni parte d’Europa ed Escoffier si incaricò d’installare e istruire al meglio il settore della ristorazione, perno fondamentale di queste strutture.
Non solo inventò piatti nuovi ed estrosi da dedicare a principi e personaggi famosi (per esempio le pesche Melba, il tournedos Rossini, il soufflé Rothschild), ma per primo organizzò in modo perfetto il buon funzionamento di strutture culinarie ristorative molto complesse. Istituì le gerarchie necessarie per far funzionare la brigata di cucina e rendere fattibile la realizzazione dei menù à la grande carte. Il suo organigramma del personale di cucina di un grande albergo prevedeva un primo chef che ha ai suoi ordini cinque partite principali: quella del saucier (per le salse), quella del pâtissier per le paste, del garde-manger per i piatti freddi e i rifornimenti generali, dell’entremetier per le minestre, verdure e dessert e del rôtisseur per gli arrosti, le grigliate e i fritti.
Sul piano tecnico ed estetico Escoffier ridusse all’essenziale la complessa struttura dell’alta cucina di Carême.
Abolì inoltre i supporti di pergamena e grasso, i trofei di farina, gli uccelli impagliati, semplificando enormemente la presentazione.
Egli cercò di presentare gli alimenti col proprio aspetto originale, abbellito semplicemente dal contorno e reso gradevole dal colore appetitoso di una salsa o da effetti policromici ricavati da ingredienti naturali e commestibili.
Talvolta l’effetto decorativo arrivava da particolari stoviglie e recipienti o sculture in ghiaccio, ma senza l’impiego di materiali posticci. Escoffier fu autore di importanti libri che sono considerati basilari anche oggi. Le Guide culinaire, pubblicato nel 1902, è un testo fondamentale per quanto riguarda la preparazione di salse madri, fondi e basi di cucina, mentre Le livre des menus, del 1912, delinea la programmazione dei pranzi secondo gli ospiti, la stagione o il tempo a disposizione.
IL NOVECENTO
Il XX secolo, sia per i grandi mutamenti storici, sia per l’elevato sviluppo tecnologico e scientifico, ha profondamente trasformato la società fin dalle sue fondamenta con imprevedibili riflessi su ogni attività umana, compresa quella gastronomica.
L’avvento dell’automobile fu il segnale più evidente di un benessere che, grazie alla tecnologia, si espanse notevolmente (almeno in molti Paesi dell’emisfero settentrionale del mondo) facendo viaggiare sempre più rapidamente persone, merci e, soprattutto, idee. In questo secolo cambia anche il “turista” medio: prima esclusivamente rappresentato dall’aristocrazia e dalla nobiltà, che si spostava prevalentemente con i piroscafi , ora viene interpretato anche dalla borghesia media, che utilizza mezzi più piccoli e maneggevoli come l’automobile.
Ecco quindi uscire nel 1900 la prima Guida Michelin, una pubblicazione nata in Francia, dedicata ai “gastronomadi” (gli automobilisti-gastronomi), allo scopo d’illustrare le caratteristiche di tutti i ristoranti di qualità presenti sul territorio. Sempre in Francia, nel 1912, nacque con lo stesso intento il Club dei Cento, che stilò una lista di maison dove si mangiavano “cose molto buone”.
Seppur limitato rispetto alla Francia, anche in Italia si assistette nel primo quarto di secolo a un certo fermento gastronomico, testimoniato dalle diverse pubblicazioni di quel periodo. Nel 1909 si pubblicò La nuova cucina delle specialità regionali dove per la prima volta si riportarono ricette di tutte le regioni italiane, compresi i piatti poveri come la panzanella.
LA CUCINA FUTURISTA
Dopo la Grande Guerra si assistette in Italia al diffondersi delle idee futuriste di Filippo Tommaso Marinetti, rivoluzionarie e sconvolgenti non solo nella pittura o nel teatro, ma innovative nella musica, nell’abbigliamento, nell’urbanistica e in molti altri settori della vita sociale.
La gastronomia non fu lasciata in disparte e nacque la cucina futurista, rimasta più sulla carta e nella mente dei suoi ideatori che messa realmente in pratica. Le posizioni decisamente riformiste dei futuristi puntavano al rifiuto dei mediocri piaceri quotidiani del palato, e auspicavano l’avvento di una cucina chimica che abolisse i vecchi schemi gastronomici sostituendoli con nuove idee al passo con i tempi frenetici. Il movimento futurista si batteva contro la pasta asciutta, accusata di portare torpore, a favore del più “brioso” riso.
