L'INVENZIONE DELL'AGRICOLTURA
"Nelle opere sull’orticoltura troviamo espressioni di estrema sorpresa per la mirabile perizia dei frutticultori che sono riusciti a ottenere risultati splendidi partendo da materiali di base così miserevoli. Però io sono sicuro che la loro arte è stata semplice e, per quanto riguarda il risultato finale, è stata applicata quasi inconsciamente. Essa è consistita nel coltivare sempre la migliore varietà conosciuta, seminandola e, allorché compare una varietà dotata casualmente di caratteristiche superiori, selezionando questa, e così di seguito".
(Charles Darwin, L’origine delle specie.)
I cibi come tecnologie
Che cosa incarna la generosità della natura più di una pannocchia di mais? Basta una torsione del polso per staccarla dallo stelo, senza spreco né trambusto. È ricca di chicchi gustosi e nutrienti che sono più grandi e numerosi di quelli di qualsiasi altro cereale, ed è circondata da un cartoccio che la ripara da parassiti e umidità. Il granoturco sembra proprio un dono della natura; è persino impacchettato. Eppure a volte l’apparenza inganna: un campo coltivato a mais, o a qualsiasi altra coltura, è una creazione umana quanto un microchip, una rivista o un missile. Anche se ci piace pensare che l’agricoltura sia una cosa naturale, diecimila anni fa si trattò di uno sviluppo nuovo ed esotico. Per i cacciatori-raccoglitori dell’età della pietra, infatti, una distesa di campi coltivati sarebbe stato uno spettacolo bizzarro e sconosciuto. La terra arata è un paesaggio tecnologico oltre che biologico. E nel grande quadro dell’esistenza umana le tecnologie in questione – colture domesticate – sono un’invenzione molto recente.
Gli antenati dell’uomo moderno si separarono dalle scimmie circa quattro milioni e mezzo di anni fa, e gli uomini “anatomicamente moderni” comparvero circa 150 000 anni fa. Tutti questi primi esseri umani erano cacciatori-raccoglitori che si nutrivano di piante e animali che venivano rispettivamente raccolte e cacciati. Fu solo 11 000 anni fa circa che l’uomo cominciò a coltivare deliberatamente la terra. L’agricoltura comparve e fiorì in tempi e luoghi diversi in modo indipendente: nel Vicino Oriente intorno all’8500 a.C., in Cina nel 7500 a.C. e in Centro e Sud America nel 3500 a.C. Da queste tre aree principali, la tecnologia dell’agricoltura si diffuse poi in tutto il mondo, fino a diventare il più importante mezzo di produzione alimentare dell’uomo.
Fu un cambiamento notevole per una specie che fino a quel momento si era sempre affidata a uno stile di vita nomade basato sulla caccia e sulla raccolta. Se paragoniamo i 150 000 anni trascorsi dalla comparsa dell’uomo a un’ora, è solo negli ultimi quattro minuti e mezzo che gli esseri umani hanno cominciato a coltivare la terra, e solo nell’ultimo minuto e mezzo l’agricoltura è diventata il maggior mezzo di sussistenza. Il passaggio dell’umanità dalla raccolta di frutti spontanei all’agricoltura, da un mezzo di produzione alimentare naturale a uno tecnologico, è recente e improvviso.
Anche se molti animali raccolgono e conservano semi e altri alimenti, gli uomini sono i soli a coltivare intenzionalmente delle piante specifiche e a selezionare e propagare certe caratteristiche desiderate. Come un tessitore, un falegname o un fabbro, un contadino crea cose utili che non esistono in natura. Questo viene fatto usando piante e animali che sono stati modificati, o domesticati, per renderli più adatti agli scopi umani. Sono creazioni umane, strumenti fabbricati con cura che vengono usati per produrre cibo in forme nuove, e in quantità assai maggiori di quelle che si avrebbero in natura. Non è proprio possibile sopravvalutarne l’importanza, visto che resero letteralmente possibile il mondo moderno. Tre piante domesticate in particolare – grano, riso e mais – ebbero un ruolo essenziale. Posero le fondamenta della civilizzazione e ancora oggi sono alla base della società umana.
La domesticazione del mais
Il mais (che in Italia ha molti sinonimi, tra cui granoturco, frumentone e meliga, solo per citarne alcuni) è un ottimo esempio di come le colture domesticate siano inequivocabilmente creazioni umane. La distinzione tra piante selvatiche e domesticate non è rigida né categorica. Piuttosto, le piante formano un continuum: da quelle del tutto selvatiche a quelle domesticate in cui certe caratteristiche sono state modificate per adattarsi agli esseri umani, a quelle del tutto domesticate, che possono riprodursi soltanto con l’assistenza umana. Il mais ricade sotto l’ultima categoria: è il risultato della propagazione umana di una serie di mutazioni genetiche casuali che trasformarono una semplice pianta in un mutante bizzarro e gigantesco incapace di sopravvivere in natura. Il mais discende dal teosinte, un cespuglio selvatico tuttora presente in Messico. Le due piante non si somigliano molto. Eppure sono bastate poche mutazioni genetiche a trasformare l’una nell’altra.
Un’evidente differenza tra il teosinte e il mais è che nel primo le spighe presentano due file di chicchi commestibili protetti da robusti involucri, le glume. Un solo gene, che i moderni genetisti chiamano tga1, controlla la dimensione di queste glume, e una mutazione nel gene produce chicchi esposti. Ciò significa che i chicchi hanno meno probabilità di sopravvivere al viaggio nell’apparato digerente di un animale, ponendo le piante mutanti in svantaggio riproduttivo rispetto a quelle non mutanti, perlomeno nel normale ordine delle cose. Ma i chicchi esposti resero il teosinte molto più attraente agli occhi degli antichi raccoglitori umani, che quindi non dovevano rimuovere le glume prima di consumarlo. Raccogliendo solo le piante con chicchi esposti, e poi spargendone alcuni come semi, i protocontadini aumentarono la percentuale di piante con chicchi esposti. La mutazione del tga1, in poche parole, se da un lato ridusse le possibilità del teosinte di sopravvivere in natura, dall’altro lo rese più attraente per gli umani, che propagarono la mutazione. (Le glume del mais sono oggi talmente ridotte che le notate solo quando si incastrano tra i denti. Sono quella pellicola serica e trasparente che circonda ogni chicco. )
Un’altra palese differenza tra il teosinte e il mais sta nella struttura generale, o architettura, delle due piante, che determina la posizione e il numero delle parti riproduttive maschili e femminili, le infiorescenze. Il teosinte ha un’architettura molto ramificata, con steli multipli, ognuno munito di un’infiorescenza maschile (il pennacchio) e più infiorescenze femminili (le spighe). Il mais, invece, ha un solo stelo privo di rami, un solo pennacchio in cima e molte meno pannocchie (ma molto più grosse) a metà dello stelo, avvolte dal cartoccio. Di solito c’è un’unica pannocchia, ma in alcune varietà di mais possono essercene anche due o tre. Questa diversa architettura sembra essere dovuta alla mutazione di un gene chiamato tb1. Dal punto di vista della pianta questa mutazione è una sfortuna: rende più difficile la fecondazione, perché il polline deve scendere dal pennacchio fino alla spiga. Ma dal punto di vista degli esseri umani è una mutazione molto gradita, perché un piccolo numero di grandi spighe è più facile da raccogliere di un grande numero di spighe piccole. Quindi è probabile che i protocontadini fossero più inclini a raccogliere le spighe delle piante mutanti. Spargendone i chicchi come semi, gli umani propagarono un’altra mutazione che dava una pianta per certi versi “inferiore”, ma che garantiva più cibo.
Le spighe, essendo più vicine al suolo, sono anche più vicine alle sostanze nutritive e possono crescere molto di più. Ancora una volta, fu la selezione umana a guidare il processo. Quando i protocontadini raccoglievano le spighe del protomais, davano la precedenza alle piante con le spighe più grosse; e sarebbero poi stati i chicchi di quelle spighe a essere usati come semi. In questo modo le mutazioni che davano spighe più grandi e più ricche di chicchi furono propagate, e così le spighe crebbero di generazione in generazione, fino a diventare le pannocchie di granoturco. Tutto ciò è confermato dall’archeologia: in una caverna messicana è stata rinvenuta una sequenza di pannocchie di lunghezza sempre maggiore, da 2 a 20 cm circa. Ancora una volta, proprio la caratteristica che rendeva il mais più appetibile per gli uomini lo rendeva anche più vulnerabile. Una pianta con una grande spiga non può propagarsi da un anno all’altro, perché quando la spiga cade a terra e i chicchi germogliano la presenza di tanti chicchi vicini che si disputano i nutrienti del suolo fa sì che nessuno di loro riesca a crescere. Perché una pianta cresca, il chicco dev’essere separato manualmente dalla pannocchia e piantato a una distanza sufficiente dagli altri, operazione che solo gli esseri umani possono fare. In sintesi, siccome i chicchi di mais si erano ingrossati, la pianta finì per dipendere dall’uomo per la sua sopravvivenza.