La nuova proposta culinaria fatta da Marinetti fallì inesorabilmente allorché gli accostamenti gastronomici proposti non si rivelarono né mangiabili né realizzabili. Citiamo per tutte due ricette tra le più “strambe”: il “porcoeccitato” (carne di maiale innaffiata con acqua di colonia e caffè espresso) e i “garofani allo spiedo”
LA CUCINA DURANTE IL REGIME FASCISTA
Il ventennio fascista a cavallo tra le due guerre mondiali instaurò in Italia uno stile di vita basato sulla frugalità, sulla semplicità e sull’autonomia dalle servitù straniere. A prescindere dal fenomeno della cucina futurista, si verificò un certo appiattimento della cucina nazionale, chiusa nei suoi regionalismi e piuttosto sobria e aliena da ogni frivolezza e lusso di sorta. Tuttavia nel 1929 l’editore Umberto Notari pubblicò il primo numero di La Cucina Italiana, un periodico che aveva come proposito considerare la buona tavola non solo come utilizzo di ricette, ma quale fatto sociale.
Notari proponeva il ritorno ai grandi banchetti come punto di incontro civile e conviviale, luogo di discussione di temi gastronomici che coinvolgessero anche l’aspetto “umanistico” del mangiare. Questo interessante esperimento non trovò subito un terreno fertile di diffusione e dovette aspettare gli anni del secondo dopoguerra e del boom economico per emergere in modo rilevante.
LA CUCINA CONTEMPORANEA
Dal disastro bellico anche la cucina europea ne uscì distrutta. Il poco cibo disponibile, a volte razionato, non consentiva di fare voli pindarici tra i fornelli e l’evoluzione gastronomica dovette aspettare gli anni Cinquanta e, ancor più, quelli Sessanta per riscoprire una forte vitalità.
Gli anni del boom economico portarono in ogni casa il frigorifero, il forno, la cucina a gas, gli elettrodomestici multiuso, e di conseguenza si modificò profondamente il modo di cucinare. L’entrata della donna nel mondo del lavoro poi sconvolse i ritmi della vita familiare, col risultato che aveva sempre meno tempo per dedicarsi alla cucina. Ecco quindi che il modo di mangiare subisce un cambiamento, diventando più rapido, e fanno la loro comparsa cibi che prima erano considerati troppo costosi e poco “gastronomici”, come la fettina di bovino o il petto di pollo ai ferri.
Contemporaneamente scompaiono dalla cucina alcuni piatti considerati “prebellici” e di lunga preparazione, come la polenta, i legumi, le frattaglie e alcuni ortaggi (rape, verze, cavoli ecc.). Anche l’editoria culinaria evidenzia questo fenomeno proponendo ricettari pratici, semplici ma di tono raffinato, con un’attenzione sempre maggiore all’aspetto calorico e dietetico. Ne è un esempio Il Cucchiaio d’Argento, best seller incontrastato per decenni.
Con gli anni Settanta si delineano tre filoni gastronomici paralleli:
• la riscoperta delle tradizioni regionali, con un rilancio dell’artigianato alimentare locale, legato soprattutto all’incredibile aumento del turismo di massa e al conseguente incremento dei festival gastronomici e delle sagre paesane;
• l’adozione di modelli di cucina rapida, sana e attenta alla dietetica, che utilizza sistemi di cottura pseudoinnovativi, come la cottura al vapore, o apparecchiature di nuova concezione (forno a microonde, cottura sottovuoto ecc.);
• la Nouvelle Cuisine francese, opportunamente riadattata ai gusti italiani.
LA NOUVELLE CUISINE
Verso la metà degli anni Sessanta si afferma in Francia una nuova tendenza culinaria, che Henry Gault e Christian Millau, giornalisti e autori di una serie di celebri guide gastronomiche, divulgano come la “Nuova Cucina” francese o Nouvelle Cuisine.
Secondo molti questa nuova cucina nasce più di cinquant’anni fa, quando Fernand Point per primo tentò di semplificare e alleggerire gli schemi classici della cucina francese, codificati dal grande Escoffier.
Fu una specie di “rivolta” contro la cucina degli alberghi internazionali, considerata intoccabile e quindi priva di quello spazio necessario per sviluppare fantasia e creatività.
Il celebre motto di Point era: “Tutte le mattine si deve ricominciare da zero. Senza niente sul fornello. Questa è la cucina”.