Quel che era cominciato come un processo di selezione involontario diventò alla fine una scelta, quando i primi contadini cominciarono a propagare di proposito le caratteristiche desiderabili. Trasferendo il polline dal pennacchio di una pianta alla barba, cioè l’infiorescenza femminile, di un’altra, fu possibile creare nuove varietà che combinavano gli attributi dei genitori. Queste nuove varietà dovevano essere tenute separate dalle altre, per evitare che perdessero le caratteristiche selezionate. L’analisi genetica suggerisce che, molto probabilmente, il progenitore del mais fu un particolare tipo di teosinte proveniente dal bacino del fiume Balsas. Altre analisi di varietà regionali di questo teosinte inducono a ritenere che il mais sia stato domesticato per la prima volta nel Messico centrale, al confine tra gli odierni stati di Guerrero e Michoacán. Da qui, il mais si diffuse e diventò una coltura fondamentale per i popoli di tutte le Americhe: gli Aztechi e i Maya in Messico, gli Inca in Perú e molte altre tribù e culture del Nord, Centro e Sud America.
Il mais, tuttavia, poté diventare un alimento importante solo grazie a un’altra svolta tecnologica; è infatti povero di niacina, una vitamina, e di lisina e triptofano, due aminoacidi, tutti elementi essenziali di una dieta sana. Dove il mais era solo uno dei tanti cibi disponibili, tale carenza non era significativa, perché compensata da altri alimenti, come i fagioli e la zucca. Ma una dieta in cui il mais è l’ingrediente base è causa di pellagra, una malattia nutrizionale caratterizzata da nausea, dermatiti, ipersensibilità alla luce e demenza. (Forse, alla base dei miti sui vampiri del Vecchio continente, c’è proprio l’ipersensibilità alla luce dovuta alla pellagra, dopo l’introduzione del mais nell’alimentazione europea nel XVIII secolo.) Per fortuna, è possibile rendere “sicuro” il mais trattandolo con calce spenta (idrossido di calcio), nella forma di cenere di legna o di gusci sbriciolati; aggiunta direttamente nella pentola o mescolata con acqua, dà una soluzione alcalina in cui ammollare il mais per una notte. Grazie a questo accorgimento i chicchi si ammorbidiscono e quindi diventano più facili da preparare, il che probabilmente spiega l’origine di tale pratica. Fatto più importante, sebbene meno visibile, questo trattamento libera gli aminoacidi e la niacina, che nel mais esiste in una forma inaccessibile o “legata” detta niacitina. Gli Aztechi chiamavano i chicchi trattati nixtamal; per questo oggi si parla di processo di nixtamalizzazione. A quanto sembra, questa pratica era sviluppata già nel 1500 a.C.; senza di essa, non si sarebbero avute le grandi civiltà delle Americhe.
Tutto ciò dimostra che il mais non è affatto un cibo spontaneo. Il suo sviluppo, infatti, è stato definito da un moderno scienziato come la più incredibile impresa di domesticazione e modificazione genetica mai compiuta. È una tecnologia complessa, sviluppata dagli uomini nel corso di molte generazioni fino a quando il mais non fu più in grado di sopravvivere da solo in natura, ma cominciò a fornire abbastanza cibo da sostentare intere civiltà.