Le regole basilari sulle quali si fonda la Nouvelle Cuisine sono:
• rifiuto delle complicazioni culinarie inutili e riscoperta della semplicità;
• riduzione drastica dei tempi di cottura;
• cucinare solo ciò che di meglio offre il mercato ogni giorno (la “cucina del mercato”);
• riduzione del numero dei piatti inseriti nella lista dei ristoranti;
• abbandono delle lunghe marinature e delle frollature;
• sostituzione delle salse troppo grasse e pesanti con salse più leggere e digeribili;
• valorizzazione della cucina regionale e riscoperta dei piatti contadini e borghesi;
• adozione di moderne tecniche culinarie che rispettino l’integrità dei cibi (scoperta delle cucine straniere ed esotiche);
• ricerca di una cucina dietetica e povera di grassi;
• inventare nuove ricette, con fantasia e creatività, introducendo nuovi ingredienti e sperimentando nuovi accostamenti.
In pratica la Nouvelle Cuisine abbandona i fondi classici, la besciamella e la farina come legante; esige materie prime di ottima qualità e valorizza appieno il gusto naturale di ogni ingrediente.
Le verdure vengono cotte al dente, utilizzando spesso cotture delicate derivate dalle cucine orientali. La cucina si fa più leggera, delicata, adatta ai tempi moderni dove il lavoro fisico è sempre meno presente nello stile di vita quotidiano.
Un gran merito della Nouvelle Cuisine sta nell’atmosfera di collaborazione e di scambio di idee che ha permesso di creare tra i cuochi francesi più giovani, eliminando gelosia e rivalità professionale.
In Italia è Gualtiero Marchesi che lancia questa nuova cucina durante gli anni Ottanta, dopo aver fatto molta esperienza in terra francese. Nel 1980 pubblica La mia nuova grande cucina italiana, il libro dove raccoglie le ricette più rappresentative della sua cucina creativa.
Oggi la Nouvelle Cuisine è in crisi, soprattutto in Francia. È lo stesso Bocuse che ne prende le distanze promuovendo ora una cucina semplice, dai buoni odori, “che riscalda il cuore”. In ogni caso ciò che conta è che questa “moda” culinaria ha lasciato dei segni anche sulla nostra gastronomia, ora più salutare, leggera e decisamente più libera rispetto alle tradizioni del passato.
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I primi condimenti
Nel continuo tentativo di rendere più gradevole la propria alimentazione, l’uomo arrivò molto presto a migliorare il gusto dei cibi con una serie di condimenti facilmente classificabili in tre gruppi:
• per ingrassare. Inizialmente si utilizzava solo il midollo ottenuto dal taglio delle ossa animali; in seguito, con la conoscenza dei primi sistemi di cottura si aggiunse il grasso fuso ottenuto dalla macellazione degli animali. I primi oli ottenuti per spremitura o schiumatura si ebbero solo nel Neolitico;
• per salare. Si tratta essenzialmente del salgemma (sale minerale o alite), non facile da reperire, e del sale marino ottenuto dall’evaporazione dell’acqua di mare. L’importanza di questo condimento per l’alimentazione è tale che fin dai primordi, il sale riveste un ruolo fondamentale nelle economie di scambio;
• per addolcire. Dopo la linfa dolce che sgorga dalle cortecce di alcune piante (acero dolce), l’uomo scoprì il miele delle api selvatiche depositato sotto le cortecce o nei tronchi cavi.
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PER SAPERNE DI PIÙ
Breve storia della tecnologia in cucina
• 800 a.C.
i cinesi cominciano a usare il ghiaccio per conservaregli alimenti
• 1320
in Europa compaiono le prime pentole
• 1680
il chimico francese Denis Papin inventa la prima pentola a pressione
• 1837
James Sharp progetta a Southampton la prima cucina a gas
• 1860
l’ingegnere francese Ferdinand Carré inventa il primo frigorifero
• 1865
il francese Louis Pasteur mette a punto il processo di pasteurizzazione
• 1913
a Chicago viene venduto il primo frigorifero domestico, il “domeire”
• 1915
Clarence Birdseye inventa la surgelazione
• 1916
Herbert Johnston inventa il frullatore
• 1945
Maxson commercializza le prime pietanze surgelate
• 1945
nasce il forno a microonde, inventato dall’americano Spencer
• 1946
l’italiano Achille Gaggia inventa la macchina per il caffè espresso
• 1954
nasce il rivestimento in teflon per le pentole, scoperto accidentalmente dal francese Marc Grégoire
• 1955
primo utilizzo della liofilizzazione nell’industria alimentare
• 1960
negli USA nasce la cucina sottovuoto
• 1967
entra in commercio il forno a microonde
• 1985
arrivano le insalate pronte e già pulite
• 1990
invenzione della piastra a induzione
Amerigo Vespucci - Istituto Professionale Servizi per L'Enogastronomia e l'Ospitalità Alberghiera- Milano.
Disponibile a http://www.ipsarvespucci.it/wp-content/uploads/2016/09/Evoluzione-cucina. Digitalizzati, adattato e illustrato per Leopoldo Costa.
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