L’innovazione dei cereali
Il mais è soltanto uno degli esempi più eclatanti. Le due altre colture più importanti del mondo, che furono alla base delle civiltà rispettivamente del Vicino Oriente e dell’Asia, sono il grano e il riso. Anch’esse sono il risultato di processi selettivi operati dall’uomo, che propagò le mutazioni desiderabili così da creare cibi più pratici e abbondanti. Come il mais, sia il grano sia il riso sono cereali, e la differenza sostanziale tra le forme selvatiche e quelle domesticate è che quest’ultime sono “infrangibili”. I chicchi sono attaccati a un’asse centrale, il rachide. Via via che i chicchi selvatici maturano il rachide diventa più fragile, tanto che una folata di vento può spezzarlo, rovesciandone i chicchi a terra come semi. Dal punto di vista della pianta, questo ha perfettamente senso, perché in tal modo i chicchi si disperdono solo nel momento in cui sono giunti a maturazione, ma, dal punto di vista degli esseri umani, che i chicchi vorrebbero raccoglierli, è alquanto scomodo.
In una piccola percentuale di piante, però, un’unica mutazione genetica implica che il rachide non diventi fragile, anche quando i chicchi sono maturi. È il cosiddetto “rachide robusto”. Questa mutazione è indesiderabile per le piante, perché non possono più disperdere i semi, ma è molto utile per gli esseri umani che raccolgono la granella del frumento selvatico, e che quindi prediligeranno le piante a rachide robusto. Se una parte dei chicchi viene poi piantata per produrre un raccolto l’anno dopo, la mutazione a rachide robusto verrà propagata, e ogni anno la percentuale di mutanti aumenterà. Gli archeologi hanno dimostrato con alcuni esperimenti sul campo che andò proprio così. Secondo le loro stime, le piante con rachidi robusti e infrangibili diventarono predominanti nell’arco di duecento anni, che grossomodo è anche il tempo impiegato per la domesticazione del grano, perlomeno in base ai ritrovamenti archeologici. (Nel mais, la pannocchia è di fatto un gigantesco rachide infrangibile. )
Come nel caso del granoturco, durante il processo di domesticazione i protocontadini selezionarono altre caratteristiche desiderabili nel grano, nel riso e in altri cereali. Nel grano, ad esempio, una mutazione fa sì che le glume coriacee che avvolgono tutti i chicchi si separino più facilmente, dando così varietà “autotrebbianti”. I singoli chicchi sono però meno protetti, quindi anche questa mutazione è una disgrazia per la pianta ma una manna per i contadini, perché battendo i fasci di grano su un pavimento di pietra la granella si separa più facilmente. Al momento di raccogliere i chicchi dal pavimento, quelli più piccoli o con le glume ancora attaccate venivano scartati, a favore di quelli più grossi e senza glume. E così queste utili mutazioni vennero propagate.
Un altro tratto che molte colture domesticate hanno in comune è la perdita della dormienza, quel naturale meccanismo temporale che determina la germinazione di un seme. Molti semi per germogliare esigono specifici stimoli, come il freddo o la luce, così da essere sicuri di germinare in condizioni favorevoli. I semi che rimangono dormienti finché il clima è freddo, ad esempio, non germineranno in autunno, ma aspetteranno la fine dell’inverno. Detto questo, agli agricoltori spesso farebbe comodo che i semi germogliassero subito dopo la semina. Dato un certo gruppo di semi, alcuni dei quali in stato di dormienza e altri no, è chiaro che quelli che germinano subito hanno maggiori possibilità di essere raccolti e quindi di generare nuovi semi. Dunque qualsiasi mutazione che elimini la dormienza tenderà a essere propagata.
Analogamente, i cereali selvatici germinano e maturano in periodi diversi. Questo fa sì che, qualunque sia l’andamento delle piogge, almeno una parte dei chicchi maturerà e quindi fornirà i semi per l’anno seguente. Mietere un campo intero di cereali nello stesso giorno, però, favorisce i chicchi che maturano insieme. I chicchi troppo o troppo poco maturi saranno meno vitali quando verranno seminati l’anno dopo. L’effetto è quello di ridurre la variazione dei tempi di maturazione da un anno all’altro, in modo che l’intero campo maturi nello stesso momento. Ancora una volta, è una sfortuna per la pianta, perché significa che l’intero raccolto può venire a mancare, ma per l’uomo è indubbiamente più comodo.
Anche nel caso del riso l’intervento umano aiutò a propagare le proprietà desiderabili; nella fattispecie piante più alte e grandi, che agevolavano la raccolta, più ramificazioni secondarie e chicchi più grossi per aumentare la produzione. Ma la domesticazione ha anche reso il grano e il riso più dipendenti dall’intervento umano. Il riso ad esempio perse la capacità di sopravvivere nelle acque alluvionali, perché troppo “viziato” dagli agricoltori. Non solo; sia il riso sia il grano faticarono sempre più a riprodursi a causa del rachide infrangibile, frutto della selezione umana. La domesticazione di grano, riso e mais, i tre cereali più importanti, e dei loro cugini orzo, segale, avena e miglio, furono tutte variazioni sullo stesso familiare tema genetico: cibo più facile, piante meno resistenti.
Lo stesso baratto si ebbe quando gli esseri umani addomesticarono gli animali con lo scopo di ottenere cibo, a cominciare dalle pecore e dalle capre del Vicino Oriente intorno all’8000 a.C., cui seguirono poco dopo i bovini e i maiali. (I maiali furono addomesticati indipendentemente in Cina all’incirca nello stesso periodo, mentre i polli nel Sudest asiatico intorno al 6000 a.C. ). La maggior parte degli animali domestici ha cervelli più piccoli e i sensi della vista e dell’udito meno acuti rispetto ai loro antenati selvatici. Questa mutazione riduce la loro capacità di sopravvivere allo stato brado, però li rende più docili, qualità apprezzata dagli allevatori.
Gli esseri umani divennero dipendenti dalle loro creazioni e viceversa. Fornendo una fonte di cibo più sicura e abbondante, l’agricoltura fornì anche le basi per nuovi stili di vita e società assai più complesse. Queste culture facevano affidamento su una varietà di alimenti, ma i più importanti erano i cereali: grano e orzo nel Vicino Oriente, riso e miglio in Asia e mais nelle Americhe. Le civiltà che sorsero su queste fondamenta “commestibili”, compresa la nostra, devono la propria esistenza a questi antichi prodotti dell’ingegneria genetica.
Presenti fin dalla creazione
Tale debito è riconosciuto da molti miti e leggende in cui la creazione del mondo e l’avvento della civiltà dopo un lungo periodo di barbarie sono intimamente legati a queste colture vitali. Gli Aztechi del Messico, ad esempio, credevano che gli uomini fossero stati creati cinque volte, e che ogni generazione fosse un miglioramento della precedente. Secondo il mito, il teosinte fu l’alimento principale dell’uomo nella terza e nella quarta creazione. Alla fine, nella quinta creazione, l’uomo si nutrì di mais. Solo allora prosperò e i suoi discendenti popolarono il mondo.
Anche la storia della creazione dei Maya del Messico meridionale, narrata nel Popol Vuh (o “libro sacro”), parla di ripetuti tentativi di creare il genere umano. Dapprima gli dei plasmarono creature d’argilla, che però vedevano a stento, non potevano muoversi e presto furono sciolte dall’acqua. Così gli dei ci riprovarono, ma questa volta forgiarono l’uomo dal legno. Queste creature sapevano camminare a quattro zampe e pure parlare, ma non possedevano né sangue né anima, e non onoravano gli dei. Così vennero distrutte ed ebbero come unici discendenti le scimmie che si dondolano sugli alberi. Alla fine, dopo una lunga discussione sulla giusta scelta degli ingredienti, gli dei crearono una terza generazione di uomini, usando le pannocchie bianche e gialle del mais: «Di mais giallo e di mais bianco fecero la carne degli uomini; con pasta di mais ne plasmarono braccia e gambe. Unicamente pasta di mais finì nella carne dei nostri padri, i quattro uomini che furono creati». I Maya credevano di discendere da quei quattro uomini e dalle loro mogli, create subito dopo i loro consorti.
Il mais compare anche nella storia narrata dagli Inca del Sud America per spiegare le loro origini. In tempi antichi, gli uomini del lago Titicaca vivevano come bestie selvatiche. Il dio del sole, Inti, si impietosì e mandò suo figlio Manco Capac e sua figlia Mama Ocllo, che erano anche marito e moglie, a civilizzare quelle creature. Inti diede a Manco Capac anche una bacchetta d’oro con cui cercare un terreno fertile e adatto al mais. Quando trovò il luogo giusto, la coppia fondò uno stato e insegnò al suo popolo come venerare il dio sole. La peregrinazione di Manco Capac e Mama Ocllo si concluse nella valle di Cuzco, dove la bacchetta d’oro sprofondò senza sforzo nel terreno e scomparve. Manco Capac istruì la sua gente sull’agricoltura e l’irrigazione, mentre Mama Ocllo le insegnò a tessere e a filare, e la vallata diventò il cuore della civiltà Inca. Il mais era considerato dagli Inca una pianta sacra, sebbene anche le patate costituissero una parte importante della loro dieta.
Anche il riso compare in innumerevoli miti nei paesi dove viene coltivato. Nei miti cinesi, ad esempio, giunge a salvare l’umanità che è sul punto di morire di fame. Secondo una leggenda, la dea Guan Yin si impietosì degli umani affamati e, strizzandosi il seno, produsse del latte che riempì le spighe vuote del riso, dando così origine ai chicchi. Poi si schiacciò il seno ancora più forte e ne uscì sangue mescolato al latte, e questa mistura si infilò in alcune piante. Ecco perché il riso esiste nelle due varietà, rossa e bianca. Un altro racconto cinese parla invece di una grande inondazione, alla quale sopravvissero pochi animali da cacciare. Mentre erano in cerca di cibo, alcuni uomini videro un cane venir loro incontro, con la coda piena di granelli gialli. Gli uomini piantarono quei semi, che crescendo diedero riso e permisero di scacciare per sempre la fame. In un’altra serie di miti, diffusi in Indonesia e in tutte le isole dell’Indocina, il riso ha l’aspetto di una fanciulla delicata e virtuosa. La dea del riso indonesiana, Sri, è la dea della terra che protegge gli uomini dalla fame. Una storia racconta che Sri fu uccisa dagli altri dei, per salvarla dalle avance lascive del re degli dei, Batara Guru. Quando il corpo di Sri venne sepolto, dai suoi occhi germogliò il riso e dal suo petto crebbe il riso glutinoso. In preda al rimorso, Batara Guru offrì queste piante agli uomini perché le coltivassero.
Secondo la mitologia dei Sumeri, gli antichi abitanti di quello che oggi è l’Iraq meridionale, dopo che Anu ebbe creato il mondo ci fu un tempo in cui esisteva l’uomo, ma l’agricoltura non era conosciuta. Ashnan, la dea del grano, e Lahar, la dea delle pecore, non erano ancora comparse; Tagtug, il protettore degli artigiani, doveva ancora nascere; Mirsu, il dio dell’irrigazione, e Sumugan, il dio del bestiame, non erano ancora giunti per aiutare l’umanità. Insomma, «il grano […] e l’orzo per le fortunate moltitudini non erano ancora noti», e la gente mangiava erba e beveva acqua. Le dee del grano e delle greggi furono create perché fornissero cibo agli dei, ma per quanto gli dei mangiassero non si sentivano mai sazi. Solo con la comparsa dell’uomo civilizzato, che faceva regolarmente delle offerte votive, gli appetiti celesti furono finalmente placati. Dunque le colture e gli animali domesticati furono un dono per l’uomo, ma gli imposero anche l’obbligo di offrire costantemente cibo agli dei. Questa leggenda conserva il ricordo di un’epoca antecedente all’adozione dell’agricoltura, quando gli esseri umani erano ancora raccoglitori. Analogamente, un inno sumero alla dea del grano descrive un’era barbarica prima della nascita delle città, dei campi, degli ovili e delle stalle, che infine giunge al termine quando la dea del grano inaugura una nuova epoca di civilizzazione.
Le attuali spiegazioni delle basi genetiche della domesticazione vegetale e animale non sono altro che la versione moderna e scientifica di quei miti antichi, sorprendentemente simili nelle diverse parti del mondo. Oggi noi diremmo che l’abbandono della caccia e della raccolta, la domesticazione di piante e animali e l’adozione di uno stile di vita stanziale basato sull’agricoltura segnarono il primo passo dell’umanità verso il mondo moderno, e che quei contadini furono i primi esseri umani moderni “civilizzati”. Certo, la nostra è una spiegazione molto meno pittoresca di quelle avanzate dai diversi miti sulla creazione. Ma, dato che la domesticazione di certi cereali contribuì in modo sostanziale alla comparsa della civiltà, non c’è dubbio che queste antiche leggende contengano molto più che un granello di verità.
Di Tom Standage (traduzione di Susanna Bourlot), estratti "Una Storia Commestibile Dell'Umanità", Codice Edizioni, Torino, Italia, capitolo 1. Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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